
La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.
In due studi realizzati con Emiliano Brancaccio e pubblicati
sulla Rivista di Politica Economica e sullo European Journal of Economics and
Economic Policies, abbiamo cercato di affrontare il tema dei possibili effetti
di un’uscita dall’euro alla luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su
una statistica descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28
episodi di uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre
ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre
variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale
spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di recente,
da una applicazione di quella metodologia è scaturito il contributo di Realfonzo
e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi ad altre variabili
macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la crescita del Pil e
l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione è la seguente: “ […] a
meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle
politiche europee, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da
alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare
l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle
manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle
inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture
materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre
dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione
e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del vecchio sistema di
cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta
tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno
dato avvio a un interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche
a Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due autori,
che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi riferimenti
analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse di assecondare una
retorica di tipo “oracolistico”. A valle della discussione può dunque essere
utile tornare sul terreno della ricerca, approfondendo ulteriormente alcuni
aspetti salienti dei due studi la cui metodologia ha ispirato il recente
contributo di Realfonzo e Viscione.