La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
*Da "Trattato di economia marxista", Ernest Mandel, Capitolo III, Samonà e Savelli
"La
differenza tra la circolazione delle merci
M/1 - D - M/2
e la circolazione del
denaro
D - M - D/1
consiste dunque in questo: nella circolazione delle merci,
l'equivalenza delle merci M/1 e M/2 che
si trovano ai due poli della circolazione, è la condizione necessaria perché le
due operazioni possano effettuarsi. Nessun produttore semplice di merci può
acquistare merci di un valore superiore a quello delle merci che, per parte
sua, ha prodotto e venduto.
Nella circolazione del denaro, invece, la comparsa
di un plusvalore (D/1-D) è la condizione necessaria perché la circolazione
possa effettuarsi; nessun proprietario di capitale monetario farà 'circolare', 'lavorare', 'rendere' il suo denaro
per vedersi ritornare in tasca esattamente lo stesso ammontare che ne era
uscito!
... Il capitale
ed il plusvalore fanno la loro comparsa solo con lo sviluppo degli scambi e del denaro, e con l'impiego di una
maggiore produttività media del lavoro, non più per consentire a tutta la società di realizzare una
economia di tempo di lavoro, ma per assicurare a una parte della società i prodotti di questa accresciuta
produttività, sottoponendo a uno sforzo di lavoro sempre più duro l'altra parte
della società. Il capitale è il punto d'arrivo della storia dell'appropriazione
del sovrapprodotto sociale ad opera di una parte della società a spese di
un'altra, e non il punto d'arrivo della storia dell'economia del lavoro umano effettuata
a profitto della società umana nel suo insieme.
L'appropriazione del plusvalore prodotto durante il
processo di produzione presuppone un'economia mercantile, la vendita di merci
prodotte da produttori non proprietari dei prodotti del lavoro." Il plusvalore
è, in questo senso, la forma monetaria
del sovrapprodotto sociale."
*Da "Trattato di economia marxista", Ernest Mandel, Capitolo II, Samonà e Savelli
"Il sistema di scambio
generalizzato coincide con gli inizi dell'artigianato professionale
all'interno del villaggio o della tribù. Ma questa specializzazione è una
specializzazione in seno a una comunità
di villaggio. Gli artigiani che abbandonano sempre più il lavoro agricolo
ricevono la sussistenza come ricompensa dei loro servizi. Lo scambio
all'interno del villaggio o della tribù resta dunque rudimentale.
Il produttore di merci non vive più direttamente dei prodotti
del suo lavoro; al contrario, non può sostentarsi che a condizione di disfarsi di questi prodotti. Vive, come dice Glotz degli artigiani
greci dell'epoca omerica, esclusivamente
del suo lavoro.
L'incremento del sovrapprodotto al di là di un limite ristretto
(riserva di viveri) non è il risultato di uno sviluppo autonomo dell'economia.
E' il risultato dell'intervento di pressioni
esterne, economiche (scambio) o sociali (appropriazione del surplus da parte di un potere centrale o
di una classe dominante.
Lo sviluppo di una classe dominante presuppone l'esistenza
di un sovrapprodotto sociale. Mentre un primo sviluppo del sovrapprodotto precede effettivamente qualsiasi costituzione
di una classe dominante, quest'ultima
assicura poi un'espansione maggiore di questo sovrapprodotto e un nuovo
sviluppo delle forze produttive.
...Un rapporto d'equivalenza tra due prodotti, tra due merci,
esige una misura comune, una quantità commensurabile comune. Il valore d'uso di una merce dipende
dall'insieme delle sue qualità fisiche, che ne determinano l'utilità.
L'esistenza di questo valore d'uso è una condizione indispensabile per la
comparsa del valore di scambio:
nessuno, infatti, accetterebbe in cambio del suo prodotto una merce senza
utilità, senza valore d'uso per nessuno. Ma il valore d'uso di due merci,
espresso nelle qualità fisiche , è incommensurabile; non si può misurare con
un'unità comune il peso del grano, la
lunghezza di una tela, il volume dei vasi, il colore dei fiori. Per consentire uno scambio reciproco tra questi
prodotti, bisogna cercare una qualità comune a tutti che possa al tempo stesso
essere misurata e quantitativamente espressa, e che dev'essere una qualità sociale, accettabile per tutti i
membri della società.
Ma se le merci sono il prodotto di un lavoro specifico
determinato, queste merci sono inoltre il prodotto del lavoro umano sociale, cioè di una parte del tempo globale
disponibile per una determinata società, e sulla cui economia la società è
basata, come abbiamo appena indicato. E' questo fatto che rende le merci
commensurabili; è il lavoro umano generale - definito astratto perché viene
fatta astrazione dal suo carattere specifico ... - che è la base del valore di scambio.
...Sul mercato in cui si incontrano i prodotti del lavoro di
villaggi diversi, se non di diverse regioni , i valori di scambio si
stabilizzano d'ora innanzi secondo medie
sociali. Non è il numero di ore di lavoro effettivamente spese per la
fabbricazione di un oggetto a determinarne il valore, ma il numero di ore di
lavoro necessarie per fabbricarlo nelle condizioni medie di produttività della società dell'epoca.
...Il lavoro umano nelle società primitive era un lavoro direttamente sociale. Nella piccola
società mercantile il lavoro individuale acquista il carattere di lavoro
sociale solo indirettamente,
attraverso il meccanismo dello scambio, il gioco della legge del valore.
Con la piccola produzione mercantile non raggiungiamo che
una fase transitoria tra una società retta coscientemente dalla cooperazione
del lavoro e una società in cui la completa dissoluzione dei legami comunitari
non lascia più posto se non a leggi 'obbiettive', cioè cieche, 'naturali',
indipendenti dalla volontà degli uomini, per reggere e governare le attività
economiche."
da sei mesi il governo greco combatte una battaglia in
condizioni di soffocamento economico senza precedenti, per
implementare il mandato che ci avete dato il 25 gennaio.
Il mandato che stavamo negoziando coi nostri partner
chiedeva di mettere fine all'austerità e permettere alla prosperità ed alla
giustizia sociale di tornare nel nostro paese.
Era un mandato per un accordo sostenibile che rispettasse la
democrazia e le regoli comuni europee, per condurre all'uscita finale dalla
crisi.
Durante questo periodo di negoziazioni, ci è stato chiesto
di mettere in atto gli accordi fatti col precedente governo nel
"memorandum", nonostante questi fossero stati categoricamente
condannati dal popolo greco nelle recenti elezioni.
Comunque, nemmeno per un momento abbiamo pensato di
arrenderci, cioè di tradire la vostra fiducia.
dopo cinque mesi di dure contrattazioni, i nostri partner,
sfortunatamente, hanno rilanciato all'eurogruppo di due giorni fa un ultimatum
alla democrazia greca ed al popolo greco.
Un ultimatum che è contrario ai principi fondanti ed ai
valori dell'europa, i valori del progetto comune europeo.
Hanno chiesto al governo greco di accettare una proposta che
accumula un nuovo insostenibile peso sul popolo ellenico e colpisce profondamente
le possibilità di recupero dell'economia e della società greche. Una proposta
che non soltanto perpetua lo stato di incertezza ma accentua persino le
disuguaglianze sociali.
La proposta delle istituzioni include: misure per
un'ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni,
ulteriori riduzioni nel salario minimo del settore pubblico e incremento
dell'IVA su cibo, ristorazione e turismo, eliminando inoltre le agevolazioni
fiscali per le isole greche.
Queste proposte violano direttamente fondamentali diritti
europei, mostrano che riguardo a lavoro, uguaglianza e dignità, lo scopo di
alcuni partners e istituzioni non è il raggiungimento di un buon accordo per
tutte le parti, ma l'umiliazione dell'intero popolo greco.
Queste proposte sottolineano in particolare l'insistenza del
Fondo Monetario Internazionale in una dura e punitiva austerity, e sottolineano
più che mai la necessità per i grandi poteri europei di prendere iniziative che
conducano al termine della crisi del debito sovrano ellenico. Una crisi che
colpisce altri paesi europei e che sta minacciando il futuro prossimo
dell'integrazione continentale.
Amici greci,
in questo momento pesa sulle nostre spalle, attraverso le
lotte ed i sacrifici, la responsabilità storica del popolo greco per il
consolidamento della democrazia e della sovranità nazionale. La nostra
responsabilità per il futuro del nostro paese.
E la nostra responsabilità ci richiede di rispondere
all'ultimatum sulla base del mandato del popolo greco.
Pochi minuti fa alla riunione di gabinetto ho proposto
l'organizzazione di un referendum, perché il popolo greco possa decidere in
maniera sovrana.
Questa proposta è stata accettata all'unanimità.
Domani la la camera dei rappresentanti sarà convocata
d'urgenza per ratificare la proposta del gabinetto per un referendum la
prossima domenica, 5 luglio, sull'accettazione o il rigetto della proposta
delle istituzioni.
Ho già informato della mia decisione il presidente francese
e la cancelliera tedesca, il presidente della BCE e domani una mia lettera
chiederà formalmente ai leader della UE ed alle istituzioni di estendere per
pochi giorni il programma attuale in modo da permettere al popolo greco di
decidere, libero da ogni pressione e ricatto, come richiesto dalla costituzione
del nostro paese e dalla tradizione democratica europea.
Amici greci,
al ricatto dell'ultimatum che ci chiede di accettare una
severe e degradante austerità senza fine e senza prospettive di ripresa
economica, vi chiedo di risponde in maniera sovrana e orgogliosa, come la
nostra storia ci chiede.
Ad una austerità autoritaria e violenta, risponderemo con la
democrazia, con calma e decisione.
La Grecia, il luogo di nascita della democrazia, manderà una
forte e sonora risposta all'Europa ed al mondo.
Mi impegno personalmente al rispetto dei risultati della
vostra scelta democratica, qualsiasi essi siano.
Sono assolutamente fiducioso che la vostra scelta onorerà la
storia del nostro paese e manderà un messaggio di dignità al mondo.
In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che
l'europa è la casa comune dei popoli. Che in europa non ci sono proprietari ed
ospiti.
La Grecia è e rimarrà una parte fondamentale dell'europa, e
l'europa è una parte della Grecia. Ma senza democrazia, l'europa sarebbe
un'europa senza identità e senza bussola.
Vi invito a mostrare unità nazionale e calma e fare la
scelta giusta.
Per noi, per le generazioni future, per la storia dei greci.
Per la sovranità e la dignità del nostro popolo." (Alexis Tsipras)
*Da "Trattato di economia marxista", Ernest Mandel, Capitolo I, Samonà e Savelli
"...né l'agricoltura né l'allevamento procurano istantaneamente il cibo necessario al mantenimento della tribù e occorre una riserva di viveri per coprire il periodo che separa la semina dal raccolto. Per queste ragioni, né l'agricoltura né l'allevamento hanno potuto essere adottati sulle prime come principale sistema di produzione di un popolo, ma fanno la loro comparsa a tappe, sono anzitutto considerati come attività secondaria rispetto alla caccia e alla raccolta di frutta, e per lunghissimo tempo continuano a essere integrati da queste attività, anche quando costituiscono già la base della sussistenza popolare. ...La 'rivoluzione neolitica', per la prima volta dagli albori dell'umanità, sottopone la produzione dei mezzi di sussistenza al controllo diretto dell'uomo: ecco la sua importanza capitale. La raccolta di frutta, la caccia e la pesca sono metodi 'passivi' di rifornimento. Riducono o, nel migliore dei casi, mantengono a un livello dato la somma delle risorse che la natura mette a disposizione dell'uomo su un territorio determinato. L'agricoltura e l'allevamento, viceversa, sono metodi 'attivi' di rifornimento, perché accrescono le risorse naturali disponibili per l'umanità e ne creano di nuove. Con l'impiego dello stesso lavoro, la quantità di viveri a disposizione degli uomini può essere decuplicata. Questi metodi rappresentano dunque un accrescimento enorme della produttività sociale del lavoro umano."
Come certamente sapete, un luogo comune è una frase fatta,
un argomento banale e non motivato. Sapete anche che cos’è uno stereotipo? Le
definizioni che ne danno due dizionari della lingua italiana sono: “Opinione
precostituita, non acquisita sulla base di un’esperienza diretta, e scarsamente
suscettibile di modifica” (Garzanti); “Percezione o concetto rigido e
semplificato o distorto di un aspetto della realtà, in particolare di persone o
gruppi sociali” (Zingarelli). Anche se non ce ne rendiamo conto, viviamo in
mezzo a luoghi comuni e stereotipi che seguiamo senza rendercene conto,
semplicemente perché sono comodi. Ci consentono infatti di avere opinioni su
tante cose, anche senza conoscerle. Capita che, anche quando facciamo
un’esperienza diretta, questa venga falsata dagli stereotipi che abbiamo già in
mente (e che diventano perciò pregiudizi). Gli stereotipi riguardano gli
argomenti più diversi: le donne e gli uomini, le categorie sociali (ad esempio
i carabinieri, bersagli di tante barzellette…), le popolazioni di determinate
regioni (l’avarizia dei genovesi…), paesi e popoli (l’ordine e la disciplina
dei tedeschi…). Luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi, in un certo senso sono
altrettanti gradini di una scala che ci allontana da una conoscenza corretta e
scientifica. La storia – come tutte le altre scienze, sia quelle sociali che
quelle della natura, ciascuna nei suoi campi di pertinenza –può e deve servire
anche a riconoscere e a rimuovere gli stereotipi, un po’ come fal’anticalcare
contro le incrostazioni in bagno e in cucina. In entrambi i casi, ovviamente,
l’efficacia dipende anche dalla durezza delle incrostazioni!
Tra i molti temi sui quali gli stereotipi abbondano, vi è
quello delle migrazioni: tema che nell’Italia di oggi significa soprattutto
l’immigrazione dalla sponda opposta del Mediterraneo, oltre che da altre parti
del mondo.
Nel mondo del XXI secolo è ormai comune l’idea che le grandi
migrazioni non siano un motore primario della società, ma piuttosto una
componente anarchica del cambiamento sociale, la tessera deformata di un
mosaico che non trova la sua appropriata collocazione, un “rumore” di fondo che
disturba il regolare ronzio della vita sociale. In realtà le migrazioni hanno
sempre assolto un ruolo fondamentale nella storia.
L’ultimo secolo, dalla prima guerra mondiale a oggi, è stato
segnato da un percorso irregolare, da politiche contradditorie, dall’impatto
dei grandi shock bellici sui trasferimenti di persone, dalla separazione
dell’oriente europeo dal resto del continente (durante la guerra fredda),
dall’inversione del ciclo migratorio – con l’Europa che da esportatrice diventa
nuovamente importatrice di risorse umane – e dall’impatto profondo del ciclo
demografico. Negli ultimi decenni, dagli anni 70 del Novecento, le politiche
migratorie si sono fatte più restrittive e più selettive, mentre le pressioni
aumentano per ragioni sia demografiche che economiche generate dai divari
Nord-Sud.
La demografia depressa del continente rende dunque
inevitabile un forte aumento dell’immigrazione, che ha sia una funzione di
rimpiazzo generazionale, sia una funzione di risposta alle esigenze del mercato
del lavoro. Nonostante l’attuale crisi economica, infatti, c’è una domanda del
mercato per le qualifiche più modeste, poco remunerate (edilizia, lavori
stagionali agricoli, lavoro manuale nell’industria e nei servizi, come le
pulizie, assistenza agli anziani, ecc.) e scarsamente appetite dalla manodopera
nazionale.
In questo contesto, senza una rilevante immigrazione, le
forze di lavoro scenderebbero dal 226 milioni nel 2005 a 160 nel 2050. Anche
riassorbendo l’attuale disoccupazione e aumentando i tassi di occupazione
femminile, bisognerebbe alzare di 10 anni l’età del pensionamento, in modo che
alla metà del XXI secolo dovrebbero essere al lavoro tre persone su quattro tra
i 60 e i 75 anni (oggi, in quella classe di età è attiva solo una persona su
sette).
Come il Novecento è stato il secolo della grande crescita
della popolazione mondiale, il Duemila sarà quello del suo invecchiamento, con
tempi diversi nelle differenti parti del mondo. Forse dal prossimo secolo si
avrà una decrescita generalizzata, ma nel futuro prossimo la decrescita, se non
corretta da immigrazioni, porterà problemi che saranno tanto maggiori nei paesi
(come l’Italia) ove essa è più intensa.
la proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’ ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Insomma, Bergoglio-Francesco ha la sua originaria ed onesta
ispirazione gesuitico-francescana, abbastanza sociale, la Chiesa cattolica
cerca il riposizionamento in un mondo che cambia con estrema rapidación, come
dice Francesco stesso e in termini di marketing della evangelizzazione i
protestanti usano gli scandali sessuali dei cattolici ed i cattolici censurano
il loro smodato amore per il denaro. Il senso finale dell’enciclica infatti, è
quello che il denaro ordina ciò che dovrebbe ordinare l’etica della relazione
alla luce di una concezione complessa dell’uomo e del mondo. Questo i giornali,
più di tanto non lo sottolineano e così Obama può plaudire il papa verde
riducendone la policromia delle tesi ad una frequenza sola. (P. Fagan)
(Questo discorso è stato tenuto da Yanis Varoufakis al Forum
Ambrosetti il 14 marzo 2015)
Marzo 1971. L’Europa si prepara al ‘Nixon Gold Shock’, e
comincia a progettare una unione monetaria europea, più vicina al Gold Standard
che al sistema di Bretton Woods, ormai al tramonto. È in questo clima che
l’economista Nicholas Kaldor, dell’Università di Cambridge, pubblica un
articolo su The New Statesman. Cito:
… sarebbe un errore pericoloso credere che un’unione monetaria
ed economica possa precedere un’unione politica; o illudersi che l’unione
monetaria funzionerà (secondo i termini del rapporto Werner) “da catalizzatore
per l’evoluzione dell’unione politica, della quale nel lungo termine non potrà
comunque farne a meno”. La creazione di una unione monetaria e di una aurorità
comunitaria di controllo sui bilanci nazionali genererà infatti pressioni tali
da portare il sistema al collasso; questo condurrà ad una brusca frenata del
processo d’integrazione politica, invece di accelerarla.
Purtroppo, il lungimirante avvertimento di Kaldor fu
ignorato; si preferì un retorico ottimismo sul tema dell’unione monetaria
capace di creare legami più profondi fra le nazioni europee. Anche un’eventuale
crisi del settore finanziario (come quella del 2008), avrebbe costretto i
dirigenti europei a pervenire all’unione politica, comunque necessaria.
*Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole
Contrapposta ad una versione 'naturalistica' del marxismo, la concezione kantiana - così difficilmente riconducibile alla compattezza di un unico disegno - poteva offrire ad un ambiente politico-culturale, scosso in alcune sue convinzioni fondamentali (valga per tutte la fiducia che lo svolgersi del sistema capitalistico avrebbe funzionato quale 'naturale' introduzione all'evoluzione in senso socialista dei rapporti sociali), la possibilità di un ancoraggio teorico più duttile, più articolato.
In questo senso, l'enfasi kantiana sulle 'dissonanze' dell'esperienza poteva servire assai bene a combattere le sicurezze di certo materialismo, che in realtà appiattiva sia la lezione di Darwin che quella della tradizione dialettica.
(S. G.)
"da una lettera...del 12 maggio 1895, apprendiamo ... che già Engels (attribuiva) all'influenza (dell') ambiente neokantiano ... l'incapacità dei giovani socialisti tedeschi di 'estrazione intellettuale' a capire il modo di validità delle categorie e i concatenamenti dimostrativi del Capitale."
(B. Besnier, "Conrad Schimidt e l'inizio della letteratura economica marxista")
"La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere
dello Stato, e ne fa uso, per "regolare" il salario, cioè per
costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per
prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado
normale di dipendenza. E’ questo un momento essenziale della cosiddetta
accumulazione originaria" [...]
"I vari momenti dell’accumulazione originaria si
distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra
Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII
quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema
coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico
moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come p. es. il
sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza
concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il
processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione
capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni
vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza
economica"
[Marx, Il capitale. Critica
dell’economia politica]
...Il mio Marx, è bene confessarlo subito, è sempre e ancora il
Marx della teoria del lavoro astratto, della teoria del valore e del
plusvalore, della teoria del denaro: più precisamente, della costituzione
monetaria del comando capitalistico sul lavoro vivo, e della lotta delle classi
innanzi tutto nel cuore della produzione. Ma, è bene confessare anche questo:
proprio questo Marx a cui mi riaggancio, e di cui non saprei fare a meno, è per
me un Marx problematico, un Marx pieno di questioni irrisolte cui occorre
sempre e di nuovo tentare di dare risposta. Un Marx, dunque, dove i lavori sono
perennemente in corso. E’ proprio per questo che fare la storia «a ritroso» è
utile ed essenziale, e apre prospettive inedite. Secondo una metafora che è
quella della spirale più che quella del circolo, qualcosa che ci consegna alla
responsabilità: non solo della nostra interpretazione, ma anche della nostra
ricostruzione in positivo della critica dell’economia politica. Fare la storia
a ritroso significa, in realtà, proprio questo: partire dai problemi che noi ci
troviamo squadernati davanti oggi, e significa partire dall’ipotesi di
soluzione che noi intendiamo sperimentare, per far così emergere quegli
interrogativi con cui interrogare gli autori del passato per aiutarci nella
ricerca. Da questo punto di vista, si deve dire, non conta tanto la fedeltà
«filologica» a quello che pensavano gli autori di se stessi. Contano mille
volte di più gli strumenti e le categorie e le piste che questi autori ci hanno
lasciato e che sta a noi saper sfruttare. Un metodo questo che non dovrebbe
risultare poi così strano, visto che è lo stesso impiegato da Marx nelle sue
Teorie sul plusvalore quando ingaggia un confronto con l’economia politica
classica di Smith e Ricardo.
Lo studio che
presento è la continuazione organica di una ricerca iniziata da alcuni anni che
ha dato i suoi primi frutti nel volume apparso alcuni anni fa dal titolo
Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del
“capitale”. Tenendo conto del legame esplicito valgono qui le stesse tre
premesse di carattere generale allora introdotte.
Nella voce Karl Marx per il dizionario enciclopedico Granat
Lenin scriveva: «Il Marxismo è il sistema delle concezioni e della dottrina di
Marx» [Lenin (1914): 9], proseguendo poi con un’esposizione dei principi
generali e concludendo con un capitolo sulla tattica del proletariato. Non intendo
certo pronunciarmi qui su Lenin come personaggio storico, politico o come
pensatore; limitandosi però a questa affermazione, mi pare si possa sostenere
che egli operi una forzatura che è stata poi propria di tutta una tradizione,
alla quale sono appartenuti anche gli oppositori di Lenin. Definirei, infatti,
più propriamente il marxismo come “una prassi politica ispirata alle concezioni
ed alla dottrina di Marx”. La teoria del modo di produzione capitalistico
elaborata da Marx non è infatti – né può essere – immediatamente una teoria
politica; si tratta piuttosto della ricostruzione, ad un altissimo livello di
astrazione, del funzionamento “epocale” della società borghese, che implica
delle linee di tendenza, delle forme di movimento, ma immediatamente non una
politica. Ciò non per negare le esplicite prese di posizione di Marx, né che si
possa utilizzare questa teoria con finalità politiche, ma per stabilire: (i)
che la politica, collocandosi ad un livello di astrazione molto più basso, per
essere raggiungibile ha innanzitutto bisogno di una serie di teorie cuscinetto
che il Moro non ha sviluppato, (ii) che quindi la politica non ha a che fare
solo con le forme – che rappresentano l’oggetto essenziale della teoresi di
Marx – ma anche con le “figure”, che sono via via quei soggetti che in
sottoperiodizzazioni della fase epocale si trovano ad incarnarne la forma di
moto. Così, per fare un esempio, lo “operaio massa” è stato legittimamente
ritenuto una figura di movimento della società capitalista, ma la forma di tale
movimento funziona in altre fasi anche con altre figure, proprio perché non c’è
identità fra forma e figura. Così, se facendo politica Marx si rivolgeva
giustamente all’operaio nella fabbrica, ciò non esaurisce lo spettro
d’applicabilità della sua teoria. Se da una parte si guadagna in ampiezza,
dall’altra si perde in precisione (necessità di teorie cuscinetto).[1] Più in
generale, si può sostenere che a livello politico si agisce inevitabilmente con
le figure, ma una cosa è la tattica ed altra la teoria del modo di produzione
come fase epocale.
Così, Marx ed il marxismo non possono essere la stessa cosa
ed è inevitabile che si debba parlare di “marxismi”, al plurale.[2] Questi
hanno la loro dignità storica e, nel bene e nel male, rappresentano un momento
importante – se non imprescindibile in certi casi – della storia recente, ma si
stia attenti a non operare fuorvianti appiattimenti. Gli oggetti d’indagine
sono, infatti, due. Non si deve d’altronde compiere l’errore opposto, ossia
credere che non sia lecito stabilire quanto i vari marxismi siano stati fedeli
alle indicazioni date da Marx: che non ci sia identità fra forma e figura non
significa neppure che ogni tentativo di applicazione politica vada bene. Come
sempre occorre mostrare le mediazioni (o eventualmente l’assenza di esse).
Credo che
per comprendere il significato profondo della beatificazione di Oscar Arnulfo
Romero (1917-1980), celebrata come un evento mediatico volto a rilanciare
l'immagine positiva della Chiesa cattolica in America Latina, dobbiamo partire
da una ben nota riflessione di Antonio Gramsci: "Ogni religione, anche la
cattolica (anzi specialmente la cattolica, appunto per i suoi sforzi di rimanere
unitaria “superficialmente”, per non frantumarsi in chiese nazionali e
stratificazioni sociali) è in realtà una molteplicità di religioni distinte e
contraddittorie..."
A mio
parere, in generale ciò significa che, se vuole restare un'istituzione
universale e continuare a giocare un ruolo internazionale, la Chiesa cattolica
deve accogliere in sé istanze diverse, anche contrastanti, provenienti dalle
diverse entità regionali, dai differenti strati sociali, dalle difformi
sensibilità culturali, benché non sempre abbia intenzione o alla fine non sia
in grado di dare ad essi risposte concrete.
Un altro
elemento importante e utile per approfondire l'argomento lo ricaviamo dal
concetto di “modello di santità”; concetto utilizzato dagli studiosi del
cristianesimo per contestualizzare storicamente e culturalmente le scelte
operate dall'istituzione ecclesiastica per individuare coloro che possano
rappresentare al meglio lo stile di vita santa, che essa propone e che si fonda
sull'imitazione della vicenda umana di Cristo.
Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole
"Ciò che qui [nella società civile, dunque nella sfera dei rapporti economici moderni o capitalistici] abbiamo di fronte è il mondo dell'apparizione, dell'apparire; Questa sfera è solo apparizione perché i principi non sono nella loro verità, non sono nella loro unità, identità, ma sono reciprocamente contrapposti nella loro diversità ed autonomia; e ciò non è il vero. Ma è al tempo stesso l'universalità che in essi appare, e questo apparire dell'universalità, nella particolarità è ciò che di interessante e di essenziale abbiamo da esaminare... Ciò che è meraviglioso [nell'ambito della società civile] è l'interiore necessità per cui ognuno crede di lavorare per sé, ma l'egoismo si rovescia, e nel lavoro per il proprio fine realizza i fini degli altri." (G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto)
...I margini del gioco, che si aprono alla determinata contrattazione nella compra-vendita della forza-lavoro, danno a me - singolo lavoratore -, che in essa son coinvolto, il senso che quella del salario sia una partita dall'esito non scontato, ché piuttosto è da me che esso dipende: dalle abilità che posseggo, dall'alacrità che testimonio, dalla disponibilità mia al sacrificio, alla costanza. Se, dunque, quella partita si chiude male per me, son io stesso chiamato in causa, è la solidità della mia personalità, che è in questione. Pur se in qualche zona della mia coscienza è presente la consapevolezza che i limiti, entro cui è contenuto il 'gioco' della contrattazione, prescindono da me e dipendono da vicende e situazioni, su cui non ho presa alcuna, proprio questa loro 'distanza', questa loro 'imprevedibilità', 'inafferrabilità', fanno sì, che essa resti sempre sullo sfondo - quasi un inefficace sottinteso.
Eppure, l'analisi economica - ma questo vuol dire l'assunzione di una prospettiva, che non è più quella del lavoratore in quanto singolo, in quanto coinvolto da persona determinata nell'esperienza della contrattazione - mi dice che è legge economica la sostanziale stabilità del salario medio e che, dunque, lo scacco dei miei sforzi è sostanzialmente pre-scritto.
Ma ciò significa due terribili conclusioni: che la realtà effettiva del mio impegno contrattuale prescinde da me, essendo orientata da forze, affatto estranee al mio controllo; e che, addirittura, quella media salariale sostanzialmente stabile è attraverso i miei sforzi - e quelli dei tanti singoli lavoratori -, che va affermandosi. Sono io stesso, insomma, che conduco i miei sforzi al loro scacco; paradossalmente, in quanto si inscrive nella cornice dell'organizzazione capitalistica, il senso di responsabilità scade a moralismo, ad illusoria prospettiva. Peggio: si riduce a momento di quell'hegeliano "universale brulichio", attraverso cui si realizza la regola o 'necessità' capitalistica.
...sviluppando l’analisi di Adam Smith, anche l’altro padre
nobile dell’economia liberale, David Ricardo, già agli albori del
diciannovesimo secolo non poteva più dare credito alla tesi
mitologico-religiosa della mano invisibile delle leggi del mercato le quali,
lasciate liberamente operare, avrebbero automaticamente risolto ogni
squilibrio. Tanto più che le contraddizioni dell’economia capitalistica
continuavano ad aumentare insieme allo sviluppo della moderna plebe.
Ciò porta
Ricardo alla celebre tesi che la ricchezza sociale è come una torta – la cui
grandezza è data in una certa epoca storica – che deve essere spartita fra le
tre componenti fondamentali della società capitalista: i rentiers, i
capitalisti e i lavoratori salariati.
Dunque la parte della ricchezza sociale di cui si appropriano
i lavoratori è necessariamente inversamente proporzionale a quella che si
intascano i rentiers – oggi essenzialmente i finanzieri – e i capitalisti, con
buona pace degli odierni cantori della concertazione e del comune interesse
nazionale.
È, dunque, il conflitto sociale e non la presunta
concertazione a decidere come verrà spartita la torta e se si lascia fare alle
leggi del mercato ad avere la meglio saranno sempre coloro che possono
permettersi di acquistare la forza-lavoro e non coloro che sono costretti a
vendere, perché i primi possono attendere di trovare i migliori offerenti,
mentre i secondi hanno la necessità immediata e assoluta di vendere, pena
l’impossibilità di riprodursi come classe sociale.
*Da "tracciati dialettici (note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa
"<Da premesse contraddittorie, qualunque conclusione è inferibile> Interpreto questo enunciato come un divieto, come l'indicazione di una 'mossa' proibita: ed è proprio per questo, che lo indico con R - in quanto 'regola grammaticale' del calcolo logico. Insomma, attribuisco ad R questo senso: enunciati costruiti secondo il modello indicato, non sono corretti perché renderebbero impossibile il calcolo logico; il divieto implicito in R va rispettato, se l'obbiettivo è giocare quel gioco determinato, detto 'calcolo logico'. Ma rientra la dialettica dentro 'questo' gioco determinato?..."
L’espansione del capitale ha alterato equilibri precedenti,
e non è dimostrabile che costituisca un “progresso”, giacché dovunque arriva
produce sottosviluppo e povertà crescente, oltre che disintegrazione sociale e
distruzione di civiltà. Non solo, ma questi risultati sono necessari alla
sussistenza del meccanismo di accumulazione del capitale stesso. Tanto che al
periodo di rapina nelle regioni del mondo non capitalistiche succede al
presente una tendenziale riduzione al sottosviluppo di zone già capitalistiche,
all’interno delle società cosiddette avanzate o nel pianeta. Così vediamo
ridotti al rango di colonie grandi paesi già liberi e semicapitalistici, e
all’interno del cosiddetto Occidente si riproducono rapporti di lavoro che
credevamo appartenere al passato (sfruttamento dei minori) o addirittura al
lontano passato (riduzione in schiavitù). Non si tratta di fenomeni marginali,
ma della stessa essenza del sistema del capitale al livello più “sviluppato”. L’imperialismo
conduce oggi a una sorta di ricolonizzazione, che parte dalle sfere già
colonizzate ma tende ad allargarsi generalmente. La questione se questo
processo sia ulteriormente possibile è tutt’uno con la domanda se vi sia spazio
per una ulteriore sopravvivenza del sistema che lo postula.
In Italia,
nonostante la finanza,
la tecnologia e
la manodopera il
capitalismo non riuscì
a svilupparsi. Mancava ciò che
Machiavelli esortava a mettere in forma al più presto: uno Stato. È infatti lo
Stato ad operare una prima violenta sincronizzazione delle diverse temporalità
storiche, a produrre, come effetto della concentrazione della Gewalt (violenza
· autorità · potenza) e come reazione alle lotte di emancipazione dei serventi,
lavoratori formalmente liberi
e contrattualizzazione dei
rapporti di lavoro.
Prodotti gli individui
e trasformati in proletari una parte di essi, bisognava disciplinarli al
lavoro: distruggere i precedenti rapporti
consuetudinari e imporre
il diritto astrattamente
uguale in quella
che sarà la lunga
guerra dei Cent’anni contro i diritti collettivi.
Delle lotte operaie hanno così indirettamente messo in
essere una maggiore concentrazione operaia e
quindi anche una
maggiore potenza di
classe. Diversamente, lo
sviluppo tecnologico può permettere anche
una disintegrazione dei
grandi concentramenti operai,
dando luogo a una
centralizzazione finanziaria e
produttiva senza concentrazione di
operai. In questo
caso è il capitale a trovarsi in una posizione di forza,
complice l’ideologia del progresso e lo sviluppo tecnico.
«Questa è la
ragione – scrive ancora Marx
nella Prefazione (Das Kapital) – per
la quale in questo volume ho dato un posto così
esteso, fra l’altro, alla storia, al contenuto e ai risultati della
legislazione inglese sulle
fabbriche».
Se una massa
di proletari era così stata prodotta attraverso la dissoluzione del
sistema feudale, bisognava ora disciplinarla, farla muovere al tempo
cronometrico del mercato:
Questo intervento prende le mosse da un problema teorico
assai dibattuto e che costituisce un topos della riflessione classica sia
antropologica che filosofica. Mi riferisco in particolare alla vexata quaestio
della controversa relazione tra natura e cultura che, negli ultimi decenni, da
quando cioè si è affermato il cosiddetto pensiero postmoderno, è stata
apparentemente risolta mettendo esclusivamente l'accento sulla dimensione
culturale, a cui vengono ridotte tutte le forme di materialità, siano esse di
natura biologica che di natura economica.
Contro questa posizione che, per contrastare il riduzionismo
materialistico, ricade inevitabilmente in una visione di stampo idealistico
definita “culturalismo” (anch'essa riduzionistica seppure in senso diverso),
vorrei richiamarmi a quanto scrive Terry Eagleton nel suo efficace pamphlet (Le
illusioni del postmodernismo, 1998), dove rifiuta la tendenza a dissolvere la
natura nella cultura e viceversa, indicando una ipotesi alternativa, anche se
non certo nuova. Infatti, egli afferma: <<noi... siamo esseri culturali
in virtù della nostra natura, cioè in virtù del corpo che abbiamo e del tipo di
mondo cui esso appartiene>>. A queste parole egli aggiunge una
riflessione, che si ispira certamente all'antropologia di Sigmund Freud, e che
qui riportiamo: <<Poiché nasciamo tutti prematuramente, incapaci di
provvedere a noi stessi, la nostra natura contiene una voragine nella quale la
cultura deve immettersi all'istante, altrimenti periremmo ben presto. E questa
immissione della e nella cultura è insieme la nostra gloria e la nostra
catastrofe>> (1998: 87).
...Specie tra i comunisti si trova spesso quello che dice:
"bisogna legare teoria e pratica e quindi: studia, però poi vai a dare i
volantini". Pensando, in questo modo, di legare teoria e pratica, perché
la si vede un po' cristianamente come una vicenda "mia personale", e
non si comprende che la mediazione avviene per es. nel partito,
nell'organizzazione, nel grande e non nella vicenda personale...
In Kierkegaard è
centrale questo motivo del "commitment" personale, dell'impegno
quotidiano. Ho usato il termine inglese commitment, l'impegno quotidiano,
perché questo del commitment è un problema che si fa sentire molto nel '600/'700,
in particolare attraverso autori inglesi come Locke, come Hume per es. E il
commitment è appunto il fatto che un certo pensiero, una certa teoria ha un
risvolto pratico-operativo, etico-politico. Una certa teoria intanto è
sostenuta in quanto ha quella ricaduta etico-politica, e dunque implica un
atteggiamento da un lato di critica, verso una separatezza della filosofia
rispetto alla dimensione etico-politica, e dall'altro lato ha dietro quella
diffidenza di tipo empiristico, contro la teoria che non sia rapportabile ad
esperienze. Ora aggiungiamo un terzo fattore molto importante che è questo:
alla fine del '700 si afferma nel mondo protestante, il "pietismo".
Il senso fondamentale del pietismo è quello della fede come militanza pratica,
quindi non tanto come momento riflessivo, teologico, quanto invece come impegno
personale, come vincolo a un rispetto costante, una messa in pratica costante
della morale cristiana.
E' molto interessante che sia in Kierkegaard, sia in
Nietzsche, noi troviamo con abbondanza pagine che criticano la società di
massa, quella che noi oggi vediamo tutti i giorni, e che queste menti grandi
hanno anticipato rispetto alla nostra quotidianità; e quindi sia Kierkegaard
sia Nietzsche si sono prestati molto bene a questo atteggiamento di denuncia e
di critica della quotidianità capitalistica. (S. Garroni)
...una volta ridotte le forme socio-economiche al loro
contenuto tecnico-materiale, gli economisti classici considerano esaurito il
proprio compito. Ma proprio dove finisce la loro analisi, Marx inizia la
propria. Poiché non era limitato dall'orizzonte economico borghese, ma lo
considerava uno dei possibili modi storici di organizzazione economica, Marx si
chiese: perché il contenuto tecnico-materiale del processo lavorativo a un dato
livello di sviluppo delle forze produttive si presenta in una particolare,
determinata forma sociale? La formulazione metodologica del problema in Marx
suona approssimativamente: perché il lavoro assume la forma di valore, i mezzi
di produzione quella di capitale, i mezzi di sussistenza dei lavoratori quella
di salario, la crescente produttività del lavoro la forma di un crescente
plusvalore?
"Come in generale
per ogni scienza storica e sociale, nell'ordinare le categorie economiche si
deve sempre tener fermo che, come nella realtà così nella mente, il soggetto -
qui la moderna società borghese - è già dato, e che le categorie perciò
esprimono modi d'essere, determinazioni d'esistenza, spesso soltanto singoli
lati di questa determinata società, di questo soggetto.[...]Anche nel metodo
teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione
come presupposto." (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica)
Partendo dunque da un concreto presupposto sociologico,
dalla struttura sociale di una data economia, l'economia politica deve
anzitutto fornirci le caratteristiche di questa formazione socio-economica e i
rapporti di produzione ad essa specifici. Marx descrive tali caratteri nella
sua "teoria del feticismo della merce", che andrebbe perciò più
correttamente definita una teoria generale dei rapporti di produzione
dell'economia mercantile capitalistica.
Riassumendo, nella 'Sacra Famiglia' la contraddizione è
posta tra l'elemento "umano" dell'economia e le forme materiali
"alienate" ed è un'opposizione tra l'ideale e la realtà. Nella
'Miseria della filosofia' Marx giunge a cogliere la presenza dei rapporti
sociali di produzione sotto l'apparenza reificata delle cose. In 'Per la critica' viene colto
l'elemento specifico dell'economia mercantile nel carattere reificato degli
stessi rapporti di produzione. La descrizione specifica del fenomeno e la
spiegazione della sua oggettiva necessità in una economia mercantile la
troviamo nel I libro del 'Capitale' soprattutto in rapporto al valore di
scambio, al denaro, al capitale. Nel III libro, infine, Marx ci da un'ulteriore
anche se frammentaria trattazione della teoria, nel capitolo sulla 'Formula
trinitaria'. Qui Marx sviluppa il concetto in rapporto alle categorie centrali
dell'economia capitalistica, mettendo in particolare risalto la specifica "connessione"
dei rapporti sociali di produzione con il processo di produzione materiale.
*Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole
Mi pare plausibile che la decisione di Marx ed Engels non solo di non pubblicare, ma neppure di finire 'Die deutsche ideologie' possa spiegarsi esattamente in questo modo: partiti da una sostanziale assimilazione delle tesi neo-hegeliane a quelle dello stesso Hegel, nel corso della loro 'resa dei conti critica', Marx ed Engels penetrano meglio il pensiero di quest'ultimo e, quindi, comprendono l'improponibilità del loro assunto iniziale e la necessità, invece, di un ulteriore approfondimento e sviluppo della lezione hegeliana - che poi, sappiamo, si rivelerà fondamentale per la stesura stessa di 'Das Capital'. A ribadire le ambiguità della Deutsche ideologie, si ricordi come A. Schaff sottolineasse la citazione althusseriana di certi luoghi appunto di questo testo, a sostegno della polemica contro la filosofia/ideologia/metafisica, - polemica che, secondo Schaff, mostra il legame profondo tra marxismo strutturalistico e neo-positivismo.
Ricordiamo allora la genesi della lotta tra il signore e il servo. Qualcuno ha detto che questa lotta a morte è una lotta di puro prestigio. Veramente direi che il vero movente della lotta, hegelianamente, è più razionale: è cioè l'esigenza di una certezza che diventi verità. L'uomo si trova di fronte alle cose, ma si trova di fronte anche all'altro uomo. I due uomini lottano perché ciascuno di essi desidera che l'altro lo riconosca, gli sia sottoposto. Questa lotta è una lotta a morte, e a un certo punto uno dei due combattenti ha paura della morte e si sottomette e quindi riconosce il vincitore, riconosce l'altro. Abbiamo perciò da una parte il signore che si è emancipato dalle cose, si è emancipato dalla natura perché non ha avuto paura di morire, e dall'altra il servo, che invece è rimasto legato alla natura proprio perché ha temuto di morire. Abbiamo quindi una situazione ineguale: da una parte il signore, dall'altra parte il servo. A questo punto però Hegel sottolinea che il servo fa due esperienze essenziali che il signore non fa. La prima è l'esperienza della paura della morte: il servo trema - dice Hegel - "in tutte le sue fibre", cioè non ha una paura particolare, ma ha paura di morire, di non essere. Questa paura è liberatrice, nel senso che il servo sperimenta il suo poter non essere, e quindi sperimenta quella che per Hegel è una caratteristica dell'uomo, cioè la cosiddetta negatività: la possibilità di dire la propria negatività, e anche di imprimere la propria negatività e il proprio fare alle cose. L'altra esperienza che il servo fa e il signore no è quella del lavoro: il servo lavora per il signore e porta al signore i frutti del suo lavoro. Questa esperienza è anch'essa essenziale, perché il servo lavorando imprime se stesso all'oggetto: il suo lavoro traspone nell'oggetto la sua personalità. Così il lavoro - anche se servile, anzi, proprio perché servile -, ha una funzione liberatrice: l'uomo diventa uomo lavorando, formando l'oggetto e formando attraverso ciò se stesso.
Decisiva per questa comprensione dell’appropriazione e
dell’alienazione [estraniazione] è la loro fondazione in un concetto filosofico
di lavoro, che per Marx rappresenta la vera e propria relazione paradigmatica
dell’uomo con il mondo. Il lavoro è qui concepito come un’esteriorizzazione e
un’oggettivazione delle forze essenziali dell’uomo. Detto molto
schematicamente: le «forze essenziali umane» – la volontà, gli scopi, le
capacità dell’uomo – diventano oggettive, si materializzano, solo in quanto
sono «esteriorizzate» nel mondo attraverso il lavoro. La capacità di lavoro,
concepita come un processo materiale di scambio con la natura, trasforma
simultaneamente il mondo e l’essere umano. L’essere umano produce se stesso e
il suo mondo in uno stesso atto. Nel produrre il suo mondo, egli produce se
stesso, e viceversa. E nella misura in cui questo processo riesce, si appropria
allo stesso tempo del mondo oggettivo e di se stesso. Egli si «riconosce» (si
potrebbe tradurre: riconosce la sua volontà e la sua capacità) nelle sue attività
e nei suoi prodotti e trova se stesso attraverso il rapporto con questi ultimi;
egli si «realizza», quindi, in una relazione di appropriazione con il mondo
come prodotto delle sue attività. In questo senso il lavoro – quello non
alienato [non estraniato] – è per Marx una determinazione essenziale dell’uomo.
Ciò che costituisce l’essere umano come tale è il fatto che, a differenza
dell’animale, è capace di dare forma a se stesso e al suo mondo in modo
consapevole e attraverso la cooperazione sociale e che non solo egli «realizza»
se stesso in questo processo ma anche «produce se stesso», nel senso molto
concreto che le sue capacità, i suoi sensi e i suoi bisogni si sviluppano nella
misura in cui egli si rapporta al mondo, lavorando e dandogli forma.
Una vita non alienata, allora, non sarebbe una vita
riconciliata, né felice, forse neanche la buona vita. Non essere alienato
significherebbe, invece, un certo modo di condurre la propria vita e un certo
modo di mettersi in rapporto con se stessi e con le condizioni in cui si vive e
da cui si è determinati: significherebbe potersene appropriare.
*Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole
"Le forme di pensiero, i punti di vista ed i principi fondamentali, che valgono nelle scienze e che sono l'ultimo punto d'arrivo di tutto il restante loro materiale, non sono tuttavia esclusivamente proprie delle scienze, ma piuttosto son comuni alla cultura di un'epoca e di un popolo. La cultura propriamente consiste negli scopi e nelle rappresentazioni generali, nell'insieme di certi poteri spirituali, che reggono la coscienza e la vita. La nostra coscienza possiede queste rappresentazioni, le lascia valere come sue ultime determinazioni, si svolge essa stessa entro le direttrici loro ma, tuttavia, non le sa, non fa di esse l'oggetto e l'interesse della sua ricerca". (G.W.F. Hegel, Werke. Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie, III, Frankfurt/Main 1971)
"Noi riteniamo... che le teorie scientifiche siano influenzate dal pensiero culturale e sociale circostante, e che a loro volta influiscano su di esso. Questo è quanto studi sociali di storia della scienza stanno dimostrando in misura sempre crescente. Non dobbiamo più pensare al contributo apportato dalla scienza al bagaglio delle idee sociali come ad un processo unidirezionale; ancor meno siamo tenuti ad accettare questo contributo in virtù di una qualche certezza peculiare insita nelle teorie scientifiche. Piuttosto, l'influenza è reciproca; e nella nostra concezione riveduta della scienza vi è posto per considerare la teoria scientifica come un modo in cui una cultura esibisce la propria concezione generale del mondo e delle persone, in altre parole, come uno fra i molti insiemi di schemi sociali." (M.A. Arbib - M.B. Hesse, La costruzione della realtà, Bologna 1992)
"(Reichenbach) era convinto che lo sviluppo della scienza, per quanto autonomo nel porsi i propri problemi, si muova sempre parallelamente alle tendenze generali, intellettuali e sociali, che caratterizzano un certo periodo. Minima è la coscienza di questo parallelismo in coloro che massimamente determinano lo sviluppo della scienza... Reichenbach conclude che il parallelismo fra i risultati della scienza di un'epoca poggia su una legge sociologica indipendente, la quale esiste senza che la volontà dei pensatori interessati ne abbia consapevolezza." (Maria Reichenbach, introduzione a H. Reichenbach, Relatività e conoscenza apriori, Bari 1984)
*Da "tracciati dialettici (note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa
...nel settecento, ... iniziava la polemica contro la modernità, non solo in nome della spiritualità dell'uomo, ma anche coll'attribuire alla scienza -"in quanto tale" - colpe, se così si può dire, che sono invece della nascente organizzazione capitalistica della vita e del lavoro. In sostanza - e con tutte le modifiche del caso -, tra gli anni 60 e 70 del nostro secolo, questa critica spiritualistica della modernità si riproponeva, utilizzando - paradossalmente - Marx ed anche Freud per un rinnovato attacco alla scienza, condotto però sotto l'aspetto di una 'nuova' scientificità, che si diceva ricavabile, appunto, elaborando e generalizzando un nucleo contenuto nella psicoanalisi. E' questo il mito, che - salutarmente - è caduto...
F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125. L’uomo folle.
Avete sentito di quel folle uomo che accese
una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare
incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano
raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È
forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro.
“0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” –
gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a
loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo
voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi
assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo
fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero
orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo
sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli?
Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da
tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come
attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è
fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo
accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre
seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della
divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta
morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti
gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad
oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo
sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali
giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza
di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno
degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno
dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di
quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle
uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano
e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in
frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio
tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo
cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono
vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono
tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate.
Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane
costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che
l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e
quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e
interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in
questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri
di Dio?”.
(Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1882, Mondadori, 1971)
*Da "Tracciati dialettici (Note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa
Un luogo centrale dell'incontro fra nuovo Lumpenproletariat e residuali componenti comuniste (del centrismo comunista) è la costante oscillazione tra un 'punto di vista operaio' (ma, in realtà, non più che tradunionistico) e un punto di vista 'piccolo borghese' - radicale -: oscillazione che, com'è ovvio, si conclude - sempre - subordinando il primo al secondo, l'ottica 'operaia' a quella 'radicaldemocratica'. Il tratto d'unione, ciò che consente questo su e giù continuo tra l'uno e l'altro punto di vista, è una bizzarra operazione ideologica (dunque non precisamente culturale), descrivibile in questi termini: (a) La sostituzione effettiva della lotta di classe con l'opposizione fra democrazia e statalismo; (b) l'identificazione della democrazia con la condizione, in cui l'individuo è libero di gestire la propria vita come vuole, a meno che non danneggi per qualche aspetto la vita altrui (in altre parole, la ripresa della classica distinzione inglese fra self-regarding action ed others-regarding action); (c) mancando ormai tale concezione di forti ancoraggi obbiettivi nell'effettiva organizzazione e dinamica del modo di produzione e della formazione sociale, la rivendicazione democratica vien sostenuta da un'ideologia irrazionalistica, che fa perno su melmose categorie come 'vissuto', 'sentimento', 'diversità' ecc. Il proprio di tale situazione ideologica è d'essere autenticamente 'delirante', nel senso di proporre un'immagine del mondo non 'rovesciata' ('a testa in giù', come capitava agli ideologi con cui Marx polemizzava), bensì 'sostitutiva': esattamente come un sogno sostituisce il reale.
...nello sfruttamento il valore di una merce non può mai
essere un equivalente del lavoro impiegato per produrla. La merce contiene un
plusvalore, cioè un valore supplementare che non viene pagato, proprio perché
il salario è stabilito prima della produzione, sulla base di un certo tempo del
lavoro. Finché c'è salario c'è sfruttamento del lavoro. E' vero che il salario
si può contrattare, ma fino a un certo punto, poiché l'eccedenza di
forza-lavoro (dovuta alla mancanza di proprietà privata), gioca a favore del
capitalista, che può imporre un salario minimo di sopravvivenza (quel salario -
si può aggiungere - che andrà oltre la soglia della sopravvivenza in seguito
allo sfruttamento imperialistico della periferia coloniale dei paesi
occidentali).
"Il capitalista - scrive Marx - appena ha pagato
all'operaio l'effettivo valore della sua forza-lavoro [qui Marx vuol dire
"quello stabilito per contratto"], si appropria del plusvalore con
pieno diritto... Nel valore, non 'costituito' dal lavoro del capitalista, c'è
una parte di cui egli può appropriarsi 'legalmente', cioè senza violare il
diritto corrispondente allo scambio delle merci".
Questo significa che il capitalismo è basato sullo
sdoppiamento tra realtà di fatto (la non proprietà dei mezzi produttivi da
parte del lavoratore) e un'astrazione formale (la libertà giuridica
universalmente riconosciuta, indipendentemente dalla propria origine sociale). http://www.homolaicus.com/teorici/marx/wagner.htm
*Da "Tracciati
dialettici (Note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni
Kappa
Wittgenstein sa che, di fatto, procediamo definendo e
classificando non in accordo con le regole essenzialistiche, ma sì percorrendo
tracciati più intricati, più mossi, che egli indica appunto con Family Resemblance - e si noti che l'espressione 'affinità famigliare' ed altre
analoghe si trovano in testi ben precedenti quello di Wittgenstein.
In questo senso
Wittgenstein non ha bisogno di connotare con precisione l'universo
d'applicazione di FR: quell'universo è già dato, fa già parte della comune
pratica definitoria e classificatoria.
Il compito vero è un
altro: portare alla coscienza la varietà delle pratiche classificatorie e
definitorie, mettendone in luce gli andamenti diversi.
*Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole
"In quanto 'determinato', in quanto reale, tu hai una 'determinazione', un compito, ne sia o no cosciente. Questo compito deriva dal tuo bisogno e dalla tua connessione con il mondo presente." (Marx - Engels, Werke III, Berlin 1969)
La critica marxiana all'economia politica è il prodotto, ad un tempo, di istanze propriamente scientifiche e metodologiche, ma anche dell'atteggiamento (ecco un motivo che, certo, è hegeliano, ma anche kantiano) di chi vedeva nel capitalismo la pratica negazione di basilari principi morali. Di chi vedeva nel "sistema della proprietà privata" (è il giovane Marx che cito) l'immorale primato del (capitale) morto sul (lavoro) vivo.