venerdì 24 gennaio 2020

Il problema tedesco - Heiner Flassbeck

Da: contropiano.org - Originariamente pubblicato in tedesco su https://makroskop.eu -  Heiner Flassbeck è un economista tedesco e intellettuale pubblico.
Vedi anche: COME FANNO A PRIVATIZZARE TUTTO: IL SACCO DELLA GERMANIA DELL'EST - Vladimiro Giacché
Leggi anche: Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica. - Francesco Schettino 


Bisogna ammettere che i media mainstream hanno creato un senso comune fasullo, ma decisamente “forte”, tale per cui la Germania attuale non è criticabile. Qualsiasi porcata faccia (e ne ha fatte molte, alcune delle quali oltre limite della rapine, come nel caso della Grecia, affossata per salvare le proprie banche troppo “esposte” verso quel paese).

Siamo perciò al punto che soltanto un tedesco può oggi prendersi la libertà di dire qualcosa di sgradevole nei confronti del pensiero economico dominante nel proprio paese, e che notoriamente passa sotto il nome di ordoliberismo. Ovvero liberismo totale (le imprese e i loro interessi sono al posto di comando), ma lo Stato crea le condizioni (l'”ordine”) per cui questa dominanza possa esprimersi senza ostacoli, anzi, con tante facilitazioni.

Nell’imporre questa visione teorico-ideologica-concretissima anche alle istituzioni europee, ispirandone i trattati e i criteri di funzionamento, la Germania è riuscita nel capolavoro di concentrare sul proprio sistema produttivo e finanziario tutti i vantaggi di una Unione di mercato di quasi mezzo miliardo di abitanti senza mai rischiare di condividere gli oneri di una vera unione politico-statuale.

La sintesi di questi vantaggi unilaterali sta nella libertà di sforare ogni parametro di Maastricht senza mai incappare in nessuna “censura” comunitaria. Prima sforava il deficit ma veniva perdonata perché stava pagando i costi dell’unificazione con la Ddr, poi ha cominciato a sforare – e alla grande – sistematicamente il surplus, ma viene sempre perdonata perché “non si possono punire i virtuosi”. E dire che anche uno studente del primo anno capisce che, in una economia “chiusa” dalle stesse regole se qualcuno va in surplus qualcun altro dovrà andare per forza in deficit…
Ma il vero problema della “teoria economica” dominante in Germania è che… non funziona. E’ un falso clamoroso, una sciocchezza spacciata per “scienza”. Una truffa sul piano della teoria che serve a coprirne decine di altre su quello pratico.

Questa analisi impietosa di Heiner Flassbeck aiuta a ricostruire le ragioni storiche e teoriche di questo “grande abbaglio” che sta distruggendo da circa 20 anni l’economia europea e, da diversi mesi, sta intaccando ora anche l’economia tedesca.

Come accade ai tossicodipendenti, però, questa crisi cancerosa non viene attribuita a un “errore di sistema” ma una insufficiente applicazione delle regole bacate del sistema. E quindi le “nuove regole” che si stanno discutendo ai tavoli europei – dal Mes a Solvency II, alla politica monetaria della Bce – vanno tutte nella direzione del “rafforzamento” della garrota che  strangola tutti.

Contando sul fatto che la morte altrui – delle economia mediterranee, in primo luogo – sarà una buona occasione per mantenere in vita, ancora un po’, quel sistema moribondo, export oriented in tempi di guerre commerciali globali e quando non si ha più quasi nulla da offrire ai “mercati” in termini di innovazione tecnologica (depressa per troppa “austerità”).
Buona lettura. (Contropiano) 

Il mondo ha un problema con la Germania. In Germania, tuttavia, le persone non sono completamente disposte ad ammetterlo. La Germania è diventata un esempio eccellente di dissonanza cognitiva collettiva.
I tedeschi, nel complesso, vorrebbero essere buoni europei. Il problema è che vorrebbero essere i migliori europei. Ma le due cose non vanno insieme: non puoi essere un buon europeo e il miglior europeo allo stesso tempo.
È la stessa storia a livello globale. I tedeschi vorrebbero essere cittadini del mondo alla pari, aperti, tolleranti ed eloquenti. Ma, ancora di più, vorrebbero avere il ruolo di modello globale: salvatore del clima, utilizzatore del vento, adoratore del sole, àncora di stabilità e la più potente nazione commerciale del mondo – tutto allo stesso tempo.
Anche l’unione monetaria tedesco-tedesca è stata un completo successo, secondo questo metro. Chiunque veda le cose diversamente nella Germania dell’Est non ha capito cosa hanno fatto i tedeschi occidentali per liberarlo.
Anche se è ovvio che l’aspirazione e la realtà sono spesso molto distanti, le persone in Germania sono convinte che questo debba essere il caso, perché altrimenti non c’è semplicemente modo di procedere. Gli europei devono rendersi conto che abbiamo a cuore solo i loro migliori interessi. Il mondo deve rendersi conto che siamo gli ingegneri superiori. E gli Ossis (tedeschi orientali) devono capire che la nostra economia di mercato è il sistema superiore. Bisogna usare il giorno della riunificazione tedesca (3 ottobre) per riflettere sul modo di pensare tedesco (occidentale). 


Sia fenice che pedagogo

giovedì 23 gennaio 2020

Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica. - Francesco Schettino

Da: https://www.lacittafutura.it/ -
 Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli) è un economista italiano. (http://www.contraddizione.it/Contraddizioneonline.htm)
Leggi anche: MES, l'intervento di Vladimiro Giacché in audizione alla Commissione Bilancio.
Ascolta anche: https://www.radiondadurto.org/2018/09/15/2008-10-anni-dalla-crisi-tra-passato-e-futuro-di-una-fase-mai-finita-lintervista-a-francesco-schettino/



Il MES è lo strumento del capitale europeo per difendersi dalla concorrenza e scaricare i costi delle ristrutturazioni sui lavoratori. Ecco perché.

La questione del Mes in pillole
Cavalcando il puledro del nazionalismo ormai palesemente vincente in larga parte d’Europa, l’estrema destra italiana ha colto l’occasione della cosiddetta riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per gridare all’ennesimo schiaffo da parte della Germania verso l’Italia e i “poveri” paesi del sud del continente – tentando così di racimolare qualche voto in più in vista delle varie tornate elettorali locali che la vedranno principale attrice.
Prima di tentare di capire come si colloca nella fase attuale e perché una lettura “locale” è giustamente coerente con un quadro proprio delle “teorie” nazionaliste, mentre è incompatibile con una visione di classe dei fenomeni economici, sembra corretto, senza alcuna velleità di essere esaustivi, data la brevità del saggio, almeno descrivere sinteticamente di cosa si tratta.
Per dirla in parole molto semplificate, il Meccanismo europeo di stabilità, come lo stesso acronimo suggerisce, nasce nello stesso ambito politico economico del processo di integrazione politica ed economica iniziato sostanzialmente negli anni ‘90 con il famoso patto di Maastricht, passando per l’adozione della valuta unica tra la fine dello stesso decennio e l’inizio del nuovo millennio, attraversando l’esplosione della crisi post 2008, l’imposizione della disciplina del pareggio di bilancio e il fallimento ellenico “gestito” dalla troika intorno all’anno 2012.
In sostanza il Mes, che sostituisce di fatto il precedente Efsf, Fondo europeo per la stabilità finanziaria, ha l’obiettivo di definire un meccanismo automatico che riduca dunque gli spazi di discrezionalità – di stabilizzazione finanziaria che, attraverso potenziali “aiuti” monetari, di cui si fanno carico i contribuenti di tutti gli stati membri, eviti che eventuali difficoltà legate principalmente al debito di un singolo paese producano effetti contagiosi o di cosiddetto trascinamento per l’intera zona euro. Non a caso, utilizzando un pessimo eufemismo, in gergo viene anche chiamato “fondo salva-stati”.

mercoledì 22 gennaio 2020

sullo scritto di Ernesto Che Guevara "L'uomo e il socialismo a Cuba" - Alessandra Ciattini

Da: Università Popolare Antonio Gramsci - Approfondimenti teorici (Unigramsci) - https://www.facebook.com/unigramsci/ - 
Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
"Mi propongo di leggere insieme ai partecipanti al corso questo testo semplice e al contempo fondamentale per riflettere sull'interrogativo "Esiste un'etica marxista?", e in subordine sugli eventuali contenuti di questa etica. 

Come è noto, si tratta di un argomento assai controverso per varie ragioni, e proprio per questo è stato oggetto di studio da parte di vari autori marxisti, tra i quali menziono il francese Maxilien Roubel, il messicano Adolfo Sánchez Vásquez, il tedesco Ernst Bloch. 

In primo luogo, possiamo sottolineare con Sánchez che nelle opere degli stessi Marx ed Engels si trovano posizioni contraddittorie riguardo la morale, giudicata ideologica e quindi legata ad una certa classe, secondo la classica teoria della sovrastruttura. 

Allo stesso tempo, possiamo leggere affermazioni, il cui contenuto etico è certamente innegabile. 

Per quanto riguarda il primo punto, per esempio, nel Manifesto si può leggere <<Per il proletariato la legge, la morale, la religione sono pregiudizi borghesi che nascondono gli interessi specifici della borghesia>>
Nell'Ideologia tedesca si legge <<I comunisti non predicano la morale. Non si rivolgono al popolo con l'imperativo morale "amatevi l'un l'altro, non comportatevi da egoisti">>
D'altra parte, sempre nel Manifesto si trovano parole di fuoco contro l'ipocrita immoralismo borghese, che accusa i comunisti di voler introdurre la comunanza delle donne, mentre di fatto questo principio regola il matrimonio nella società capitalistica, inteso come prostituzione ufficiale e non ufficiale. 
Inoltre, nei Manoscritti del 1844, insieme di appunti e di estratti, e in altre opere giovanili si incontrano altre osservazioni morali di carattere critico sulla società capitalistica, nella quale è costantemente violato l'imperativo categorico di valorizzare l'individuo come membro della specie umana. Infatti, egli si trova ad essere "un essere degradato, asservito, abbandonato, spregevole". Da questa constatazione scaturisce la necessità di rovesciare tutti questi disumani rapporti di subordinazione. 

L'altro aspetto controverso della questione relativa all'esistenza di un'etica marxista sta nel fatto che nella riflessione filosofica occidentale vengono costantemente contrapposte la dimensione etica e quella scientifica e conoscitiva. Per esempio, è assai nota la feroce critica rivolta a Marx da Karl Popper, fatto poi baronetto dalla regina di Inghilterra, che proprio per le sue implicazioni etiche considerava priva di qualunque valore conoscitiva l'opera marxiana. 
Ritroviamo la contrapposizione tra etica e scienza anche nella famosa frase del matematico francese Jules Henri Poincaré, per il quale è impossibile fondare i giudizi morali sulle leggi della scienza, soprattutto per ragioni "linguistiche". Infatti, gli asserti della scienza sono espressi al modo indicativo, mentre quelli morali al modo imperativo (essere / dover essere) ed è impossibile dedurre conclusioni imperative da premesse espresse nella modalità indicativa. 

Ovviamente non dobbiamo ricavare dalla presenza di temi etici nell'opera di Marx la conclusione che egli abbia tentato di sviluppare un sistema etico sistematico. 

In conclusione, oltre a leggere Che Guevara e tentare di approfondire la sua visione economica, collegata alla costruzione dell'"uomo nuovo", cercheremo anche di comprendere se scienza ed etica possono convivere in un'opera che si propone di conoscere il mondo per poi trasformarlo." 
(A. Ciattini)

Primo incontro (solo audio): https://www.youtube.com/watch?v=MzxE1kSCVxg&feature=emb_logo

Secondo incontro:
                                 

Terzo incontro (solo audio): https://www.youtube.com/watch?v=Vjzf52iGIz8


sabato 18 gennaio 2020

Da Labriola a Gramsci, quel marxismo che ha saputo essere originale. - Marcello Mustè

Da: http://www.strisciarossa.it/ - marcello mustè, Università di Roma Sapienza (Filosofia teoretica), è uno storico della filosofia e filosofo italiano.
Leggi anche: Del materialismo storico - Antonio Labriola 


Dopo gli eventi del 1989 e la rapida dissoluzione dell’impero sovietico, fu facile pronosticare la prossima morte del “marxismo teorico” (secondo la definizione che, in un saggio del 1937, ne aveva data Benedetto Croce). Con la fine del comunismo, si ripeté, anche il marxismo come filosofia era destinato a perire, a vantaggio di un orizzonte culturale ormai dominato dalle figure del mercato globale e della liberaldemocrazia. 

L’89 e la crisi del “marxismo teorico”

La diagnosi si rivelò per molti versi esatta, nel senso che la lunga tradizione di pensiero che aveva sostenuto le esperienze del movimento operaio mostrò presto la corda, e su aspetti tutt’altro che marginali. Sia lo schema socialdemocratico – scaturito dall’ultimo Engels e dall’ortodossia di Kautsky – sia le dottrine del “materialismo dialettico” – da Lenin a Stalin fino ai loro ultimi seguaci –, si trovarono meritatamente ai margini del dibattito europeo. Anche le teorie marxiste meno sclerotizzate, si pensi a un Lukács o a un Korsch, per quanto capaci di mediarsi con le novità degli scritti giovanili di Marx (l’alienazione) e di generare correnti originali (la Scuola di Francoforte), pagarono il pegno di un’impostazione fondata sull’idea hegeliana di totalità e su nozioni di ordine etico o metafisico.
Tuttavia il “marxismo teorico” non morì (né nel 1900, come aveva sentenziato Croce, né nel 1989), e in certo modo riuscì persino a ravvivare la sua immagine, spesso fondandosi su uno strumento incisivo, e direi persino di “purificazione” intellettuale, come la filologia. È il caso di Marx, la cui opera, dal 1975 e con un secondo inizio nel 1998, viene pubblicata nella seconda MEGA  (Marx-Engels-Gesamtausgabe, edizione delle opere complete di Marx ed Engels) con scoperte inesauribili, che vanno dai manoscritti preparatori del Capitale a duecento quaderni di appunti. È il caso di Gramsci, che dopo l’89 ha conosciuto la sua maggiore e più vasta fortuna globale, anche con l’avvio della Edizione nazionale degli scritti (promossa dalla Treccani e dalla Fondazione Gramsci) e grazie a innovative ricerche filologiche e cronologiche. È interessante osservare come in questo Marx Revival (così lo ha definito Marcello Musto nella sua recente biografia einaudiana) gli studiosi italiani abbiano acquistato una posizione ragguardevole, osservata con attenzione in tutto il mondo. 

giovedì 16 gennaio 2020

Orientamenti politici e materialismo storico - Roberto Fineschi

Da:  https://www.lacittafutura.it/ Approfondimenti teorici (Unigramsci) https://marxdialecticalstudies.blogspot.com/ 
Roberto Fineschi è un filosofo italiano. (Marx. Dialectical Studies) 


Il nesso fra il livello strutturale e quello sovrastrutturale non è immediato. È un errore accettarne l’identità immediata e pensare che lottando contro uno dei due lati, immediatamente si lotti anche contro l’altro. 
Chiarito ciò è possibile comprendere il carattere non rivoluzionario o addirittura reazionario di alcuni movimenti politici attuali. 

Il seguente articoletto mira a esporre in termini inevitabilmente schematici ma spero chiari e orientativi alcuni posizionamenti politici a livello sia strutturale che sovrastrutturale [1]. Ciò permette di descrivere almeno a grandi linee fenomeni in atto. Gli schieramenti politici indicati riflettono orientamenti individuali che non immediatamente corrispondono a partecipazione attiva a un partito, ma a un modo di vedere. Tutte le mediazioni vanno ovviamente svolte per fornire un’analisi più adeguata. Qui, schematicamente, si pongono delle basi per procedere in questo senso.
Nella tabella che segue, nelle colonne si considerano cinque questioni di fondo, 3 a livello strutturale, 2 a livello sovrastrutturale. 
Per il livello strutturale: 
A1) essere favorevoli o meno al (per adesso non meglio specificato) capitalismo; 
A2) essere favorevoli o meno a una sua regolamentazione che includa l’intervento diretto dello Stato (o altra istituzione per lui) nella gestione della riproduzione sociale, ma senza uscire dal contesto capitalistico. 
Come accessoria, si aggiunge una terza posizione A3), vale a dire essere o meno favorevoli alla presenza dello stato sociale (o in subordine di soli ammortizzatori sociali). 
A livello sovrastrutturale tutto è ridotto a due nozioni base: 
B1) essere favorevoli o meno all’universalità del concetto di persona; 
B2) essere favorevoli o meno alle istituzioni rappresentative parlamentari e alla divisione dei poteri classica borghese. 
Nelle righe invece si hanno 10 posizionamenti politico-ideologici possibili (numerati progressivamente da 1 a 10). 
Negli incroci tra righe e colonne, la “V” sta per “sì”, la “X” sta per “no”.

giovedì 9 gennaio 2020

Vent’anni di fondi pensione - Sandor Kopacsi

Da: Sandor Kopacsi - 

Il prof. Roberto Pizzuti ci consegna il consueto curatissimo rapporto sullo stato sociale (http://www.editricesapienza.it/…/Pizzuti_Rapporto_2019_estr…). Il lavoro è talmente ricco di dati e osservazioni che non è possibile darne nemmeno una sintesi qui. Mi concentro perciò sul tema dei fondi pensione.
Per decenni, l’intero quadro politico, i media e ovviamente l’industria finanziaria hanno spinto per la crescita dei fondi pensione. Tutti tutti tutti erano a favore. Persino nella FIOM CGIL, chi si opponeva veniva liquidato come residuato bellico, e i sindacati usavano i delegati come promotori finanziari per piazzare i fondi. I governi hanno varato uno sgravio fiscale dopo l’altro gettando sui contribuenti l’onere del decollo dei fondi pensione. Nel 2007 un geniale governo di centrosinistra fece una legge sul silenzio-assenso per costringere i lavoratori ad aderire senza nemmeno volerlo. In quei mesi, chi provava in assemblee o direttivi sindacali a dire che si trattava di una porcata veniva aggredito non solo verbalmente.
Dopo tutto questo enorme circo, in cui nulla è stato lasciato intentato per spingere i lavoratori italiani ai fondi pensione, qual è stato l’esito? Pizzuti lo sintetizza magistralmente. Innanzitutto non molti hanno creduto alle sirene della finanza: “Il tasso di adesione rispetto a tutti gli occupati che c’era nel 2007 – prima dell’entrata in vigore del «silenzio assenso» era del 15%; dopo è salito fino al 28,9% del 2017 che, tuttavia, si ridimensiona al 22,1% considerando solo gli iscritti che versano i contributi. Tuttavia, questa quota è ancora lontana dal 40% fissato come obiettivo di quel provvedimento agevolativo” (p. 47). 4 lavoratori su 5 hanno fatto il dito medio alla finanza. Che ingrati!
Venendo al rendimento, i fondi hanno reso di più del TFR (in particolare quelli negoziali il 13% in più, che poi per vent’anni significa meno dell’1% in più annuo e solo grazie alle migliaia di miliardi di espansione monetaria delle banche centrali dopo la crisi del 2008); spiega Pizzuti: “Tuttavia, i proventi offerti dal TFR sono stati molto più stabili e sempre positivi cosicché il suo titolare – non potendo scegliere l’anno del pensionamento in base all’andamento dei mercati finanziari – non avrebbe mai rischiato di doversi ritirare con un capitale addirittura minore ai versamenti effettuati” (p. 48). A meno che uno non sia un giocatore patologico, non sceglierebbe mai quel rischio a fronte di un esile e variabilissimo rendimento…Per ottenere questi miseri e incerti risultati, come detto frutto della politica monetaria espansiva a livello mondiale e non certo delle capacità dei gestori, le commissioni arrivano a incidere in alcuni casi per il 36% dell’ipotetico capitale accumulato. Del resto, la professionalità si paga! E la finanza ha dato decisamente prova di elevata competenza, come si è visto nel 2008, quando ha gettato l’economia mondiale giù da un dirupo.
È anche interessante notare che quasi il 73% dei fondi è investito in titoli di debito (in pratica BTP). Ossia quello che facevano i risparmiatori italiani già 40 anni fa, solo senza pagare commissioni a nessuno. Quindi lo stato elargisce sgravi fiscali ai fondi pensione che lo finanziano comprandosi titoli di stato. Che marchingegno finanziario efficiente! Faccio sconti a un mio debitore così che possa prestarmi dei soldi! Non avrebbe molto più senso, allora, che lo stato chiedesse soldi ai contribuenti retribuendoli? Si risparmierebbero commissioni, sgravi fiscali, speculazioni…ma appunto, poi dove finirebbe la finanza? Infine una prece per chi, soprattutto tra i centrosinistri iper-moderni, ci spiegava che i fondi pensione servivano per sviluppare la “democrazia economica” permettendo a tutti di avere azioni: “una parte irrisoria del patrimonio dei fondi viene impiegata in azioni di imprese italiane” (p. 49). I cortigiani del capitale avevano come sempre torto, difficile dire se sia peggio che fosse in buona o in mala fede.
È facile oggi prendersi gioco della finanza e degli entusiasti dei fondi pensione. Dopo tutto siamo reduci dalla più grande crisi finanziaria della storia e già se ne annuncia un’altra. Ma in effetti era facile anche ieri, nel senso che queste dinamiche erano assolutamente prevedibili e sono state previste da chi non aveva fette di salame (magari gentilmente offerte da banche e assicurazioni) sugli occhi. Per fare un esempio, i marxisti lo dicevano già nel 2009 (http://old.marxismo.net/…/nuovo-opuscolo-la-trappola-dei-fo…) o nel 2007 (https://old.marxismo.net/…/art…/no-al-tfr-nei-fondi-pensione) opponendosi alla legge sul silenzio assenso, e, saltando diversi passaggi intermedi, con noiosa ripetitività già nel 1998 (https://old.marxismo.net/…/i-fondi-pensione-non-migliorano-…), quando c’era ancora la lira e i fondi pensione erano una cosa esotica tipo i koala.
Oggi dopo vent’anni tutti capiscono che le pensioni integrative non danno benefici ai lavoratori. Questo ovviamente, tolti i dirigenti sindacali, che sono rimasti gli unici fedeli difensori della finanza. E se qualche complottista sostiene che sono pagati da Soros, non possiamo che far notare che Soros di finanza ci capisce e di sicuro non farebbe investimenti così penosi. È che sono proprio così! fedeli a un capitalismo decadente sino all’ultimo nostro centesimo. 

Abitudini linguistiche e mistificazione - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it/ Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 

                                                                                                                           Da: Sbatti il mostro in prima pagina
Le parole non sono strumenti neutri, veicolano in maniera surrettizia una certa visione delle cose. Stiamo attenti a come parliamo e a come ci parlano.

Ormai da svariati anni è di moda evitare di usare il maschile per riferirsi a gruppi di persone che prevedono la presenza anche di donne, per cui si scrive, per esempio, “Cari/Care” per non ricadere nel sessismo. Questa nuova sensibilità scaturisce certamente dalla scoperta del valore delle parole nei processi che plasmano la mentalità degli individui con significative ricadute sui loro comportamenti sociali [1].
Si potrebbe osservare che, nonostante l’importanza delle parole, che sempre chiudono in sé tutta una visione del mondo, sicuramente esse non sono sufficienti a cambiare lo stato delle cose esistenti; pertanto, credo che insieme a questa ipersensibilità linguistica bisognerebbe mobilitarsi effettivamente affinché una buona metà del genere umano abbia gli stessi stipendi dell’altra metà, affinché siano disponibili effettivamente gli asili nido (soprattutto nel nostro paese), affinché le donne siano sollevate dal grave peso del lavoro domestico, meccanico e rutinario. E tutto ciò non si può certo risolvere semplicemente con qualche nuova legge spesso invocata a destra e a manca, dato che si tratta di questioni strutturali e di atteggiamenti, che hanno profonde radici nella nostra storia e nella nostra tradizione culturale.

martedì 7 gennaio 2020

Intervista a Joseph Halevi sull’esito delle elezioni in Gran Bretagna.

Da: http://rproject.it/ - joseph-halevi Universita  di Sidney.

RP. Come prima cosa ti chiedo una considerazione generale della sconfitta del partito laburista clamorosa in termini di seggi. Tenendo conto che la vittoria dei conservatori era comunque data per scontata.

JH. Fino a qualche tempo fa, quando anche Boris Johnson si vedeva bocciare le sue iniziative del parlamento, mi sembrava fosse su una linea meno catastrofica di Teresa May, che stava veramente distruggendo il partito conservatore. La scelta di Johnson per riprendere in mano la politica dei conservatori è stata proprio quella di andare alle elezioni e come le ha gestite. Però secondo me queste sono cose superficiali. 


Secondo me il problema fondamentale sono i laburisti, i quali sono entrati in una crisi che rischia di essere di non ritorno. Come, anche se in condizioni completamente diverse, i socialdemocratici tedeschi sono in una crisi di non ritorno: loro oggi sono al 15%, mentre erano un partito del 40%. In Gran Bretagna non c’è lo stesso tipo di situazione, con la medesima politicizzazione che c’è in Europa continentale, quindi la dinamica è diversa, però un partito che sta sul 30% diventa non agibile, diventa non spendibile perché non è un sistema pluralistico al livello politico. È un sistema che si basa su due partiti, che possono fare qualche alleanza qua e là, occasionalmente, però devono essere tutti e due in una situazione maggioritaria, dal punto di vista dei seggi (cioè essere sempre nella situazione di diventare maggioritario). Se uno dei due non ha la maggioranza dei seggi, può rimanere fuori per decenni. Come è accaduto ai laburisti negli anni trenta con la spaccatura introdotta da MacDonald e sono stati fuori fino al 1945; quando, sostanzialmente, è stata la guerra a fargli vincere le elezioni. Perché, anche se la guerra l’ha condotta Churchill, era cambiata l’idea presso la classe lavoratrice inglese che con la vittoria il mondo sarebbe stato diverso per ciò che li riguardava, i diritti, ecc.
Poi sono stati fuori per quasi vent’anni, durante il periodo di Thatcher e Major. Oggi rischiano di restare fuori per un’infinità di tempo.
Ora, veramente, la loro base strutturale si è sfaldata perché hanno perso in zone fondamentali: hanno perso la Scozia, dove già erano stati sconfitti nelle lezioni passate con la vittoria del SNP e adesso hanno finito per perdere anche gli altri seggi – non ricordo se li hanno persi tutti ma anche là sono stati decimati ulteriormente – e hanno perso le loro roccaforti operaie. Perché, ci siano o meno industrie, è la popolazione operaia a cui non hanno saputo dare un’alternativa, quindi questa ha votato a destra. Perché la classe operaia inglese è pro Brexit: questo bisogna metterselo in testa.
RP. Puoi spiegare meglio questo concetto così netto?

sabato 4 gennaio 2020

Di una economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie - Federico Caffè

Da: «Giornale degli economisti e annali di economia», 1971, 9-10, pp. 664-84. - https://gondrano.blogspot.com/ - Federico Caffè è stato un economista italiano
Leggi anche: Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  
                        L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore  




SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Richiami a una indagine americana del 1955 sul funzionamento del mercato di borsa. - 3. Il caso dell’IOS, a distanza di un quindicennio, e i suoi aspetti più clamorosi. - 4. La “sovranità” del risparmiatore e la sua manipolazione da parte dell’intermediazione specializzata. - 5. Mercato azionario e efficienza economica nel periodo breve. - 6. L’efficienza allocativa dei mercati finanziari nel periodo lungo. - 7. Se la borsa sia un efficace guardiano dell’efficienza dell’impiego delle risorse allocate per suo tramite. - 8. Una proposta recente di centralizzazione nazionale delle operazioni di borsa. - 9. Possibilità di soluzioni che portino a un rigetto della borsa e del suo folklore.




1. Premessa

Se l’occasione immediata per le considerazioni contenute in questo scritto è stata fornita da talune recenti manifestazioni aberranti del modo di operare dei mercati finanziari, nel nostro come in altri paesi, l’interesse per i problemi di cui lo scritto si occupa è ben più remoto.
Nei primissimi anni del dopoguerra mi capitò di leggere un articolo, come sempre limpidissimo e suadente, di Luigi Einaudi che illustrava con piena adesione le idee espresse a suo tempo da Eugenio Rignano nel volume Per una riforma socialista del diritto successorio (1920).
Nell’articolo einaudiano l’accento veniva posto non sul carattere socialista della riforma successoria, ma sulla compatibilità della economia di mercato con un trattamento fiscale delle successioni che fosse ispirato ad avanzate ideali sociali.
A mia volta, più che dal problema specifico, fui interessato dalla tesi generale che esso implicava.
La tesi, cioè, della compatibilità della economia di mercato con riforme le quali incidano profondamente in strutture e istituzioni che storicamente sono venute a coesistere con l’economia di mercato stessa, ma non sono essenziali al suo funzionamento.
Ed è precisamente in questa tesi l’origine remota delle presenti note.

Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati, favorisca non già il vigore competitivo, ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.

Esiste una evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere - legislativi, sindacali, sociali - che vincolano l’attività produttiva “reale” nei vari settori agricolo, industriale, di intermediazione commerciale e la concreta “licenza di espropriare l’altrui risparmio” che esiste sui mercati finanziari.
Un rilievo del genere non trae motivo da fatti episodici o da insufficienze istituzionali attribuibili a carenze legislative.
Si tratta di una costatazione originata dalla persistenza evidente, nell’ambito delle strutture finanziarie-borsistiche, di un capitalismo aggressivo e violento, che non sembra aver nulla in comune con lo “spirito di responsabilità pubblica” rilevabile come componente di una moderna strategia oligopolistica nell’ambito dell’attività produttiva industriale.
Oggi, come è ben noto, non soltanto il creatore d’industria rozzo e brutale, ma persino il creatore d’industria provvidenziale e paternalistico risultano incompatibili con concezioni non obsolete della vita industriale.
Al contrario, esercita tuttora un anacronistico fascino (ed ha, soprattutto, deleterie possibilità di azione) il manipolatore spregiudicato di titoli di varia specie sui mercati finanziari interni e internazionali.
Si tratta di una smagliatura logica il cui esame presenta un interesse non minore delle raffinate analisi intorno alla composizione ottimale del portafoglio in condizioni varie di incertezza.
Indubbiamente il campo di indagine non si presta a ricerche che portino a risultati formalmente eleganti e precisi.
Ma occorre confortarsi ricordando che può essere preferibile “aver ragione in termini vaghi, anziché sbagliare con tutta precisione” (1).

venerdì 3 gennaio 2020

Tecnologia e imperialismo. Crisi economica, produzione intellettuale, sfruttamento e conflittualità tra capitali. - Francesco Schettino


Pubblicato su “materialismostorico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 1 (2019), TECNOLOGIA E IMPERIALISMO. CRISI ECONOMICA, PRODUZIONE INTELLETTUALE, SFRUTTAMENTO E CONFLITTUALITÀ TRA CAPITALI, a cura di Francesco Schettino, pp. 276-292, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli)


1. Introduzione

Il dominio della casse borghese sulla classe proletaria (o lavoratrice), quindi subalterna, è l’elemento che innegabilmente qualifica il modo di produzione capitalistico; il rapporto di proprietà instaurato tra le due classi – perno attorno a cui ruota tutto il sistema – si concreta nella produzione di plusvalore, ossia l’appropriazione da parte della classe dominante di una parte dell’attività erogata da quella subalterna, che è l’essenza della riproduzione dell’economia nel suo complesso. Se per il capitale nella sua astratta unicità ciò che interessa è l’incremento della massa di plusvalore e, ancor di più, essa in relazione al valore anticipato dalla totalità dei capitalisti, dal punto di vista del capitale individuale la produzione di plusvalore necessita di “schiudersi”, ossia trasformarsi per divenire utile, realizzandosi quindi in forma monetaria (quella del profitto). L’incremento del plusvalore, ossia dell’appropriazione di lavoro altrui non pagato, è dunque la condizione principale per cui l’accumulazione possa procedere a tassi crescenti ed è per questo motivo l’obiettivo prioritario del sistema nella sua totalità e quindi del singolo agente del capitale.

La contraddittorietà tra unicità del capitale e molteplicità dei suoi agenti si svolge mediata dalla concorrenza e agisce principalmente nel momento della trasformazione del plusvalore in profitto e del saggio di plusvalore in tasso di profitto: infatti, se la massa del profitto coincide con quella del plusvalore, non subendo le fluttuazioni del valore, ciò non avviene per i rispettivi tassi. In particolare, l’agire della concorrenza, nella fase della circolazione e le differenze nella composizione organica dei diversi capitali, rende impossibile tale convergenza. Di conseguenza, le strategie dei diversi partecipanti al “banchetto” del frutto espropriato dall’attività dell’operaio complessivo necessariamente si contrappongono avendo in comune l’obiettivo dell’incetta del maggior quantitativo di fette possibile. Dunque, nella fase della produzione, fermo restando il morboso interesse del capitalista per la quantità di ore non pagate ai propri lavoratori, appare lampante l’importanza della riduzione dell’esborso sostenuto anche per il capitale costante, macchinari e materie prime.

La trasformazione di plusvalore in profitto implica, infatti, che «se il plusvalore è dato, il saggio del profitto può essere aumentato soltanto mediante una diminuzione del valore del capitale costante necessario per la produzione delle merci» [Marx, Il capitale, III.5]: in sostanza, fermo il numeratore del rapporto che rappresenta il saggio del profitto, il capitale individua nella diminuzione del denominatore il fattore complementare all’aumento dello sfruttamento per poter incrementarne l’entità. In altri termini una riduzione del valore di macchinari e materie prime, ossia quella che Marx definisce «economia del capitale costante», implica che il costo connesso all’appropriazione di lavoro vivo altrui diminuisca, permettendo così un incremento della sua produttività che a sua volta si riflette direttamente sul saggio di profitto: nel caso limite in cui il costo di macchinari e materie prime fosse nullo, esso raggiungerebbe il livello massimo, essendo esattamente identico al saggio di plusvalore, ferma restando la variabilità determinata dalla circolazione delle merci, ossia «a prescindere da tutte le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutte le soperchierie e truffe che i capitalisti commettono l’uno a danno dell’altro, e infine da ogni favorevole scelta del mercato» [C, III.7]. In questo caso, il costo del capitale costante per l’utilizzo della forza-lavoro essendo nullo, il capitalista potrebbe appropriarsi del lavoro pagato e non pagato in maniera totalmente gratuita, permettendo una opportuna accumulazione di capitale che «dipende ancor più dalla produttività che dalla massa di lavoro impiegato» [C, III.5].

giovedì 2 gennaio 2020

"Il Vero Debito Estero" - Guaicaipuro Cuatemoc

Da: http://www.pepe-rodriguez.com/
Leggi anche: https://www.carmillaonline.com/2008/06/04/intervista-a-luis-britto-garcia

Il testo che seguirà è un'opera di finzione, ma il suo contenuto è così fortemente vero, la critica degli europei è così assolutamente giustificata e la scrittura così ingegnosa che merita di essere letta e diffusa.

Il capo Guaicaipuro esisteva poco meno di cinquecento anni fa, sebbene il suo vero nome non includesse l'ormai aggiunto Cuatemoc. L'autore della storia è Luis Britto García, che l'ha pubblicata il 6 ottobre 2003, in occasione della Giornata indigena della resistenza (12 ottobre), con il titolo di "Guaicaipuro Cuatemoc riscuote il debito con l'Europa".

L'autore: Luis Britto García (Caracas, 1940). Scrittore venezuelano. Il suo lavoro di fiction, formalmente sperimentale, elabora una critica della situazione politica e sociale del suo paese ( Rajatabla , 1970; Abrapalabra , 1980; The imaginary orgy , 1983). Si è anche dedicato al saggio, i cui titoli comprendono l'impero controculturale: dal rock al postmodernismo (1991). Premio Casa de las Américas nel 1970 e premio nazionale in letteratura nel 1980.


Lettera di un capo indio ai governi europei: "Guaicaipuro Cuatemoc riscuote il debito con l'Europa"

Così sono qua, io, Guaicaipuro Cuatemoc, sono venuto a incontrare i partecipanti a questo incontro. 
Così sono qua, io, discendente di coloro che popolarono l'America quarantamila anni fa, sono venuto a trovare coloro che la trovarono cinquecento anni fa.
Così ci troviamo tutti: sappiamo chi siamo, ed è già abbastanza. Non abbiamo bisogno di altro.
Il fratello doganiere europeo mi chiede una carta scritta con visto per scoprire coloro che mi scoprirono.
Il fratello usuraio europeo mi chiede di pagare un debito contratto da traditori che non ho mai autorizzato a vendermi.
Il fratello leguleio europeo mi spiega che ogni debito si paga con gli interessi, anche fosse vendendo esseri umani e paesi interi senza chiedere il loro consenso.
Questo è quello che sto scoprendo.
Anch'io posso pretendere pagamenti. Anch'io posso reclamare interessi. Fa fede l'Archivio delle Indie.
Foglio dopo foglio, ricevuta dopo ricevuta, firma dopo firma, risulta che solamente tra il 1503 ed il 1660 sono arrivati a San Lucar de Barrameda 185mila chili di oro e 16 milioni di chili di argento provenienti dall'America.
Saccheggio? Non ci penso nemmeno!!!
Perché pensare che i fratelli cristiani disobbediscano al loro settimo comandamento.
Spoliazione? Tanatzin mi guardi dall'immaginare che gli europei, come Caino, uccidano e poi neghino il sangue del fratello!
Genocidio? Sarebbe dar credito a calunniatori come Bartolomeo della Casa che considerarono quella scoperta come la distruzione delle Indie, o ad oltraggiosi come il dottor Arturo Pietri che sostiene che lo sviluppo del capitalismo e dell'attuale civiltà europea sia dovuto all'inondazione di metalli preziosi.
No! Questi 185mila chili di oro e 16 milioni di chili di argento devono essere considerati come il primo dei vari prestiti amichevoli dell'America per lo sviluppo dell'Europa. Pensare il contrario vorrebbe dire supporre crimini di guerra, il che darebbe diritto non solo a chiedere la restituzione immediata ma anche l'indennizzo per danni e truffa.
Io, Guaicaipuro Cuatemoc, preferisco credere alla meno offensiva delle ipotesi. Una così favolosa esportazione di capitali non fu altro che l'inizio del piano Mershalltezuma teso a garantire la ricostruzione della barbara Europa, rovinata dalle sue deplorabili guerre contro i culti musulmani, difensori dell'algebra, della poligamia, dell'igiene quotidiana e di altre superiori conquiste della civiltà.
Per questo, avvicinandosi il Quinto Centenario del Prestito, possiamo chiederci: i fratelli europei hanno fatto un uso razionale, responsabile, o perlomeno produttivo delle risorse così generosamente anticipate dal Fondo Indoamericano Internazionale?
Ci rincresce di dover dire di no. Dal punto di vista strategico le dilapidarono nelle battaglie di Lepanto, nelle armate invincibili, nei terzi Reich ed in altre forme di reciproco sterminio, per poi finire occupati dalle truppe yankee della Nato, come Panama (ma senza canale).
Dal punto di vista finanziario sono stati incapaci " dopo una moratoria di 500 anni " sia di restituire capitale ed interessi che di rendersi indipendenti dalle rendite liquide, dalle materie prime e dall'energia a basso costo che gli esporta il Terzo Mondo. Questo deplorevole quadro conferma l'affermazione di Milton Friedman secondo il quale un economia assistita non potrà mai funzionare e ci obbliga a chiedere " per il loro stesso bene " la restituzione del capitale e degli interessi che abbiamo così generosamente aspettato a richiedere per tutti questi secoli.
Detto questo, vorremmo precisare che non ci abbasseremo a chiedere ai fratelli europei quei vili e sanguinari tassi d'interesse variabile del 20 fino al 30% che i fratelli europei chiedono ai paesi del Terzo Mondo. Ci limiteremo a esigere la restituzione dei materiali preziosi prestati, più il modico interesse fisso del 10% annuale accumulato negli ultimi trecento anni. Su questa base, applicando la formula europea dell'interesse composto, informiamo gli scopritori che ci devono, come primo pagamento del loro debito, soltanto 185mila chili di oro e 16 milioni di chili di argento ambedue elevati alla potenza di trecento. Come dire, un numero per la cui espressione sarebbero necessarie più di trecento cifre, e il cui peso supera ampiamente quello della terra.
Com'è pesante questa mole d'oro e d'argento! Quanto peserebbe calcolata in sangue? Addurre che l'Europa in mezzo millennio non ha saputo generare ricchezze sufficienti a cancellare questo modico interesse sarebbe come ammettere il suo assoluto disastro finanziario e/o la demenziale irrazionalità delle basi del capitalismo.
Tuttavia queste questioni metafisiche non affliggono noi indoamericani. Però chiediamo la firma immediata di una carta d'intenti che disciplini i popoli debitori del vecchio continente e li obblighi a far fede al loro impegno tramite un immediata privatizzazione o riconversione dell'Europa perché ci venga consegnata per intero come primo pagamento di questo debito storico.
Dicono i pessimisti del Vecchio Mondo che la loro civiltà versa in una bancarotta tale che gli impedisce di tener fede ai loro impegni finanziari o morali. In tal caso ci accontenteremo che ci paghino con la pallottola che uccise il poeta.
Ma non potranno. Perché quella pallottola è il cuore dell'Europa..."