*Da: "Schriften zur Literatur und Kunste"
Shurkamp Verlag, 1967 Edizione italiana "Scritti sulla letteratura
e sull'arte", Einaudi 1973, traduzione di Bianca Zagari e nota
introduttiva di Cesare Cases
Chi ai
nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità,
deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di
scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di
riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di
renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper
scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di
divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che
scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati
cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi
della libertà borghese.
1. Il coraggio di scrivere la verità.
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva
la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non
vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è
assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso
ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso.
Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al
lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni
fama. Per farlo, ci vuole coraggio. Le epoche di massima oppressione sono quasi
sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche
simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e
l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che
più conta è lo spirito di sacrificio. Quando i contadini vengono ricoperti di
onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci
di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno
gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo
istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di
razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame
e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole
coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto.
Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i
propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle
ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro,
i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata
battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una
bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché
non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si
ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire
che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci
vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta
contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata,
ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la
menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire
che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una
menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di
pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.