venerdì 27 maggio 2016

Dialoghi di profughi XIII.* - Bertolt Brecht

*Da:    https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-xiii-bertolt-brecht/10151315869518348?pnref=story 


LA LAPPONIA, OVVERO AUTODOMINIO E CORAGGIO. – PARASSITI.


Ziffel e Kalle perlustrarono il paese: Kalle mettendo il naso ora qui, ora lì, come piazzista di articoli da ufficio; Ziffel alla ricerca di impiego come chimico incontrando sempre dei rifiuti. Ogni tanto si ritrovavano nella capitale, al ristorante della stazione: un locale cui ambedue si erano affezionati proprio per il suo squallore. Lì si scambiavano le loro impressioni, davanti a un bicchiere di birra che non era birra e ad una tazza di caffè che non era caffè.

ZIFFEL     Cesare descrisse la Gallia, paese che conosceva perché vi aveva sconfitto i Galli. Ziffel, descrivi G., il paese che conosci perché vi sei stato sconfitto! Non riesco a trovare lavoro, qui.

KALLE     Questo è un bellissimo preambolo, come me l’aspetto da lei. E non occorre che aggiunga altro, si tranquillizzi pure, so già che non ha visto niente.

ZIFFEL     Ho visto abbastanza per sapere che in questo paese fioriscono notevoli virtù. Per esempio il dominio di se stessi. E’ un vero paradiso per gli Stoici, lei certo avrà sentito parlare di questi antichi filosofi e della stoica indifferenza con cui pare sopportassero ogni sorta di avversità. Si dice: chi vuole dominare gli altri deve imparare a dominare se stesso. Ma in realtà si dovrebbe dire: chi vuol dominare gli altri, deve insegnar loro a dominare se stessi. Insomma la gente qui è dominata da proprietari terrieri e da industriali, ma anche da se stessa, ciò che vien chiamato democrazia. Il primo comandamento del dominio di se stessi dice: tieni la bocca chiusa. In un regime democratico ci si aggiunge la libertà di parola, controbilanciata dal divieto di abusarne, cioè di parlare. E’ chiaro?

KALLE     No.

giovedì 26 maggio 2016

Sulla coscienza di classe nell'attuale fase del capitalismo* - VITTORIO RIESER

Che in questo momento la coscienza di classe del proletariato non sia particolarmente brillante ed antagonistica, è un dato del senso comune. Il problema è: per quali ragioni? Dalla risposta a questo interrogativo derivano anche previsioni e possibili indicazioni di azione.

Partiamo, estremizzandoli, da due possibili (e “classici”, perché si sono periodicamente riproposti) “poli di risposta”:

  - l’offuscamento della coscienza di classe è dovuto al fatto che le organizzazioni del movimento operaio hanno abbandonato una prospettiva di classe (è la classica ipotesi del complotto-tradimento);

  - l’offuscamento della coscienza di classe è la conseguenza inevitabile dei mutamenti strutturali (e non solo strutturali) del capitalismo: che fan sì (a seconda delle interpretazioni) che “la classe non c’è più” o “si è integrata nel sistema” o “si è atomizzata” (e via sproloquiando). (...)

La gamma di alternative oggi “percepibili” da un lavoratore è drasticamente limitata, anche rispetto a un passato non molto lontano: soprattutto, da questa gamma sono assenti ipotesi alternative complessive sull’economia e la società. In primo luogo, oggi le organizzazioni del movimento operaio (ci riferiamo sempre all’occidente capitalistico, e in primo luogo all’Italia) non propongono più alternative del genere. (Non ci riferiamo, ovviamente, ad alternative “rivoluzionarie classiche”, ma ai “nuovi modelli di sviluppo” o di democrazia proposti ad es. dai sindacati o dal PCI in Italia negli anni 60-70). Su questo si innesta l’efficacia (parziale) dei grandi mezzi di comunicazione di massa: parziale perché questi non riescono a far passare un’adesione e un consenso al modello di società da essi divulgato, ma riescono a farlo passare per l’unico possibile, in sostanza come “male inevitabile” (la crisi erode ulteriormente gli elementi di consenso, ma rafforza l’idea di inevitabilità).                                                                                                                                                                                                                             
Complessa è l’evoluzione dei sindacati. La CISL è la prima a “fare i conti” con la sconfitta dell’89, con una netta svolta a destra. La CGIL evita di fare esplicitamente un bilancio critico, e mantiene elementi di debole continuità con la fase precedente. Di fatto, i sindacati non possono assumere organicamente uno schema liberista che è in contraddizione con la loro stessa natura e funzione: approdano quindi a un’impostazione “concertativa”, che è la riproposta di un modello di relazioni industriali a suo tempo chiamato “neo-corporativo”, maturato nell’ultima fase del fordismo. Ma, se allora era un mix di concessioni e di contropartite, ora – nella situazione mutata – si ripresenta in una versione “debole”, in cui le concessioni e i vincoli superano nettamente le contropartite e i margini di iniziativa contrattuale autonoma. La CISL innesta su questo una sua ideologia della “partecipazione”, mentre la CGIL rilancia tardivamente un modello di “co-determinazione” (dove l’analisi “di classe” non scompare) quando non ci sono più le condizioni per realizzarlo, per cui rimane sulla carta. La conseguenza pratica di tutto questo è che i sindacati “gestiscono il riflusso”, in un’impostazione puramente difensiva anche quando le condizioni oggettive riaprirebbero possibilità di controffensiva.                                                                                                                                                                                                                                       
Alla fine degli anni 50-inizio anni 60, chi avesse fatto un’inchiesta sulla coscienza di classe si sarebbe trovato di fronte a “brandelli di coscienza” non dissimili da quelli riscontrati nell’inchiesta di Brescia: una lucida valutazione negativa della propria condizione e delle sue cause, accompagnate da una sfiducia nelle possibilità di cambiamento generale, e – quindi – da ricerca di soluzioni individuali, talvolta “opportunistiche”. E’ questo il materiale su cui hanno “lavorato” le organizzazioni che, negli anni successivi, hanno costruito una grande stagione di lotta e coscienza di classe. Ma vi erano due profondi elementi di differenza con la situazione attuale:
- esistevano organizzazioni o parti di esse (mi riferisco in particolare alla CGIL) che perseguivano lucidamente un disegno di “ricostruzione di classe” nella prospettiva di un cambiamento sociale;
- le condizioni dello sviluppo capitalistico (pensiamo ad es. agli anni del “miracolo economico”) favorivano lo sviluppo delle lotte operaie.
Tutto ciò ha permesso di innescare un “circolo virtuoso” tra comportamenti delle organizzazioni (via via estesi a organizzazioni prima più “arretrate”), esperienze di lotta, sviluppo di coscienza, che ha portato al grande decennio tra la fine degli anni 60 e la fine degli anni 70.

Oggi, come abbiamo visto, tali condizioni al momento non sussistono. E non ci sono le condizioni per una “scorciatoia” che, in tempi brevi, inverta il “circolo vizioso” oggi imperante. La domanda è: è possibile lavorarci per spezzarlo? questo lavoro è possibile nel puro ambito nazionale? chi (ovviamente non ci riferiamo a persone, ma ad organizzazioni) ha la volontà e la capacità di impegnarsi in questo lavoro? 

Leggi tutto:     http://www.sinistrainrete.info/analisi-di-classe/1004-vittorio-rieser-sulla-coscienza-di-classe-nellattuale-fase-del-capitalismo.html   
Leggi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/05/riflessioni-senili-ruota-libera-su.html  
  

mercoledì 25 maggio 2016

Marx e l'accumulazione originaria - Massimiliano Tomba



Leggi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/02/ermanno-sullaccumulazione-originaria-di.html
                                 http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/storiografia-degli-strati-di-tempouna.html

“Manifesto per la libertà del pensiero economico contro la dittatura della teoria dominante e per una nuova etica”. Una adesione critica.* - Riccardo Bellofiore



Aderisco al Manifesto per la libertà del pensiero economico, perché segna una importante messa in discussione del modo con cui viene condotta la ricerca economica oggi. Credo però giusto aggiungere alla firma alcuni commenti e anche alcune critiche, visto che non pochi sono i punti di dissenso con il Manifesto. 

1.  Non credo che gli ultimi 30 anni abbiano visto la rinascita di un "fondamentalismo liberista". Questa è stata l'apparenza ideologica. Abbiamo vissuto una fase niente affatto caratterizzata dal laisser faire. Il pensiero dominante si è piuttosto teoricamente diviso tra ripresa dell'approccio in ultima istanza walrasiano, sempre meno rilevante, e imperfezionismo dei dissenzienti dal mainstream neoclassico puro e duro. Corrispettivamente si è avuta la spaccatura tra neoliberismo (liberista sul mercato del lavoro, ma non sul mercato dei beni e dei servizi; tutto meno che ostile davvero ai disavanzi di bilancio; favorevole ai monopoli, come testimoniano le figure stesse di Berlusconi o di Bush;  etc.) e social­liberismo (che oppone mercato a capitale, che vuole "liberalizzare per ri­regolamentare";  che   favorisce il bilancio dello stato in pareggio, e  però vagheggia   una   qualche redistribuzione del reddito;   che concentra   la   critica   alla   finanza   nella domanda di una mera regolamentazione). Il social­liberismo, si badi, è cosa ben diversa dal liberalsocialismo (la tradizione di Ernesto Rossi, Paolo Sylos Labini, o di Norberto Bobbio), ben più radicale nella sua critica al capitalismo. Neoliberismo e social­liberismo sono approcci irriducibili l'uno all'altro. La critica al pensiero dominante non può stare sotto il cappello della opposizione a un presunto pensiero unico. La critica in economia deve essere aggiornata, ma deve dunque essere molto più radicale, andando all'origine della debolezza, non solo dei filoni (tra loro conflittuali) del mainstream, ma anche delle varie eterodossie. E' un fatto che a uscire con le ossa rotte è stato più il social­liberismo che il neoliberismo, che ha saputo cambiare pelle; e che l'eterodossia ha saputo opporre poco più che diverse forme del "ritorno a".

martedì 24 maggio 2016

Leggere la crisi: stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto?* - Vladimiro Giacché**

*In: Società natura storia, Studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di Andrea Civello , Pisa, Ed.ETS 2015, pp.269-284                                                                                                **Da:     www.academia.edu 

Capitale produttivo di interesse, finanza ed economia del debito.

In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: "nel 1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al pil mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al pil, era del 356 per cento". Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare l'idea delle proporzioni assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza.

Si tratta di un processo decisivo per i paesi a capitalismo maturo dagli anni Ottanta in poi. La cosiddetta "finanziarizzazione" ha avuto una triplice, importantissima funzione:
1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori;
2) allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell'industria;
3) fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d'investimento a elevata redditività. In questo modo essa ha rallentato - e per alcuni versi invertito - la tendenza alla caduta del saggio del profitto.

Consideriamo più da vicino le tre funzioni menzionate.

1) Credito alle famiglie.

La caratteristica più notevole dell'era della disuguaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni Ottanta è rappresentata dal fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell'economia del mondo sviluppato.
Così John Plender commentava anni fa sul "Financial Times" i dati sul calo dei redditi da lavoro negli ultimi decenni. Ma subito spiegava l'arcano: il motivo dell'assenza di reazioni va ricercato nel fatto che il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere in parte sganciato dall'andamento del reddito da lavoro. La politica monetaria espansiva della Federal Reserve ha alimentato il credito al consumo e la bolla azionaria e immobiliare, creando un effetto ricchezza e consentendo anche a famiglie a basso reddito di contrarre debiti relativamente a buon mercato. Fenomeni simili si sono prodotti in molti altri Paesi a capitalismo maturo. La quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario e però consuma come e più di prima. Un solo problema: l'insostenibilità di questo modello nel lungo periodo.

2)Credito alle imprese.

Ma il credito non dava respiro soltanto alle famiglie americane. Lo dava anche, e in misura non minore, alle imprese di tutto il mondo. Soprattutto a quelle di settori maturi. Pensiamo a quello automobilistico, nel quale già a inizio degli anni 2000 la sovrapproduzione ammontava alla cifra già esorbitante di 20 milioni di automobili all'anno. Prima dello scoppio della crisi, le case automobilistiche hanno fatto un massiccio utilizzo del credito al consumo (con finanziamenti a tasso zero per l'acquisto di automobili e simili)3. Hanno inoltre potuto riscadenzare i propri debiti, grazie alla possibilità di usufruire di prestiti a condizioni di tasso eccezionalmente favorevoli. In terzo luogo, hanno emesso azioni a costi decrescenti, grazie all'afflusso crescente di denaro sui mercati finanziari proveniente dai fondi pensione e dai fondi istituzionali: in tal modo "la stessa capital asset inflation tipica del capitalismo dei fondi è stata per lungo tempo un elemento stabilizzante della posizione debitoria delle imprese non finanziarie". Infine hanno fatto profitti da operazioni finanziarie. Ed è questa la strada maestra per la redditività imboccata negli anni precedenti la crisi da molte imprese manifatturiere.

3) La speculazione come mezzo per la valorizzazione del capitale.

La possibilità di effettuare attività speculative per ottenere livelli di profitto altrimenti impossibili: questa terza grande funzione del credito e della finanza in questi anni. Intendiamoci, nulla di nuovo sotto il sole, se non forse nelle dimensioni del fenomeno: si tratta di un fenomeno descritto, poco prima della crisi del 1929, anche dal marxista Henryk Grossmann, il quale considerava la speculazione di borsa come una sorta di "esportazione di capitale all'interno", del tutto parallela alla esportazione dei capitali all'estero, e con al fondo lo stesso motivo: la crisi di valorizzazione del capitale nei settori originari di attività. Nel Regno Unito tra il 1987 e il 2008 l'acquisto di assets finanziari da parte di imprese non finanziarie è stato del 20% più elevato rispetto all'acquisto di attivi fissi (macchinari ecc.).

In effetti , se si esamina l'andamento dei profitti in gran parte dei paesi capitalistici avanzati si osserva che a partire dalla fine degli anni Novanta quelli da attività finanziarie cominciano a crescere vertiginosamente, perdendo ogni rapporto tanto con l'andamento del Pil quanto con i profitti totali, proporzione salita al 40% nel 2007, e ancora di più quello del Regno Unito, dove tale proporzione nel 2008 aveva raggiunto addirittura l'80%.
In base alla ricostruzione che si è proposta, la stessa ampiezza e gravità della crisi scoppiata nel 2007 non è affatto sorprendente. Essa rappresenta infatti il precipitato di oltre un trentennio in cui il saggio di profitto è stato alimentato dalla finanziarizzazione su larga scala, ossia da un ruolo sempre più preponderante del capitale produttivo di interesse.

Se si interpreta, con Riccardo Bellofiore, la caduta del saggio di profitto come una "meta-teoria delle crisi", una sorta di cornice concettuale comprensiva entro la quale vanno ricostruite le forze e i fattori volta per volta scatenanti delle singole crisi, è facile vedere come la crisi del 2007 sia stata innescata proprio da quel capitale produttivo d'interesse la cui crescente importanza aveva rappresentato nei decenni precedenti il principale fattore di controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Il detonatore della crisi è stato infatti rappresentato dallo scoppio della bolla finanziaria che si era creata grazie all'accumulo di debito privato.

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LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE. LE CONFUTAZIONI* - Ascanio Bernardeschi



Se si legge Marx con le lenti di Ricardo, la sua teoria appare contraddittoria. Occorre invece avere chiara la sua netta rottura con l'economia classica.


La difficoltà o l'impossibilità di misurare gli oggetti non implica che essi non esistano o che non siano regolati da determinate leggi. Nella meccanica quantistica, per esempio, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, è impossibile misurare con precisione, nello stesso istante, sia la posizione che la velocità di una particella. Però la teoria di Marx è stata criticata per via della difficoltà di misurare il lavoro sociale necessario a produrre una merce oppure di stabilire a quanto tempo di lavoro semplice corrisponde un'ora di un lavoro complesso, maggiormente specializzato. È agevole rispondere che per Marx è il mercato a stabilire il tempo lavoro necessario a produrre una merce. Se la misura immanente del valore è il tempo di lavoro, quella “fenomenica esterna” è il denaro, quale rappresentante di ricchezza astratta e quindi di un certo tempo di lavoro. È il mercato che verifica se e in che misura il lavoro prestato è lavoro socialmente necessario. Così pure, Marx non si è mai sognato di cercare di risolvere il “puzzle” [1] della riduzione del lavoro complesso a lavoro semplice, limitandosi casomai a indicare come ciò sia possibile in via teorica. Anche nei suoi esempi numerici, ha quasi sempre utilizzato il denaro come misura del valore. La sua teoria non serve a determinare in vitro il valore delle merci, ma a scoprire le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico e metterne a nudo le contraddizioni. Essa deve essere valutata sulla base della sua capacità o meno di raggiungere questo obiettivo e naturalmente sulla base della sua coerenza interna.

Le critiche più diffuse all'impianto teorico marxiano, si riferiscono invece a una presunta contraddizione fra il primo e il terzo libro del Capitale, fra i valori e i prezzi di produzione. I secondi sarebbero derivati in maniera erronea, o non sarebbero affatto derivabili, dai primi.

Appena due anni dopo la pubblicazione da parte di Engels del terzo libro del Capitale, un economista austriaco, Eugen von Böhm-Bawerk, denunciò tale contraddizione [2]. A lui parve che. nell'avanzamento dell'analisi di Marx, con l'introduzione dei prezzi di produzione, fosse superata, la teoria esposta nel primo libro. Il povero Eugen non sapeva che la stesura dei manoscritti pubblicati da Engels come terzo libro era anteriore alla redazione per la stampa del primo libro, scritto quindi quando Marx conosceva già gli sviluppi della sua analisi sulla concorrenza, sul saggio di profitto e sulla trasformazione. Se insistette a parlare di valore, evidentemente non considerava questa idea superata.

lunedì 23 maggio 2016

domenica 22 maggio 2016

LA DIALETTICA, malgré eux - Stefano Garroni




Note per una filosofia marxista contro il dogmatismo

Non è irragionevole pensare che lo scarto sempre più marcato - fra obiettività degli eventi caratterizzanti il nostro tempo e i parametri ideologici di cui la “sinistra” oggi si serve - a breve debba determinare una sorta di “scatto” della coscienza e, dunque, il recupero di una prospettiva non delirante ma critica, non ideologica ma teorica.
Certo si potrebbe obiettare (e non per scherzo) che l’irrealismo di questa ipotesi è misurato proprio dal quanto della sua ragionevolezza. Senonché, un nero pessimismo è, esso stesso, parte non secondaria di quell’ideologia di quella “sinistra” di cui, forse - qua e là - può già avvertirsi la crisi. Lasciamo dunque cadere tale estremo pessimismo. Se decidiamo al suo posto di assumere un atteggiamento che non valorizzi solo la negatività, ma anche la possibilità di un “superamento”, può risultare non bizzarro proporre di nuovo all’attenzione dei compagni un tema, ostico, antipatico ma importante, come quello della “filosofia marxista”.

La connessione è evidente: la critica all’ideologia (anche della “sinistra”) non è mai condotta direttamente dalle esperienze - se non altro perché funzione propria dell’ideologia è rendere le esperienze, quali che siano, compatibili con “lo stato di cose esistente”.

É dunque necessario uno strumento di mediazione che faccia della coscienza la “critica dell’esistente” e non il suo “prolungamento celeste”, la sua “legittimazione”.
Comunque la si voglia definire, è certo che la filosofia marxista rivendica per sé esattamente questa funzione di mediazione, di passaggio dall’“ideologia” alla “critica”.
Di qui - posto il pacato ottimismo che iniziava questa mia nota - l’opportunità, forse, di riproporre tale filosofia come argomento di riflessione. 

Dialoghi di profughi XII.* - Bertolt Brecht




LA SVEZIA, OVVERO L’AMORE DEL PROSSIMO. – UN CASO DI ASMA.


ZIFFEL     I nazisti dicono: L’utile collettivo viene prima dell’utile individuale. Questo è comunismo, e io lo dico alla mamma.

KALLE     Ecco che parla di nuovo in malafede solo perché vuol farmi vedere che va contro corrente. Quella frase significa soltanto che lo Stato viene prima dei sudditi, e lo Stato sono i nazisti e basta. Lo Stato rappresenta la collettività in quanto impone tasse a tutti, comanda di qua e di là, impedisce i rapporti reciproci e spinge alla guerra.

ZIFFEL     La sua è una esagerazione che mi piace. Senza esagerazione si potrebbe dire che quella frase stabilisce in effetti un’antitesi insuperabile tra l’utile del singolo e l’utile della collettività. E’ appunto questo che provoca il suo disprezzo. Anch’io direi che in un paese dove l’egoismo vien diffamato per principio, c’è qualcosa di marcio.

KALLE     In una democrazia come la conosciamo noi…

ZIFFEL     Non occorre che aggiunga come la conosciamo noi.

KALLE     Dunque in una democrazia si dice generalmente che si deve creare un equilibrio tra l’egoismo di quelli che hanno qualche cosa e quello di coloro che non hanno nulla. Questa è una palese assurdità. Rimproverare a un capitalista l’egoismo significa rimproverargli di essere un capitalista. I frutti ce li ha solo lui, perché è lui che sfrutta. Infatti gli operai non possono sfruttare il capitalista. La frase: L’utile collettivo viene prima dell’utile individuale dovrebbe suonare: Quando si tratta di sfruttamento, non è permesso che uno solo sfrutti un altro o tutti, ma tutti devono… e ora mi dica, per favore: sfruttare che cosa?

sabato 21 maggio 2016

Roberto Fineschi: Marx “economista”* -



                                        Quarto incontro. Marx "economista". II Parte: La trasformazione del valore in prezzi:   https://www.youtube.com/watch?v=4QSeawJ68Qo
                                        Quinto incontro: In cerca di un soggetto storico: forme e figure - Roberto Fineschi 

giovedì 19 maggio 2016

mercoledì 18 maggio 2016

EUROPA E "MEZZOGIORNI"* - Joseph Halevi


Grecia, Europa ecc.

Premessa: penso che per il 90% l’esito e l’iter stesso della vicenda greca siano stati del tutto indipendenti dalla posizione del governo allora in carica. Tuttavia considero Yanis Varoufakis responsabile della catastrofe negoziale. È stato lui ad impostare l’intera strategia dei negoziati con l’Eurogruppo. Questa consisteva nel trasferire dentro il negoziato le illusorie promesse elettorali di Syriza basate sulla ricontrattazione del debito e la fine dell’austerità e sul mantenimento della Grecia nell’eurosistema. Due promesse incompatibili dati i rapporti di forza al 100% contro la Grecia.
Quindi non c’è mai stata disobbedienza dei Trattati da parte della Grecia.

Secondo me sia a livello mondiale che europeo non si può reagire per niente. Sul piano mondiale non si può fare nulla se non si mandano allo sfascio certe istituzioni. Nel lontano passato la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario venivano additati come gli strumenti di assoggettamento dei paesi del Terzo Mondo. Ma da vent’anni c’è l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC-WTO) che è mille volte peggio e riguarda tutti i paesi. L’OMC è un organismo giuridico globale, costruito come strumento legale e ministeriale per le grandi società contro gli Stati. Perché contro gli Stati? Per attaccare le legislazioni statali che garantiscono quei diritti sociali che le grandi società considerano contrarie ai loro interessi. Il processo è continuo e non ne parla nessuno salvo poi scandalizzarsi per i Trattati Transatlantico e Transpacifico che non sarebbero stati possibili senza le normative OMC. La forza dell’OMC sta nel fatto che gli Stati, che l’hanno creata appunto, sono favorevoli all’esistenza di un organismo globale che li attacchi sui punti deboli dal punto di vista dei gruppi monopolistici. Il movimento altermondialista è nato proprio nel quadro della critica all’OMC+FMI. Concettualmente poco consistente, è scomparso quando i meccanismi soggiacenti alla formazione dell’OMC si sono messi veramente a macinare paesi e popolazioni, e quando Lula disse “basta giocare, ora che sono Presidente devo fare la persona rispettabile agli occhi del capitale” chiudendo, tra l'altro, la kermesseannuale di Porto Alegre.

Per ciò che riguarda l’Europa dell’UE penso che sia un caso perso; a basket case in inglese. Proporre cambiamenti con queste istituzioni sia UE che nazionali è come se Mazzini si fosse messo a costruire il movimento della Giovane Europa accettando il Congresso di Vienna e la Santa Alleanza. Oggi i Congressi di Vienna sono i Trattati da Maastricht in poi e la Santa Alleanza è una fragile combinazione tedesco-olandese-austriaca con la Francia a braccetto suo malgrado (perché la partita le sta andando molto male). L’ultimo ed efficacissimo strumento della Santa Alleanza è l’Eurogruppo, che neanche esiste sul piano legale pur avendo il potere di prendere delle decisioni letali per i paesi dell’eurozona, come è successo riguardo la Grecia. Quindi bisogna che il nuovo regime post-napoleonico versione Mitterrand, visto che è stato lui a creare questa macchina infernale e NON la Germania, entri in crisi di disfacimento.
È tuttavia inutile porsi il disfacimento come obiettivo politico in quanto crea l’effetto opposto. Sono anche totalmente scettico riguardo la possibilità di una politica di opposizione di sinistra dato che la sinistra non esiste più in Italia e non si ricostituirà almeno per ancora parecchi anni.

domenica 15 maggio 2016

Rosa Luxemburg e la Quarta Internazionale - Lev Trotsky*

Scritto il 24 giugno 1934.
Pubblicato nel New International dell'agosto 1935. 

In Francia e altrove sono stati compiuti ultimamente parecchi sforzi per costruire un cosiddetto luxemburghismo da usare come un trinceramento, da parte dei centristi di sinistra, contro il bolscevismo-leninismo. Questo fatto può assumere un particolare significato. Potrà forse essere necessario dedicare nel prossimo futuro un articolo esaustivo su cosa sia il vero luxemburghismo. Qui mi occuperò solo dei punti essenziali della questione.

Abbiamo più di una volta preso le difese di Rosa Luxemburg contro l'impudente e stupida falsificazione fattane da Stalin e dalla sua burocrazia. E continueremo a farlo. In ciò non siamo spinti da nessuna considerazione di tipo sentimentalistico, ma dalle esigenze della critica dialettico-materialista. La nostra difesa di Rosa Luxemburg non è, però, incondizionata. I punti deboli degli insegnamenti di Rosa Luxemburg sono tanto teorici quanto pratici. I membri del S.A.P. [1] e altri simili elementi (vedi, per esempio, il dilettantistico intellettualismo degli esponenti della cosiddetta "cultura proletaria": il francese Spartacus, il periodico degli studenti socialisti belgi e, spesso, anche l'Action Socialiste belga, ecc.) utilizzano unicamente i lati errati che sono senza dubbio decisivi in Rosa; loro generalizzano ed esagerano queste mancanze all'estremo e costruiscono su esse un sistema profondamente assurdo. Il paradosso consiste in ciò, che alla fine svoltano verso lo stalinismo - senza esserne consci e neppure accorgendosene - arrivando a compiere una caricatura dei lati negativi del luxemburghismo, non dicendo niente sul tradizionale centrismo o sul centrismo di sinistra della schiera socialdemocratica.

Non si va avanti di un passo nel dire che Rosa Luxemburg contrapponeva spassionatamente la spontaneità delle masse alla "vittoriosa e coronata" politica conservatrice della socialdemocrazia tedesca, specialmente dopo la rivoluzione del 1905. Questa contrapposizione aveva carattere completamente rivoluzionario e progressista. Molto tempo prima di Lenin, Rosa Luxemburg ha compreso il carattere ritardante dell'ormai ossificato partito e dell'apparato sindacale ed ha cominciato a combattere contro di essi. Poiché ella confidava nell'inevitabile accentuarsi dei conflitti di classe, ha sempre previsto la certezza di un'apparizione indipendente delle masse contro il volere e contro la linea dei burocrati. In questa sua visione storica generale, Rosa si è mostrata corretta. La Rivoluzione del 1918 fu infatti "spontanea", cioè, fu compiuta dalle masse contro tutti i provvedimenti e tutte le precauzioni della burocrazia di partito. Ma, d'altro canto, la conseguente storia tedesca ha ampiamente mostrato come la spontaneità da sola è lontana dalla possibilità di ottenere vittorie durature; il regime di Hitler fornisce un pesante argomento contro la panacea della spontaneità.

lunedì 9 maggio 2016

Narcisismo e feticismo della merce* - Anselm Jappe

*Pubblicato su Revue Rue Descartes, n°85-86, 2015. 


Qualche osservazione a partire da Cartesio, Kant e Marx


Feticismo della merce e narcisismo: è intorno a questi due concetti, ed alle loro conseguenze, che si articola questo testo. Il suo retroterra teorico è dato dalla critica del valore, del lavoro astratto, del denaro e del feticismo della merce, così come è stata sviluppata soprattutto da Robert Kurz e dalle riviste Krisis ed Exit!, in Germania, e da Moishe Postone, negli Stati Uniti, dopo la fine degli anni 1980.

Feticismo della merce, è un concetto introdotto da Karl Marx nel primo capitolo del Capitale. Lo si è spesso voluto intendere come una forma di falsa coscienza, o di una semplice mistificazione. Tuttavia, un'analisi più approfondita [*1] dimostra che si tratta di una forma di esistenza sociale totale che si situa a monte di ogni separazione fra riproduzione materiale e fattori mentali: essa determina le forme stesse del pensiero e dell'agire. Il feticismo della merce condivide questi tratti con altre forme di feticismo, come la coscienza religiosa. Potrebbe così essere caratterizzato come una forma a priori.

Il concetto di forma a priori evoca evidentemente la filosofia di Immanuel Kant. Tuttavia, lo schema formale che precede ogni esperienza concreta e che a sua volta la modella, che è qui in questione, non è affatto ontologico, come lo è in Kant, ma storico e soggetto ad evoluzione. Le forme a priori nelle quali si devono rappresentare necessariamente tutti i contenuto della coscienza sono, per Kant, il tempo, lo spazio e la causalità. Egli concepisce tali forme come innate in ogni essere umano, senza che la società o la storia giochino alcun ruolo. Basterebbe riprendere tale questione, privando però le categorie a priori del loro carattere atemporale ed antropologico, per poter arrivare a delle conclusioni vicine alla critica del feticismo della merce. Il fatto che la percezione del tempo, dello spazio e della causalità variano notevolmente nelle differenti culture del mondo è stato sottolineato anche da alcuni kantiani [*2].

Però, non si tratta soltanto della conoscenza, ma anche dell'azione. Il feticismo della merce di cui parla Marx, e l'inconscio di cui parla Sigmund Freud, sono le due principali forme che dopo Kant sono state proposte per dar conto di un livello di coscienza in cui gli attori non hanno affatto una percezione chiara, ma che in ultima analisi li determina. Ma mentre la teoria freudiana dell'inconscio è stata ampiamente accettata, il contributo dato da Marx per comprendere la forma generale della coscienza è rimasto la parte più misconosciuta della sua opera [*3]. Con la formula del "feticismo della merce" e del "soggetto automatico", Marx ha gettato le basi per una concezione di un inconscio a carattere storico e soggetto al cambiamento, mentre l'inconscio di Freud è essenzialmente il ricettacolo di costanti antropologiche, e perfino biologiche. In Freud, è sempre questione di rapporto fra un inconscio tout court ed una cultura tout court, e per lui questo rapporto non è mai cambiato dall'epoca della "orda primitiva". Nella sua teoria, non c'è posto per la forma feticista, la cui evoluzione costituisce proprio la mediazione fra la natura biologica, in quanto fattore pressoché invariabile, e gli avvenimenti della vita storica.

Dialoghi di profughi XI.* - Bertolt Brecht



LA DANIMARCA, OVVERO DELL’UMORISMO. – SULLA DIALETTICA HEGELIANA.


Il discorso cadde anche sulla Danimarca, dove sia Ziffel che Kalle erano stati per un po’di tempo, poiché si trovava sulla loro strada.

ZIFFEL    Laggiù hanno un senso dell’umorismo addirittura proverbiale.

KALLE    Ma non hanno ascensori, e lo dico per esperienza. I danesi sono gente cordiale e pacifica, e ci accolsero con grande ospitalità. Si ruppero la testa a pensare come potevano fare per rendersi utili, ma poi ci si dovette arrivare da noi. L’idea fu quella di trarre profitto dal fatto che nella case della capitale non ci sono ascensori, ed ecco che qui intervenimmo noi, poiché tutti quanti dicevano che non era mica dignitoso che noi si dovesse accettare l’elemosina invece di essere pagati per un lavoro. Quando scoprimmo che i secchi della spazzatura se li dovevano portar giù per le scale dall’ultimo piano, ci mettemmo a farlo noi: così era più dignitoso.

ZIFFEL    Sono tanto spiritosi. Si divertono ancora oggi a parlare di un certo loro ministro delle finanze, l’unico dal quale abbiano ricevuto qualcosa in cambio del loro denaro, e più precisamente una barzelletta. Un bel giorno si presenta da lui una commissione per controllare la casa, lui si alza con gran dignità e, battendo il pugno sulla scrivania, dice: «Signori, se loro insistono per il controllo, io non sono più il ministro delle finanze». Al che quelli se ne vanno e tornano dopo sei mesi, e allora vien fuori che il ministro aveva detto la pura verità. Lui l’han messo in prigione, ma venerano la sua memoria.

domenica 8 maggio 2016

CONCORRENZA, SAGGIO DEL PROFITTO E I PREZZI DI PRODUZIONE* - Ascanio Bernardeschi




Poniamo che per mettere in movimento un certo numero di lavoratori, che costano 100 di capitale variabile e producono 100 di plusvalore (saggio del plusvalore uguale al 100%), occorra una dotazione di capitale costante di 200. Se in un anno metto in atto un solo ciclo di produzione e vendita, il mio profitto annuo sarà di 100Pv/(200C+100V)=33,3% circa. Se il prodotto invece viene lavorato e venduto in un mese, al termine di quel mese ho riprodotto i fattori di produzione (mezzi di produzione e salari) senza dover ricorrere a una nuova anticipazione di capitale e ho ugualmente una produzione di 200C+100V+100Pv=400. Però con lo stesso capitale anticipato posso ripetere il ciclo produttivo 12 volte in un anno. Il plusvalore complessivo prodotto ogni anno è 100*12=1.200, e il saggio del profitto è 1.200/(200+100)=400% pur restando il 100% il saggio del plusvalore.


Quando nell'analisi si introducono i molti capitali in concorrenza fra di loro alla ricerca della massima valorizzazione, la legge del valore si afferma, redistribuendo fra i vari capitalisti, nella forma di profitto, il plusvalore prodotto. Cambiano i singoli prezzi, ma a livello aggregato si conservano le leggi formulate nel precedente livello di astrazione, quello del capitale in generale.



Il metodo di Marx consiste nel partire dai dati caotici della realtà fenomenica per scoprire i nessi tra di loro in una discesa verso rappresentazioni sempre più schematiche, semplici e astratte, fino a giungere al nocciolo analitico elementare, la merce. Da qui inizia la sua esposizione, un percorso a ritroso per risalire per gradi, introducendo sempre nuove complicazioni, verso la complessità del reale, verso la forma con cui si presentano le categorie economiche alla superficie della società, questa volta non come descrizione di un insieme caotico di dati, ma come un sistema ordinato secondo una determinata struttura logica, “come una totalità ricca di molte determinazioni e rapporti” [1].

Nei precedenti articoli si è riferito l'esposizione di Marx, dalla “cellula elementare” della nostra società, la merce, fino al capitale in generale (libro I della sua opera principale).

Nel libro III [2], pubblicato postumo da Engels, vengono introdotti i vari capitali in concorrenza fra di loro, che si muovono alla ricerca del massimo profitto. In questo nuovo quadro la legge del valore si afferma attraverso una mediazione complessa, e una procedura per derivare i prezzi di produzione da una trasformazione dei valori.

L’individuo privatizzato - Psicanalisi e immaginazione radicale del soggetto* - Cornelius Castoriadis




Nei due testi che seguono, L’individu privatisé  (1) – un intervento tenuto dal filosofo alcuni mesi prima di morire [qui il sito a lui dedicato] – e Psicanalisi e immaginazione radicale del soggetto – intervista rilasciata a Sergio Benvenuto il 7 maggio 1994, Castoriadis illustra i concetti di autonomia, libertà e democrazia alla luce del compito emancipativo del soggetto assegnato da Freud alla psicanalisi – e dai greci alla paideia. 



L’individuo privatizzato [Tolosa, 22 marzo 1997]**

La filosofia non è tale quando non esprime un pensiero autonomo. Cosa significa“autonomo“? Il termine “autos- nomos”,“che si dà la sua propria legge”, ha in filosofia un significato chiaro: darsi la propria legge vuol dire porre domande, e non accettare nessuna autorità; neppure quella del proprio pensiero anteriore.

Ma qui tocchiamo un punto dolente, poiché quasi sempre i filosofi costruiscono sistemi chiusi come un uovo (si veda Spinoza, si veda soprattutto Hegel, e in qualche misura anche Aristotele), o restano attaccati a talune forme che hanno creato, e che non riescono a rimettere in questione. Gli esempi contrari sono pochi: uno è Platone; un altro, anche se nel campo della psicanalisi e non della filosofia, è Freud.L’autonomia del pensiero è l’interrogazione illimitata, che non si ferma davanti a nulla e rimette costantemente in discussione se stessa. Non è però un’interrogazione vuota, che non avrebbe alcun significato: perché abbia un senso, occorre aver già posto un certo numero di termini come provvisoriamente incontestabili; altrimenti quel che rimane non è un’interrogazione filosofica, ma un semplice punto interrogativo. L’interrogazione filosofica è articolata, salvo a riconsiderare gli stessi termini a partire dai quali si è articolata.

Che cos’è l’autonomia in politica? Quasi tutte le società umane sono istituite nell’eteronomia, vale a dire nell’assenza di autonomia. In altri termini, le società, che pure creano, tutte, le proprie istituzioni, vi incorporano l’idea, incontestabile per i rispettivi membri, che queste non siano opera dell’uomo, creazioni di esseri umani o in ogni caso non di quelli presenti al momento. Sono sempre create dagli spiriti, dagli antenati, dagli eroi, dagli dei; non sono mai opera dell’uomo.
C’è un vantaggio considerevole in questa clausola tacita ma talvolta anche esplicita: come nella religione ebraica, ove il dono della legge [si veda Esiodo, per il mondo greco, NDR] fatto da Dio a Mosè è scritto, esplicitato; molte pagine dell’Antico testamento descrivono nei particolari le regole che Mosè ricevette da Dio: non solo i dieci Comandamenti, ma tutti i dettagli della Legge. E sarebbe impensabile contestare queste disposizioni: significherebbe contestare l’esistenza di Dio, o la sua veridicità, o la sua bontà, o la sua giustizia: tutti attributi consustanziali a Dio. E lo stesso può dirsi per altre società eteronome. Se cito qui l’esempio ebraico, è per la sua purezza classica.

sabato 7 maggio 2016

UN REDDITO GARANTITO CI VUOLE! MA QUALE ? strumento di libertà o gestione delle povertà*

*Da:    http://www.bin-italia.org/                           http://www.sinistrainrete.info/ 



Reddito garantito, tra concetti e preconcetti. Limiti e punti di forza di alcune proposte in campo di Elena Monticelli

Da alcuni anni il tema del reddito minimo in Italia ha assunto nuovamente una centralità e diverse forze politiche hanno iniziato a sostenere proposte che andassero nella direzione di introdurre una misura di quel tipo: il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e Sinistra Ecologia e Libertà, le prime due proposte di legge d’iniziativa parlamentare, l’ultima invece una proposta di legge d’iniziativa popolare, che ha raccolto oltre cinquantamila firme di cittadini italiani. Il Partito Democratico, però, ha smesso negli ultimi due anni di sostenere la proposta formulata.

Contemporaneamente a queste proposte è emersa anche la proposta REIS (Reddito d’Inclusione Sociale) , una proposta di reddito di inclusione sociale nata dall’Alleanza contro la povertà in Italia, un cartello di soggetti aventi come promotori le Acli e la Caritas che si rivolge soltanto ai nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà assoluta. Nonostante la campagna “Reddito di dignità” promossa dall’Associazione Libera contro le Mafie, l’iter per la calendarizzazione della discussione in Senato sulle due proposte di legge (quella del M5S e quella di Sel) si è arenato bruscamente. Nel frattempo lo scorso luglio 2015 è stato presentato dal Ministro del Lavoro Poletti il «Piano nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale», finanziato successivamente attraverso la Legge di Stabilità (L.28 dicembre 2015, n. 208), attraverso uno stanziamento per il 2016 quantificato in 600 milioni di euro ed uno stanziamento per il 2017 in Legge di Stabilità che ammonta ad 1 miliardo. Infine il Governo Renzi ha presentato lo “Schema di disegno di legge di delega recante le norme relative al contrasto alla povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali”, cosiddetto Ddl Povertà. Il modello proposto da questo disegno di legge affonda le proprie radici nel SIA – Sostegno all’Inclusione Attiva, approvato durante il Governo Letta, caratterizzato da principi di universalismo selettivo, impianto familista, importo decisamente inferiore ai termini di adeguatezza previsti da uno schema di reddito minimo garantito e in ultimo da forme di condizionatezza legate a lavoro volontario.

venerdì 6 maggio 2016

ROSA LUXEMBURG: RIVOLUZIONARIA, DONNA, FEMMINISTA* - Antonella Marazzi




Il mio primo incontro con Rosa risale ai primissimi anni ‘70, quando giovane militante cercavo con studi, tanto appassionati quanto caotici, di darmi una formazione teorica di base. Ricordo che ne ricevetti l’impressione di una donna decisa, dalla forte personalità politica e dalle brillanti doti teoriche, che aveva attraversato come una meteora l’orizzonte politico della Seconda internazionale per finire assassinata dalla controrivoluzione tedesca, dopo aver polemizzato con alcune delle più acute intelligenze rivoluzionarie della sua epoca. Nel corso degli anni avevo poi ripreso in mano alcune sue opere, ultima in ordine di tempo, La Rivoluzione russa. Il convegno organizzato a Roma da Utopia rossa nel settembre del 2009 a novant’anni dalla sua morte mi ha fornito l’opportunità di incontrarla di nuovo. E così ho trascorso con lei l’ultimo scorcio di una caldissima estate, leggendola sulle sponde di un lago, a immediato contatto con quella natura da lei così profondamente amata in tutti i suoi molteplici aspetti e nella quale cercava di immergersi non appena poteva.

A mio avviso, Rosa ha rappresentato, insuperata, l’unico esempio di donna, rivoluzionaria a tempo pieno, che sia riuscita a praticare concretamente la fusione tra la militanza attiva nei movimenti di lotta della sua epoca - come agitatrice e dirigente - e l’impegno teorico. Un impegno speso sul campo della polemica con alcuni tra i più famosi e prestigiosi intellettuali del suo tempo, come Bernstein, Kautsky e lo stesso Lenin (oltre a Trotsky con cui fu spesso d’accordo). Una produzione teorica finalizzata alla denuncia di posizioni che ai suoi occhi rappresentavano concreti pericoli sulla strada della rivoluzione socialista: contro il revisionismo di Bernstein (Riforma sociale o rivoluzione?); contro la teoria leninista del partito (Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa) e contro la concezione burocratica del rapporto tra movimenti di massa, partito e sindacato (Sciopero di massa, partito, sindacati); contro il nazionalsciovinismo di Kautsky e della maggioranza del Spd (La crisi della socialdemocrazia); contro i pericoli di degenerazione della Rivoluzione russa del ‘17 (La Rivoluzione russa).

Da non trascurare sono anche i suoi testi di economia politica come l’Introduzione all’economia politica L’accumulazione del capitale - in cui si misura direttamente con il Marx de Il Capitale - elaborati nel periodo in cui insegnò alla scuola quadri del Spd a partire dal 1907. Per non parlare poi della prodigiosa mole di articoli pubblicati sugli organi di stampa dei partiti in cui militò e/o che contribuì a fondare: Partito socialdemocratico tedesco (Spd), Partito socialdemocratico di Polonia e Lituania (Sdkpil), Spartakusbund, Kpd. 

giovedì 5 maggio 2016

CUBA DOPO LA VISITA DI BARACK OBAMA* - Alessandra Ciattini




Quali saranno le conseguenze del nuovo corso delle relazioni tra USA e Cuba sottolineato con grande risonanza mediatica in occasione della recente visita di Obama? Molti problemi e interrogativi restano aperti e su di essi discutono anche le massime autorità cubane. 



In numerose fonti di informazioni latinoamericane e cubane (anche ufficiali) si discute molto sulle conseguenze della visita a Cuba del presidente Barack Obama, insignito per il solo fatto di essere quasi nero e statunitense del premio Nobel per la pace; conseguenze che ovviamente non si faranno sentire solo nell'isola caraibica, ma che si riverberanno su tutta la società latinoamericana, scossa da una serie di tensioni e conflitti, il cui obiettivo è la destabilizzazione dei governi progressisti ivi operanti. In questo senso Cuba resta un simbolo ancora vitale, la cui stessa esistenza rimanda a possibili alternative per gli Stati Uniti indigeribili. Naturalmente in questo breve intervento rifuggirò da tutte quelle interpretazioni che, solo allo scopo di generare sensazionalismo, fanno di questo evento qualcosa di epocale, da cui dovrebbe scaturire una nuova fase nella storia del mondo (come, d'altra parte, ho fatto in un altro intervento pubblicato sempre su LCF).

Comincio con il soffermarmi su quanto si ricava dal canale televisivo interstatale Telesur, cacciato recentemente dall'Argentina, in cui è andato al potere un personaggio legato alla passata dittatura e al capitale transnazionale. Nel noticiero e nei vari programmi di Telesur emergono sostanzialmente due aspetti della questione: da un lato, si sottolineano i possibili vantaggi che deriverebbero alla più grande delle Antille dall'apertura delle relazioni commerciali e finanziarie con gli Stati Uniti, la quale provocherebbe il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e, di conseguenza, il consolidamento del socialismo cubano, che dovrà essere prospero e sostenibile. È questa la linea ufficiale, identificata in particolare con la figura di Raúl Castro, il quale ha sempre parlato della necessità di “actualizar el socialismo cubano” e di procedere alla normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, con i quali rimangono tuttavia – sottolinea - importanti divergenze. E, d'altra parte, l'attuale leader cubano ha anche più volte ribadito che tale normalizzazione potrà realizzarsi solo nel pieno rispetto dell'autonomia e della sovranità della nazione cubana, ossia con il ripudio della politica di ingerenza anche violenta, che – nonostante le parole amichevoli di Obama a Cuba – continua a manifestarsi in varie forme; pensiamo, per esempio, al prolungamento delle sanzioni contro il Venezuela considerato una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e un paese non rispettoso dei diritti umani (1).

Il lungo viaggio di Hilary Putnam. Realismo metafisico, antirealismo e realismo naturale* - Mario De Caro

*Da:   https://www.academia.edu/

"Chi è filosoficamente confuso è come un 
uomo in una stanza, che vuole uscirne, ma 
non sa come fare. Prova a passare dalla 
finestra, ma è troppo alta. Prova a passare per 
il comignolo, ma è troppo stretto. E se 
soltanto si guardasse intorno, si accorgerebbe 
che la porta è rimasta aperta." 
 Ludwig Wittgenstein 

 La strada che Putnam sta esplorando oggi consiste dunque nel recuperare un atteggiamento naturale rispetto alla percezione, «a second naiveté», che ci permetta di tornare a comprendere che «le cose ‘esterne’ – i cavoli, i re – possono essere esperite» (e non meramente causate). Se si rinuncia alla concezione tradizionale della percezione e si ammette che di norma noi percepiamo direttamente il mondo, i problemi dell’epistemologia tradizionale svaniscono. E’ importante notare, però, che la rinuncia agli intermediari mentali nella spiegazione della percezione non significa che Putnam postuli una sorta di ‘contatto immediato’ tra la mente e gli oggetti (in questo modo non farebbe che riproporre la ‘teoria magica del riferimento’).

 Il punto, piuttosto, è che in questa prospettiva la stessa distinzione interno/esterno non ha più ragion d’essere: la mente, infatti, non viene più considerata come un organo, materiale o immateriale, che elabora informazioni che vengono dall’esterno; essa piuttosto è vista come un sistema di abilità cognitive, dipendente sia dagli eventi cerebrali sia dalla nostra interazione con il mondo e descrivibile soltanto per mezzo di un vocabolario intenzionale. In tale ottica anche la percezione è l’esercizio di un’abilità cognitiva. Percepire un oggetto, spiega Putnam, non è un processo bipartito, in cui a un’interazione non cognitiva tra oggetti e apparato percettivo faccia seguito l’elaborazione cognitiva da parte del cervello. Ad essere cognitivo è il processo percettivo nella sua interezza.

 Una tesi di questo genere si radica con evidenza nella tradizione pragmatista: «gli eventi cerebrali sono una parte della mia attività cognitiva e percettiva solo perché io sono una creatura con un certo tipo di ambiente normale, e con una certa storia di interazioni individuali e di specie con quell’ambiente». In tal modo, secondo Putnam, né gli eventi cerebrali né i fenomeni percettivi sono intrinsecamente  cognitivi: «[c]ome avrebbe detto John Dewey, ciò che è cognitivo è l’interazione».

 Con l'adesione al realismo naturale, Putnam dichiara concluso il suo itinerario filosofico, «un lungo viaggio che dal realismo è partito e che al realismo è tornato». Il rigore della sua riflessione e le nuove prospettive che nel corso degli anni egli ha dischiuso stanno a dimostrare che questo suo travagliato viaggio non è stato affatto infecondo.


mercoledì 4 maggio 2016

Dialoghi di profughi X.* - Bertolt Brech




LA FRANCIA, OVVERO IL PATRIOTTISMO. – DEL METTER RADICI.


Ziffel dovette dare a Kalle la triste notizia che non vedeva alcuna possibilità di continuare a scrivere le sue memorie, perché aveva avuto troppo poche esperienze.

KALLE    Eppure in vita sua deve ben aver avito delle esperienze, se non grandi, almeno piccole. Racconti queste!

ZIFFEL    In teoria si afferma che ognuno ha una sua vita, ma è soltanto un sofisma che ha una validità puramente formale, in quanto si può certamente chiamare vita il vegetare per settant’anni, o anche solo per tre anni. Conosco il detto secondo cui ci si può rallegrare alla vista di un ciottolo sulla riva di un torrentello quanto alla vista del Cervino. Si può ammirare la creazione del signore allo stesso modo in tutti e due i casi, ma io preferisco ammirarla davanti al Cervino, è questione di gusti. Naturalmente si può parlare di tutto in modo interessante, ma non tutto merita interesse. Comunque io l’ho già finita con le mie memorie, e questo è quanto mai triste.

KALLE    Racconti almeno a voce di tutti i posti dove è stato, e perché ne è venuto via; insomma, come ci ha vissuto.

ZIFFEL    Allora ci sarebbe da parlare della Francia. La patrie. Sono contento di non essere un francese. Quelli devono essere troppo patrioti per i miei gusti.

martedì 3 maggio 2016

Un'etica d’ispirazione psicoanalitica - Roberto Finelli*



Oggi io credo - attraverso il confronto, sempre più indispensabile ed inevitabile, con la cultura della psicoanalisi - etica e politica, scienze umane e filosofia, possono giungere a ragionare di un nuovo materialismo che includa nei bisogni originari e imprescindibili dell'umano, accanto alla bisognosità più esplicitamente fisica e biologica, il bisogno dell'esser riconosciuti, pena l'assenza dell'accendersi della stessa vita psichica. 

Così come possono giungere a meditare su quella complicazione ed arricchimento psicoanalitici del concetto moderno di libertà, per cui libertà non è più solo la libertà liberale «di» (pensiero, religione ..) o la libertà comunista «da» (bisogni e necessità materiali), ma, oltre a queste, una libertà, postliberale e postcomunista, da intendersi come l’assenza, al più alto grado possibile, di quei divieti e di quelle censure, di quel terrorismo interiore che fa divieto al soggetto umano di comunicare con il suo più profondo e proprio Sé. 

Solo una cultura civile e politica che si rifondasse a muovere da tale nuovo materialismo, da tale nuova antropologia, sarebbe forse in grado, io credo, di proporre un economico, e con esso un paradigma di ricchezza, ulteriore a quello moderno e contemporaneo. Solo una cultura etica e filosofica che riconoscesse il grande debito accumulato dalle acquisizioni e dalle conquiste teoriche e cliniche maturate dalla psicoanalisi, nel corso ormai di un secolo, potrebbe, a mio avviso, proporre un'ideale di trasformazione all’altezza della drammaticità dei problemi contemporanei...

Ma questa è la speranza, di poter contrapporre a un vecchio e consunto paradigma di ricchezza, che sta diffondendo disperazioni, terrori e tremori, un nuovo paradigma di ricchezza e fecondità antropologica.

Se tutto ciò potrà mai avvenire, sottraendosi alla dimensione del mero sogno e del mero congetturare utopico, solo un Dio, cioè il tempo dell’ad/venire, ce lo potrà dire.

domenica 1 maggio 2016

MARX E LA RIVOLUZIONE DEL 1848 - Irene Viparelli*

*Viparelli Irene, « Crise et conjoncture révolutionnaire : Marx et 1848. », Actuel Marx2/2009 (n° 46) , p. 122-136
URL : 
www.cairn.info/revue-actuel-marx-2009-2-page-122.htm.
DOI : 10.3917/amx.046.0841.


1. Premessa

Che influenza ebbe la rivoluzione europea del 1848 sulla teoria marxiana? Quale fu il suo contributo specifico? In che misura fu un evento determinante? La strada maestra per addentrarsi nel cuore di questo problema sembra essere fornita dal temporaneo abbandono della militanza politica, compiuto da Marx agli inizi degli anni Cinquanta. Sicuramente il mutamento del contesto storico, la vittoria della controrivoluzione in tutta Europa, la repressione, l’esilio londinese furono tutti fattori che ebbero un’importanza decisiva. Vi fu però anche una motivazione squisitamente teorica, un radicale mutamento nella prospettiva strategica marxiana1.

«Nel caso di una battaglia contro un nemico comune non c’è bisogno di nessuna unione speciale. Appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti coincidono momentaneamente, e, com’è avvenuto sinora così per l’avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si ristabilirà spontaneamente»2.

L’imperativo dell’alleanza di tutte le forze democratiche, centrale nel Manifesto, sembra ormai, dopo la rivoluzione, avere ben poco di strategico; il vero compito dei comunisti rivoluzionari è piuttosto la lotta proprio contro queste alleanze ibridatrici che, lasciando evaporare le differenze di classe, dissolvono l’autonomia del proletariato e ne distruggono la coscienza e la forza rivoluzionaria.

« Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra»3.

Questo principio teorico fu la scoperta fondamentale e il grande contributo della rivoluzione del 1848 alla teoria marxiana: non solo fu il presupposto della nuova strategia anti-ideologica, che spinse Marx a criticare violentemente i progetti cospiratori dei democratici esiliati a Londra e provocò la scissione dell’ala Willich-Schapper nella ricostituita Lega dei comunisti, ma fu anche e soprattutto lo strumento di un’autocritica fondamentale. L’individuazione dell’intrinseco legame tra crisi e rivoluzione impose infatti una radicale problematizzazione della teoria marxiana, che dovette essa stessa liberarsi dai presupposti ancora ideologici, dagli ultimi residui di “filosofia della storia” che, alle soglie della rivoluzione, ancora inibivano la formulazione di una teoria rivoluzionaria organica e pienamente coerente. Marx non ha mai né rinnegato le tesi enunciate nel Manifesto né ha mai tematizzato una differente teoria politica; eppure le vicende del biennio rivoluzionario europeo, inintelligibili attraverso tale schema interpretativo, gli imposero necessariamente l’utilizzazione di altre categorie, non “filosofiche”, che superarono di fatto la semplicità dell’antico modello teorico lineare4: dopo il Quarantotto, infatti, la rivoluzione proletaria non poté più fondarsi semplicemente sull’ “astratta necessità” che accomuna ogni società umana, destinata a perire con l’emergere della contraddizione di forze produttive e rapporti di produzione, ma si dovette invece legare alla modalità peculiare con cui questa “legge generale" si realizza nel modo di produzione capitalistico, a quel movimento ciclico attraverso il quale si sviluppa la contraddizione di lavoro salariato e capitale.

Così, proprio a partire dai testi giornalistici scritti a tra il 1848 e il 1853 è possibile rintracciare preziose indicazioni per una teoria della rivoluzione ben più problematica, intimamente legata all’essenza del modo di produzione capitalistico, al suo essere “terra di mezzo” tra il regno della necessità e quello della libertà, tra la preistoria e la storia dell’umanità5.