Democrazia e potere:
Democrazia in che senso?
https://www.youtube.com/watch?v=fQ3I5wVEkFQ
Libertà o tirannide:
https://www.youtube.com/watch?v=La2US_HbuT8
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
lunedì 1 agosto 2016
domenica 31 luglio 2016
IL RUOLO IDEOLOGICO-POLITICO DI TELESUR*- Alessandra Ciattini

La catena televisiva Telesur è operativa ormai da più di
dieci anni, sette giorni su sette e ventiquattro ore su ventiquattro, diffonde
notizie e propone approfondimenti degli avvenimenti più rilevanti, che invadono
spesso con la loro violenza incomprensibile la nostra vita quotidiana,
utilizzando numerosi corrispondenti in varie parti del mondo. I suoi programmi,
in spagnolo e recentemente anche in inglese, possono essere recepiti in forma
gratuita via cavo, via satellite, in digitale terrestre e in streaming. Il suo
motto è “el nuestro Norte es el Sur”, parole con cui si indica la prospettiva
dalla quale si vuole guardare alla società contemporanea con le sue
contraddizioni laceranti, osservata appunto con gli occhi dei popoli del sud
del mondo, oggetto della depredazione secolare portata avanti dalle potenze del
nord. In questo senso, dunque, nord e sud costituiscono delle entità
geopolitiche che sembrerebbero muoversi secondo linee difformi, in particolare
là dove i paesi “meridionali” acquisiscono quegli spazi di agibilità politica,
che garantiscono loro una certa indipendenza; sia pure essendo questa sempre
limitata dagli interventi diretti e indiretti della superpotenza statunitense,
sostenuti dagli stessi organismi internazionali, sul cui statuto super
partes è sempre più legittimo dubitare.
Telesur nasce per contrastare il dominio dei pochi gruppi
che controllano la comunicazione televisiva e a mezzo stampa in America Latina,
e soprattutto la CNN, che trasmette in spagnolo e che quindi può fornire ai
latinoamericani, anche quelli residenti negli Stati Uniti, la sua visione del
mondo, attraverso la lettura politicamente orientata di quegli eventi, che
opportunamente selezionati, vengono presentati al pubblico [1].
sabato 30 luglio 2016
MARX E LA PENA*
Testo tratto da: Friedrich Engels - Karl Marx Critica della
critica critica Contro Bruno Bauer e soci. Editori Riuniti, Roma 1967. Titolo
originale: "Die heilige Familie oder Kritik der kritischen Kritik. Gegen
Bruno Bauer und Consorten". Traduzione e cura di Aldo Zanardo.
«Rodolfo non rimane fermo al suo elevato» (!) «punto di
vista... egli non teme la fatica di occupare con libera scelta i punti di vista
che stanno a destra e a sinistra, in alto e in basso». Szeliga.
Uno dei misteri principali della critica critica è il «punto
di vista» e la valutazione del punto di vista del punto di vista. Per lei, ogni
uomo, così come ogni prodotto spirituale, si trasforma in un punto di vista.
Niente è più facile che scoprire il mistero del punto di vista, se si è
penetrato il mistero generale della critica critica, consistente nel riscaldare
nuovamente il vecchio cavolo speculativo.
Sia anzitutto la critica stessa a esprimersi per bocca del
patriarca, del signor Bruno Bauer, sulla sua teoria del «punto di vista». «La
scienza... non ha mai a che fare con questo individuo singolo o con questo
punto di vista determinato... Indubbiamente, essa non mancherà di fare ciò, e
supererà il limite di un punto di vista, se ne vale la pena e se questo limite
ha realmente un significato umano universale; ma essa considera questo limite
come pura categoria e determinatezza dell'autocoscienza e parla quindi solo per
coloro che hanno l'ardire di elevarsi all'universalità dell'autocoscienza, cioè
per coloro che con tutte le loro forze non vogliono rimanere in quel limite»
(«Anekdota», vol. 2, p. 127)
Il mistero di questo ardire baueriano è la
"Fenomenologia" di Hegel. Poiché, qui, Hegel pone al posto dell'uomo
l'autocoscienza, la realtà umana più diversa appare solo come una forma
determinata come una determinatezza dell'autocoscienza. Una semplice
determinatezza dell'autocoscienza è, però, una «pura categoria», un semplice
«pensiero», che io quindi posso sopprimere anche nel «puro» pensare e posso
superare mediante il pure pensare.
Nella "Fenomenologia" di Hegel i fondamenti
materiali, sensibili, oggettivi, delle diverse figure alienate
dell'autocoscienza umana sono lasciati sussistere e tutta quanta l'opera
distruttiva ha avuto come risultato la filosofia più conservatrice, dato che si
crede di avere superato il mondo oggettivo, il mondo sensibilmente reale,
appena lo si è trasformato in una «cosa del pensiero», in una semplice
determinatezza dell'autocoscienza e appena si può quindi dissolvere
l'avversario, diventato etereo, nell'«etere del pensiero puro».
La "Fenomenologia", quindi, si conclude
conseguentemente con il porre, al posto di tutta la realtà umana, il «sapere
assoluto»: il sapere, perché questo è l'unico modo di esistere
dell'autocoscienza e perché l'autocoscienza rappresenta l'unico modo di esistere
dell'uomo; sapere assoluto, appunto perché l'autocoscienza sa soltanto se
stessa e non è più disturbata da un mondo oggettivo. Hegel fa dell'uomo l'uomo
dell'autocoscienza, anziché fare dell'autocoscienza l'autocoscienza dell'uomo,
dell'uomo reale, vivente quindi in un inondo reale, oggettivo, dell'uomo
condizionato da questo mondo.
Hegel pone il mondo sulla testa e quindi può anche risolvere
nella testa tutti i limiti, con il che naturalmente essi continuano a
sussistere per la cattiva sensibilità, per l'uomo reale. Inoltre, egli
considera necessariamente come limite tutto ciò che rivela la limitatezza
dell'autocoscienza universale, tutta la sensibilità, tutta la realtà, tutta
l'individualità, degli uomini e del loro mondo. Tutta la "Fenomenologia"
vuole dimostrare che l'autocoscienza è la sola realtà e tutta la realtà.
Negli ultimi tempi il signor Bauer ha ribattezzato il sapere
assoluto chiamandolo critica, e la determinatezza dell'autocoscienza
chiamandola "punto di vista", che è parola dal suono più profano.
Negli «Anekdota», i due nomi rimangono ancora insieme, e il punto di vista è
ancora spiegato mediante la determinatezza dell'autocoscienza. Poiché il «mondo
religioso in quanto mondo religioso» esiste solo come il mondo
dell'autocoscienza, il critico critico - teologo ex professo - non può affatto
arrivare al pensiero che ci sia un mondo in cui coscienza ed essere sono
distinti, un mondo che continua a sussistere, se io sopprimo semplicemente la
sua esistenza pensata, la sua esistenza come categoria, come punto di vista,
cioè se io modifico la mia propria coscienza soggettiva senza mutare la mia
propria realtà oggettiva, la mia propria e quella degli altri uomini.
L'identità mistica, speculativa, di essere e pensiero, si ripete, perciò, nella
critica, come l'identità egualmente mistica di prassi e teoria. Di qui la
rabbia della critica contro la prassi, che vuole essere anche qualcosa di
diverso dalla teoria e contro la teoria che vuole anche essere qualcosa di
diverso dalla dissoluzione di una categoria determinata nell'«universalità
illimitata dell'autocoscienza».
La teoria della
critica si limita a dichiarare che tutto ciò che è determinato è un'opposizione
rispetto all'universalità illimitata dell'autocoscienza, e che quindi è un
nulla; così per esempio lo Stato, la proprietà privata, eccetera. E' necessario
all'opposto dimostrare che Stato, proprietà privata, eccetera, trasformano gli
uomini in astrazioni, o che sono prodotti dell'uomo astratto, anziché essere la
realtà degli uomini individuali, concreti. E' chiaro di per sé infine che, se
la "Fenomenologia" di Hegel, nonostante il suo peccato originale
speculativo, dà in molti punti gli elementi per una reale caratterizzazione dei
rapporti umani, il signor Bruno e soci forniscono invece solo la caricatura
priva di contenuto, una caricatura che si accontenta di estrarre da un prodotto
spirituale, o anche da rapporti e movimenti reali, una qualsiasi
determinatezza, di trasformare questa determinatezza in una determinatezza del
pensiero, in una categoria, e di far passare questa categoria come il punto di
vista del prodotto, del rapporto e del movimento, per potere quindi, con
sapienza presuntuosa, dal punto di vista dell'astrazione, della categoria
universale, dell'autocoscienza universale, guardare giù trionfalmente verso
questa determinatezza.
Come per Rodolfo tutti gli uomini si collocano nel punto di
vista del bene o in quello del male e sono giudicati secondo queste due
rappresentazioni fisse, così, per il signor Bauer e soci, tutti gli uomini si collocano
nel punto di vista della critica o in quello della massa. L'uno e gli altri
trasformano però gli uomini reali in punti di vista astratti.
venerdì 29 luglio 2016
Il senso della Politica - Francesco Valentini
- Le procedure
democratiche senza fortune livellate sono vuote;
le fortune livellate
senza procedure democratiche sono cieche. -
mercoledì 27 luglio 2016
Un mondo senza guerre*- Domenico Losurdo
Una replica ad Antonio Carioti
Estratto da: Pace. Una storia tormentata tra idee e realt
Intervista di Emiliano Alessandroni, su marx21.it
Estratto da: Pace. Una storia tormentata tra idee e realt
Intervista di Emiliano Alessandroni, su marx21.it
... Su «La Lettura» del «Corriere della Sera»
(03/07/2016), Antonio Carioti sembra implicitamente riabilitare una logica
argomentativa cara ad Ernst Nolte, sia pure aggiornata ai giorni nostri:
l'Occidente e gli Stati Uniti hanno commesso crimini atroci, ma si tratta di
congiunture, effetti collaterali sopportabili pur di scongiurare quella che
costituisce la più grande minaccia per la pace: il superamento del sistema
capitalistico. Questo, qualora si verificasse, trasformerebbe invero il pianeta
in un cumulo di "formicai" o di "cimiteri". Sì che le
guerre di Wilson o Bush jr sarebbero ben poca cosa in confronto alla
spietatezza di Lenin o Mao, campioni, assieme al socialismo, non già
dell’ideale di pace, ma dell'intolleranza e della violenza di classe. Che cosa risponderesti a
queste accuse? Il sistema capitalistico resta pur sempre, come il Corriere
vuole indurre a pensare, il più pacifista, il meno violento, dei sistemi
realmente possibili?
Nel tracciare il bilancio degli ultimi due secoli di storia,
l’ideologia dominante, assunta da Carioti come un dogma indiscutibile, fa
astrazione dalle colonie. Se invece superiamo questa astrazione arbitraria e
falsificante, ecco che il quadro cambia in modo radicale. A metà
dell’Ottocento, a proposito dell’Irlanda, colonia della Gran Bretagna,
Beaumont, il compagno di Tocqueville nel corso del viaggio in America, parla di
«un'oppressione religiosa che supera ogni immaginazione»; le angherie, le
umiliazioni, le sofferenze imposte dal «tiranno» inglese a questo «popolo
schiavo» dimostrano che «nelle istituzioni umane è presente un grado d'egoismo
e di follia, di cui è impossibile definire il confine». In quello stesso
periodo di tempo, Herbert Spencer, filosofo liberale e neoliberista, descrive
in che modo procede l’espansionismo coloniale (portato avanti in primo luogo da
paesi di consolidata tradizione liberale): all'espropriazione degli sconfitti
fa seguito il loro «sterminio»: a farne le spese non sono solo gli «indiani del
nord-America» e i «nativi dell'Australia». Il ricorso a pratiche genocide in
ogni angolo dell’Impero coloniale britannico: in India «è stata inflitta la
morte a interi reggimenti», colpevoli di «aver osato disobbedire ai comandi
tirannici dei loro oppressori».
martedì 26 luglio 2016
Michel Foucault: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione*- by fernirosso
*Da: https://cartesensibili.wordpress.com http://www.controappuntoblog.org/
Ascolta anche: https://www.youtube.com/watch?v=9Bm3dd0D4KA
https://www.youtube.com/watch?v=JB49i2qazTY
Michel
Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), tr. it. di A.
Tarchetti, Einaudi, Torino 1993.
Ritornando alla riflessione sull’architettura, se la tana di Kafka è esemplificativa di un’architettura di difesa dall’altro, il testo seguente riguarda invece un’architettura del controllo dell’altro, ossia uno spazio che diviene disciplinare, sezionato e parcellizzato per controllare l’altro: lo spazio diventa disciplina.
Nel capitolo tratto dal testo sopraccitato e intitolato Panoptismo, Foucault inizia dalla
storia. Foucault infatti racconta storie in cui importanti ricerche
storiografiche vanno ad intrecciarsi a mirabili riflessioni teoriche.
Ascolta anche: https://www.youtube.com/watch?v=9Bm3dd0D4KA
https://www.youtube.com/watch?v=JB49i2qazTY

Ritornando alla riflessione sull’architettura, se la tana di Kafka è esemplificativa di un’architettura di difesa dall’altro, il testo seguente riguarda invece un’architettura del controllo dell’altro, ossia uno spazio che diviene disciplinare, sezionato e parcellizzato per controllare l’altro: lo spazio diventa disciplina.
Durante il XVII secolo, quando la peste si manifestava in
una città, venivano immediatamente prese delle misure di sicurezza. Per
cominciare, veniva fatta una rigorosa divisione spaziale in settori della
città; di seguito, città e terreno agricolo circostante venivano chiusi con
l’interdizione di uscirne, pena la vita; infine venivano uccisi tutti gli
animali randagi. Ogni strada era posta sotto l’autorità di un sindaco che aveva
il compito di sorvegliarla; se per qualsiasi motivo l’avesse lasciata, sarebbe
stato punito, senza deroghe, con la morte. Un determinato giorno, designato
precedentemente, si ordinava che ciascuno si rinchiudesse entro la propria
casa; dopo di che, il sindaco andava personalmente a chiudere a chiave le case
e quindi rimetteva la chiave nelle mani dell’intendente di quartiere che la
conservava fino alla fine della quarantena. Ogni famiglia aveva delle sue
provviste e per fare transitare il vino e il pane venivano preparate delle
piccole condutture in legno tra strada e case; per il resto delle cibarie
venivano usate delle carrucole e delle ceste. In città non circolavano che gli
intendenti, i sindaci, i soldati della guardia e i “corvi”, miserabili che
trasportavano i cadaveri e li seppellivano.
A questo punto, è chiaro che l’architettura rappresenta il fil rouge della nostra riflessione.
Quale è il tipo di architettura che riscontriamo in questo preciso momento
storico? Troviamo un’architettura in cui lo spazio è recintato, chiuso,
delimitato; un’architettura in cui ciascuno è stivato al suo posto e se si
muove ne va della sua vita, causa la possibilità di contagio o di punizione.
domenica 24 luglio 2016
CORPO E CITTA’: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese. 15 years later* - Paolo F. Peloso
*Da: http://www.psychiatryonline.it/
Vedi anche: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=9071
http://www.piazzacarlogiuliani.it/index.php?option=com_content&view=article&id=58:dvd&catid=20:dvd&Itemid=678
Vedi anche: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=9071
http://www.piazzacarlogiuliani.it/index.php?option=com_content&view=article&id=58:dvd&catid=20:dvd&Itemid=678
Parte I. Genova non ha scordato. Perché è difficile dimenticare. F. Guccini, Piazza Alimonda, 2004 (https://www.youtube.com/watch?v=KbfIscqYKOE)
2001-2016. 15 anni dopo: another word was possible?
Sono passati 15 anni da quelle tumultuose giornate del luglio 2001 e una domanda mi pare che oggi s’imponga: un altro mondo è stato possibile? Credo di no, o se sì, è decisamente un mondo peggiore. Credo che questo dimostri come la domanda di un altro mondo, migliore, che la moltitudine scesa in piazza a Genova rivolgeva agli otto grandi fosse una domanda colma di urgenza e di significato. La scelta di non prenderla neppure in considerazione ha avuto le conseguenze devastanti che ci sono ogni giorno sotto gli occhi.
Sono passati 15 anni da quelle tumultuose giornate del luglio 2001 e una domanda mi pare che oggi s’imponga: un altro mondo è stato possibile? Credo di no, o se sì, è decisamente un mondo peggiore. Credo che questo dimostri come la domanda di un altro mondo, migliore, che la moltitudine scesa in piazza a Genova rivolgeva agli otto grandi fosse una domanda colma di urgenza e di significato. La scelta di non prenderla neppure in considerazione ha avuto le conseguenze devastanti che ci sono ogni giorno sotto gli occhi.
Nei giorni del G8 sono accadute a Genova cose che, ragionandoci a 15 anni di
distanza, paiono surreali, incredibili. Appare incredibile, ripercorrendo oggi
quelle strade dove “viaggia il traffico solito, scorrendo rapido e irregolare”
(Guccini), che esse - automobili, bancomat, vetrine - siano state per due
giornate abbandonate al saccheggio della (piccola) parte più adolescenziale,
superomista e irresponsabile del movimento, in un’ubriacante illusione di
anarchia. Mentre “un pensionato ed un vecchio cane” magari passeggiavano lì
accanto, senza timore. Ancora più surreale e angosciante si avverte la carica
di ferocia che dal seno delle forze dell’ordine di una Repubblica europea nata
dalla Resistenza ha potuto sprigionarsi per le strade, alla scuola Diaz-Pertini
e a Bolzaneto. La foga, la rabbia e la passione con le quali si vedono nei
video alcuni poliziotti, carabinieri, finanzieri accanirsi a picchiare persone
intrappolate, inermi, spesso già sanguinanti lasciano allibiti. Come pure il
fatto che l’accertamento dei fatti e delle responsabilità sia stato ostacolato
in modo così pervicace e arrogante e reso solo in minima parte possibile,
nonostante il nobile e ostinato impegno della Procura genovese, e ricordo il PM
Enrico Zucca in particolare.
Questa impudente impunità, che ha riguardato anche il personale medico al cui
coinvolgimento abbiamo già fatto riferimento, oltre a dimostrare un’incapacità
dello Stato a criticare se stesso (che in democrazia non è mai buona cosa),
costituisce una grave insidia in primo luogo proprio per chi apparentemente se
ne è avvantaggiato, e poi per la società nel suo complesso; la straordinaria
capacità di approfondire aspetti psicologici e ricadute sociali di questo
fenomeno, che Dostoëvskij dimostrava scrivendone nelle Memorie di una
casa di morti del 1862, dovrebbero essere di monito:
«Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro uomo come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l'immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di essere padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un'abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell'abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia. Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all'intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali. L'uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, alla rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l'esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce in modo contagioso anche su tutta la società: un simile potere è tentatore. La società che assiste con indifferenza a un simile fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto della punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, e uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo».
«Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro uomo come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l'immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di essere padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un'abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell'abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia. Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all'intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali. L'uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, alla rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l'esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce in modo contagioso anche su tutta la società: un simile potere è tentatore. La società che assiste con indifferenza a un simile fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto della punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, e uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo».
venerdì 22 luglio 2016
Critica della società e critica dell'economia. Domande e appunti su una assenza negli scritti sul "sessantotto", vent'anni dopo* - Riccardo Bellofiore
*scritto nel marzo 1989, e pubblicato nel 1990 in Il
Sessantotto: l’evento, la storia (Annali della Fondazione Luigi
Micheletti, vol. 4, a cura di Pier Paolo Poggio, Brescia, pp. 155-169) https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts
"Il problema
degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da
soli è l'avarizia". (da Lettera a una professoressa)
Un non protagonista
Del "sessantotto" sono stato uno spettatore, e
pure ha segnato in qualche misura quello che sono diventato. Ne sono stato uno
spettatore, innanzitutto, per ragioni di spazio e di tempo. Tra la fine del
sessantasette e l'estate del sessantotto - l'arco di tempo in cui il
"sessantotto" più vero si sviluppa a Torino come a Trento, a Pisa
come a Roma - ero difatti molto giovane, e vivevo altrove: del
"sessantotto" mi giungeva un' eco un po' vaga, e ricordo che mi dava
un certo fastidio, come di una moda tra le tante dei ruggenti anni sessanta.
Ero piccolo, ma tremendamente moralista già allora.
domenica 17 luglio 2016
Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: tre epoche di una dominazione* - Saïd Bouamama
*Da: Le blog de Saïd Bouamama https://traduzionimarxiste.wordpress.com/
Iraq, Libia, Sudan, Somalia ecc. , la lista di nazioni
ridotte in pezzi a seguito di una guerra e di un intervento militare
statunitense e/o europeo continua a allungarsi. Al colonialismo diretto di una
«prima fase» del capitalismo e al neocolonialismo di una «seconda fase»
sembrerebbe succedere la «terza fase», quella della balcanizzazione.
Contemporaneamente, si può constatare una mutazione nelle forme del razzismo. A
quello biologico ha fatto seguito, dopo la Seconda guerra mondiale, un razzismo
culturalista, quest’ultimo da alcuni decenni tende a declinarsi, a partire dal
fattore religioso, sotto la forma dominante, al momento, dell’islamofobia. Ci
troviamo, a nostro modo di vedere, in presenza di tre storicità strettamente
articolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della
dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.
Ancora su Cristoforo Colombo
La visione eurocentrica dominante spiega l’emergere e il
diffondersi del capitalismo a partire da fattori interni alle società europee.
Ne deriva la nota tesi che vorrebbe alcune società (alcune culture, religioni
ecc.) dotate di una storicità, laddove altre ne sarebbero prive. Quando Nikolas
Sarkozy afferma nel 2007 «il dramma dell’Africa è che l’uomo africano non è
realmente entrato nella storia» (1), non fa che riprendere un ritornello delle
ideologie di giustificazione dello schiavismo e della colonizzazione:
«La «destoricizzazione» gioca un ruolo decisivo nelle
strategie di colonizzazione. Essa legittima la presenza dei colonizzatori e
certifica l’inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali,
poi le «scienze coloniali» hanno imposto un postulato sul quale si è costruita
la storiografia coloniale: l’Europa è «storica» mentre «l’astoricità»
caratterizza le società colonizzate definite come tradizionali e immobili. […]
L’Europa, guidata dai suoi valori intellettuali e spirituali compie, attraverso
l’espansione coloniale, una missione storica, portando nella Storia popoli che
ne erano stati privati o rimasti fissi a uno staio di evoluzione della storia
superato dagli europei (stato di natura, medioevo, ecc.).» (2)
Carla Maria Fabiani: Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel* - Georgia Zeami
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/09/sintesi-della-dialettica.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html

Il saggio si apre con un attento esame del termine plebe nell’alveo delle riflessioni hegeliane. Determinato come status sì economico, ma anche sociale e politico – contrariamente alla povertà che invece indica una condizione strettamente finanziaria –, la plebe sorge con il sorgere della modernità: per un verso essa è il frutto compiuto del liberismo economico, ovvero dell’imporsi dell’idea del lavoro come autosussistenza, per l’altro è la deriva incontrollata del liberalismo politico, e cioè il luogo sociale in cui domina un certo sentimento dell’ingiustizia subita (p. 16). Dalle analisi politiche emerge, tuttavia, un’ulteriore accezione che inerisce tanto alla sfera etica quanto, o forse proprio perciò, a quella teoretica. Hegel, ci dice Fabiani, usa il termine sia nell’accezione di volgo o senso comune, sia in quella di intelletto negativo astratto (p. 17). Così intesa, la categoria di plebe richiama immediatamente – pur sottraendosi, come vedremo, ad essa – la dialettica del riconoscimento. Il filosofo di Jena sembra insomma, fin da subito, connotare la plebe come un che di destabilizzante. Comprendendone la perniciosa natura rispetto alla stabilità dello Stato – inteso sia come organismo politico-giuridico sia come espressione dello Spirito –, ne ignora quasi l’esistenza, come giustamente sottolinea Marx, nella logica sistematica. Allo stesso tempo, però, dissemina i suoi scritti di riferimenti strategici che, se correttamente intesi, possono svelare l’intrinseco paradosso che mina la logica ferrea del riconoscimento. È necessario perciò, avverte l’autrice, non solo tornare a rilevare analiticamente un legame, non proprio esplicitato da Hegel (cfr. p. 19), ma addirittura accentuare l’intreccio tra plebe e riconoscimento.
sabato 16 luglio 2016
L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”* - Nadia Garbellini**

La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.
In due studi realizzati con Emiliano Brancaccio e pubblicati
sulla Rivista di Politica Economica e sullo European Journal of Economics and
Economic Policies, abbiamo cercato di affrontare il tema dei possibili effetti
di un’uscita dall’euro alla luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su
una statistica descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28
episodi di uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre
ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre
variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale
spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di recente,
da una applicazione di quella metodologia è scaturito il contributo di Realfonzo
e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi ad altre variabili
macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la crescita del Pil e
l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione è la seguente: “ […] a
meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle
politiche europee, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da
alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare
l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle
manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle
inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture
materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre
dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione
e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del vecchio sistema di
cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta
tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno
dato avvio a un interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche
a Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due autori,
che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi riferimenti
analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse di assecondare una
retorica di tipo “oracolistico”. A valle della discussione può dunque essere
utile tornare sul terreno della ricerca, approfondendo ulteriormente alcuni
aspetti salienti dei due studi la cui metodologia ha ispirato il recente
contributo di Realfonzo e Viscione.
L’opinione pubblica mercificata* - Giovanna Cracco
*Da: http://www.rivistapaginauno.it/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/lavoro-digitale-e-imperialismo.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/lavoro-digitale-e-imperialismo.html

La debolezza delle lotte, intesa come incapacità di incidere
sull’esistente, modificandolo, è evidente. Sconta sicuramente la
frammentazione, l’incapacità di comprendere che la lotta è una, sebbene
articolata su più campi, perché dietro le singole tematiche vi è un ‘nemico’
comune, ossia il sistema capitalistico: privatizzazioni e riduzione del welfare
rispondono alla necessità del Capitale di espandersi in nuovi ambiti, il
maggior sfruttamento, ossia bassi salari e lavoro precario a uso e consumo
delle oscillazioni della domanda del mercato, risponde al bisogno di recuperare
maggiori margini di profitto, ed entrambe le operazioni servono al capitalismo
per salvarsi dall’attuale crisi – fino alla prossima, ovviamente.
Ma l’area antagonista sconta anche l’esclusione dal
dibattito pubblico, che si muove sui canali mainstream, televisione su tutti e
poi grandi giornali, e quando riesce a esservi presente fa i conti con la
difficoltà di spostare l’opinione pubblica dalla propria parte.
Non è una questione che possa essere elusa, perché i mezzi a
disposizione per cambiare l’esistente sono ben pochi; non è più il tempo di
rivoluzioni, e non si vede all’orizzonte un partito che possa dare
rappresentanza concreta al pensiero critico, ancor meno a quello radicale. Non
resta quindi che la pubblica opinione, in teoria un potere ‘dal basso’ in grado
di imporre cambiamenti alla politica. O almeno questo era quando è nata.
venerdì 15 luglio 2016
Il paradosso del riformismo (1993)*- Robert Brenner**
*Da: https://solidarity-us.org/pdfs/cadreschool/rbrenner.pdf https://traduzionimarxiste.wordpress.com
**Robert Brenner è professore di storia e direttore del
Center for Social Theory and Comparative History dell’UCLA

Mi è stato chiesto di parlare delle lezioni storiche da
trarre dalle rivoluzioni del XX secolo. Ma poiché il nostro principale
interesse si rivolge a insegnamenti che possano essere rilevanti per il XI
secolo, ho ritenuto più opportuno soffermarmi sulle esperienze delle riforme e
del riformismo. “Il riformismo”, infatti, è ben presente tra di noi, sebbene
raramente compaia sotto quest’etichetta, preferendo mostrarsi sotto una luce
più favorevole. Resta il fatto che si tratta del nostro principale concorrente
politico, è quindi necessario comprenderlo meglio. Per iniziare, è chiaro che
il tratto distintivo del riformismo non consiste nel suo obbiettivo di attuare
delle riforme. Rivoluzionari e riformisti mirano entrambi a delle riforme. In
effetti, la lotta per ottenere delle riforme rimane la principale
preoccupazione dei primi. I riformisti condividono, in buona parte, il nostro
programma, o perlomeno è ciò che affermano. Anch’essi sono a favore di salari
più alti, per la piena occupazione, uno stato sociale migliore, sindacati più
forti e una qualche forma di partito operaio.
Ora, se puntiamo a guadagnare i riformisti alla nostra
politica non vi perverremo giocando al rialzo rispetto alle proposte del loro
programma. Noi non possiamo portare dalla nostra parte i riformisti che tramite
la nostra teoria (la nostra comprensione del mondo) e, ancora più importante,
il nostro metodo e la nostra pratica. Ciò che distingue il riformismo,
nell’azione quotidiana, è il suo metodo politico e la sua teoria, non il
programma. Schematicamente, i riformisti ritengono che anche se l’economia
capitalista porta in sé la tendenza verso la crisi, l’intervento dello stato
può aiutare il capitalismo a raggiungere la stabilità e la crescita a lungo
termine. D’altra parte, lo stato rappresenta per loro uno strumento che può
essere utilizzato da qualsiasi gruppo, compresa la classe operaia, per servire
i propri interessi.
Il metodo politico e la strategia del riformismo sono
conseguenza diretta di tali premesse. I lavoratori, le lavoratrici, gli
oppressi, possono, e dovrebbero, impegnarsi nella battaglia elettorale, al fine
di conquistare il controllo dello stato e assicurasi una legislazione che
regoli il capitalismo, e su questa base migliorare le proprie condizioni di
lavoro e, più in generale, il loro livello di vita.
La base materiale del riformismo
giovedì 14 luglio 2016
Introduzione a Hans Heinz Holz: Marx, la storia, la dialettica* - Stefano Garroni
*Da: Marx, la storia, la dialettica, Ed.
Laboratorio politico 1996
E’ possibile ascoltare le registrazioni audio degli incontri
in collaborazione con Stefano Garroni andando su questo canale di Youtube: http://www.youtube.com/user/mirkobe79
https://www.youtube.com/watch?v=1mPJkeqriSc&list=PL80AE147F16251D4B (i primi 4 minuti si sentono male)

Voglio dire che, probabilmente, si dovrebbe risalire molto indietro nel tempo, per trovare un’altra epoca in cui, come nella nostra, sia tanto marcata la distanza fra livello teorico – cioè, della riflessione scientifica e di quella filosofica, più strettamente a contatto con gli sviluppi delle scienze e le loro conseguenze anche morali – ed i livelli CULTURALE E IDEOLOGICO – dunque, i piani, che mediano, variamente, consapevolezza teorica e credenze funzionali all’assetto sociale dato. Le conseguenze di tale marcato distacco sono – com’è facile capire e constatare – devastanti: il passaggio, oggi, dalla lettura di un libro importante a quella di un giornale o, più limitatamente, della sua “terza pagina”, autenticamente significa non solo né tanto trascorrere da un livello ad un altro, quanto piuttosto passare da un mondo – raffinato, complesso, difficile, ma probabilmente e parzialmente vero –, ad un universo onirico, la cui difficoltà è data da un fitto intreccio di semplificazioni aberranti ed ipocrisia stupefacente.
Ad aggravar le cose, si aggiunge la novità, per cui – oggi –
è proprio la “sinistra”, che si fa portatrice – addirittura paladina – sia di
quel distacco, che di quell’intreccio di ipocrisia e semplificazioni deliranti.
Insomma, la nostra è l’epoca in cui – poniamo – ci si batte per la “memoria storica” (così detta); il che ovviamente significa che in primo luogo la “sinistra” – la grande laudatrice delle “radici storiche” – mentre lamenta e denuncia con feroce cipiglio la “smemoratezza” attuale, contemporaneamente accetta la mistificazione di fondo – che consiste esattamente nel ricacciare, nel confinare, storia e radici nel PASSATO, appunto, in ciò che sta dietro le nostre spalle e che, dunque, ATTUALMENTE non ci occupa più. Ma è proprio questo che serve fondamentalmente all’attuale capitalismo neo-malthusiano: cancellare dall’orizzonte mentale delle masse cose – storiche, passate, da album di famiglia, per dirla con il linguaggio della sinistra – come contraddizione di classe, intreccio fra lotta per la democrazia partecipativa e lotta contro il capitalismo, rapporto fra imperialismo e guerra, ecc., ecc.
Insomma, la nostra è l’epoca in cui – poniamo – ci si batte per la “memoria storica” (così detta); il che ovviamente significa che in primo luogo la “sinistra” – la grande laudatrice delle “radici storiche” – mentre lamenta e denuncia con feroce cipiglio la “smemoratezza” attuale, contemporaneamente accetta la mistificazione di fondo – che consiste esattamente nel ricacciare, nel confinare, storia e radici nel PASSATO, appunto, in ciò che sta dietro le nostre spalle e che, dunque, ATTUALMENTE non ci occupa più. Ma è proprio questo che serve fondamentalmente all’attuale capitalismo neo-malthusiano: cancellare dall’orizzonte mentale delle masse cose – storiche, passate, da album di famiglia, per dirla con il linguaggio della sinistra – come contraddizione di classe, intreccio fra lotta per la democrazia partecipativa e lotta contro il capitalismo, rapporto fra imperialismo e guerra, ecc., ecc.
mercoledì 13 luglio 2016
LOTTA TEORICA È PRASSI* - Francesco Schettino
*Da: http://www.lacittafutura.it/
“Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può
adempiere la funzione di combattente di avanguardia”
(V.I. Lenin, Che fare?
1902) : brevi riflessioni sul ruolo della teoria rivoluzionaria.
Lotta teorica e socialismo scientifico
Nella storia del pensiero marxista – o più
in generale all’interno dei movimenti o partiti ispiratisi almeno vagamente
all’idea del comunismo (o del socialismo) nell’ultimo secolo –
il rapporto tra teoria e prassi rivoluzionaria
ha senza dubbio ottenuto un posto di primaria importanza nel dibattito che
negli anni si è svolto, per quanto spesso con esiti abbastanza avvilenti. In
questo breve articolo non si vuole proporre una rassegna di quelli che sono
stati gli ultimi, tra l’altro spesso poco incisivi, sviluppi della questione:
al contrario, prendendo a riferimento l’esempio cubano, oltre che quello
dei paesi a capitalismo avanzato, si tenterà di proporre un
contributo che possa consentire una riflessione su questioni che, oramai, sono
solo di rado tenute in adeguata considerazione.
Punto di partenza per affrontare una discussione di questo
genere, evitando di scivolare su posizioni che in fin dei conti hanno
dimostrato tutta la loro velleità e sterilità, è la considerazione, fin troppo
distorta o aggirata, di Lenin che, nel Che fare? giustamente
sosteneva che “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento
rivoluzionario”. Questa, che tutto è fuorché una “semplice” locuzione
affabulatrice, è esattamente il frutto della riflessione filosofica del
rivoluzionario russo che coerentemente con Marx e Engels,
e pertanto con la dialettica hegeliana, attualizzata dallo stesso
Moro di Treviri, individuava l’identità dialettica tra teoria e prassi, ossia
tra pensiero astratto e sua concretizzazione materiale.
martedì 12 luglio 2016
domenica 10 luglio 2016
LE RADICI STORICO-ANTROPOLOGICHE DELLA NOZIONE DI FETICISMO*- Alessandra Ciattini

In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di
rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno
ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno.
Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da Hegel, Marx, Comte, Freud per
citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi
differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza
- per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due
punti: 1) cosa suscita l'interesse per leforme religiose extra-occidentali ?
2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni
elementi costitutivi della propria società e cultura?
L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza
storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali
extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al
concetto di tabù - reso noto da James Cooknei suoi
diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un
parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”.
Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato,
altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale,
la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non
fosse stato scoperto. Nell'analisi freudiana tale processo, contrassegnato
dalla contraddizione tra l'impulso a realizzare un desiderio
proibito e il terrore di cedere ad esso, conduce
all'insorgere del senso di colpa e alla creazione di pratiche
ossessive che soddisfano in qualche maniera la pulsione proibita. Ma torniamo
al feticismo e a colui che ha elaborato questo termine, ossia Charles
de Brosses (1709- 1777).
Questi era presidente del Parlamento di Borgogna, un
illuminista di provincia che coltivava numerosi interessi che vanno dallo
studio delle nuove forme di vita sociale e culturale scoperte fino a quel
momento, dalla storia comparativa delle religioni al problema dell'origine del
linguaggio. È anche noto per le brillanti lettere che scrisse durante un
viaggio in Italia, esperienza fondamentale degli intellettuali europei
interessati alla scoperta degli antichi monumenti e al godimento delle opere
d'arte presenti nel nostro paese (Viaggio in Italia, Bari 1992).
Benché in un opera precedente egli già menzioni il termine
feticismo, a questa nozione dedica una ricerca specifica intitolata Sul
culto degli dei feticci o parallelo dell'antica religione egiziana con la
religione attuale della Nigrizia, parola con la quale si intende l'Africa
subsahariana. Questo libro, il cui scopo principale è polemizzare con le
credenze e le pratiche religiose del tempo, viene pubblicato anonimo a Ginevra
nel 1760, perché de Brosses non voleva rischiare la Bastiglia, e
successivamente viene ripubblicato durante la Rivoluzione Francese.
Non esisteva di esso una versione italiana, fino a quando nel 2000 è uscita
l'edizione curata daStefano Garroni e da me con l'aggiunta di
un'introduzione e di un apparato di note (Bulzoni, Roma 2000), il cui scopo è
quello di identificare tutti gli autori (antichi e moderni) che de Brosses cita
e che hanno dato un significativo contributo alla millenaria riflessione sulla religione.
sabato 9 luglio 2016
La crisi nell'analisi di Marx - R.Bellofiore, L.Casarini, D.del Bello
venerdì 8 luglio 2016
Pace: una storia lunga e tormentata, tra idee e realtà*- Emiliano Alessandroni intervista Domenico Losurdo
*In un’intervista esclusiva per il nostro sito (http://www.marx21.it/), Domenico Losurdo,
Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo
libro, “Un mondo senza guerre”.
Iniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D.
Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle
tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel
lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a
cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza
(cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010).
Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?
Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.
Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.
Nel tuo libro presenti, in relazione al tema della pace, un quadro della storia più complesso e intrecciato di quello che, di consuetudine, tende ad offrire il manicheismo della logica binaria: il cammino dell'umanità più che da scontri tra ideali di pace e ideali di guerra, appare scandito, soprattutto dopo l'avvento dell'età moderna, da conflitti tra diversi ideali di pace. Potresti illustrarci concretamente questo tipo di dialettica?
Alcuni decenni prima della rivoluzione francese a parlare di «pace perpetua» era l’abate di Saint-Pierre, che però intendeva far valere tale ideale solo per le potenze civili e cristiane dell’Europa. Esse erano chiamate a rappacificarsi e ad allearsi in modo da fronteggiare meglio i «turchi», i «corsari d'Africa» e i «tartari»; combattendo contro i barbari, esse potevano persino trovare «le occasioni per coltivare il genio e i talenti militari». Facciamo un salto di quasi due secoli. Nel 1907 il Premio Nobel per la pace era assegnato a Ernesto Teodoro Moneta (l’unico italiano insignito di tale riconoscimento), che quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», Moneta aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», che legittimamente scaricavano «le loro energie esuberanti nel continente africano», e ciò «nell’interesse stesso della pace europea» (e occidentale). Ecco la prima distinzione che s’impone: si tratta di vedere se l’ideale della pace perpetua sia declinato in modo universalistico. In caso contrario esso può divenire una micidiale ideologia della guerra: negli USA della seconda metà dell’Ottocento, i campioni del Manifest Destiny e dell’espansionismo coloniale nel Far West si sentivano legittimati a decimare o annientare i nativi, considerati razze inguaribilmente bellicose che ostacolavano l’avvento della pace perpetua. Non si tratta di un capitolo di storia remota e senza alcun rapporto con il presente: ancora ai giorni nostri le infami guerre coloniali o neocoloniali che in Medio Oriente hanno distrutto interi paesi, provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono state presentate come operazioni di «peace-keeping» ovvero di «polizia internazionale»! Ma per avere un’idea di cosa si tratta, vediamo in che modo un filosofo di fama internazionale (Todorov) ha descritto il regime change imposto in Libia nel 2011: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverate al regime che i macellai della NATO erano decisi a rovesciare. Una brillante operazione di «mantenimento della pace»!
giovedì 7 luglio 2016
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