
I rivoluzionari, specie comunisti, vengono oggi comunemente
rappresentati come gente di ferro, senza anima, oppure come fanatici: comunque
spietati e disumani, combattenti per principi astratti e lontani dalla concreta
reale vita degli individui – i soli apparentemente privilegiati dalle ideologie
correnti. Qualora si tratti di donne, ovviamente le si rappresenta prive di
quanto genericamente (e spesso impropriamente) vien definito femminilità.
Leggo
sul numero dello scorso 14 ottobre della Far Eastern Economic Review una
recensione, di Jason Overdorf, del romanzo autobiografico War Trash di Ha Jin,
dove si dice «[Yu, il protagonista] più osserva le decisioni dei dirigenti del
partito nel campo – per esempio, lotte simboliche per sventolare la bandiera
cinese – più arriva a credere che la loro fede non lascia spazio all’umanità.
‘Ero ambivalente sul tentativo di recuperare la bandiera’. Yu riflette: ‘Da un
lato, ammiravo il coraggio mostrato dai nostri uomini, e per un verso ero
colpito da reverente timore per la loro passione e per l’audacia che – dovevo
ammetterlo – io non possedevo. Dall’altro lato, mi chiedevo se valesse la pena
di perdere la vita di un uomo per una bandiera che, per quanto simbolica, era
solo un pezzo di stoffa.’ Rendendo esplicito il sorprendente parallelo fra
fervente comunismo e fanatismo religioso, Yu conclude: ‘Avevo notato una sorta
di fanatismo religioso in alcuni di quegli uomini, capaci di rinunciare alla
loro vita per un’idea’».
La mozione che nella difesa dell’individuo anche al
livello minimo implica una rivendicazione di umanità contro la mistificazione
delle grandi idee, religiose o laiche, ha una valenza positiva e anzi
rivoluzionaria ogni qual volta quanti sono in possesso degli strumenti di
dominio, valendosi strumentalmente e falsamente delle grandi idee, mirano ad
assoggettare gli individui per altri fini. Un grande significato positivo ha
avuto una simile mozione al tempo della prima guerra mondiale, quando le
bandiere dei vari patriottismi venivano sventolate a coprire la carneficina
promossa da quelli che Lenin chiamò “i briganti coronati” e gli sporchi
interessi di cui erano rappresentanti. Ma allora contro il patriottismo –
valido in tempi precedenti e ormai esaurito, la cui bandiera era divenuta
effettivamente solo un pezzo di stoffa – la difesa degli individui si
accompagnava all’affermazione di valori altri e più alti, assunti da
moltitudini associate nella lotta; portatrici di nuove bandiere: di nuove idee,
corrispondenti alle esigenze reali del tempo, e tali da motivare, nuovamente,
anche il sacrificio dei singoli individui che in esse si riconoscevano: non una
menzogna al fine della propria dipendenza ma uno strumento per la propria
affermazione.