La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
domenica 18 ottobre 2015
Psicologia delle Folle (1895, terza parte, conclusione) - Gustav Le Bon
PARTE TERZA
CAPITOLO I
Classificazione delle folle.
1.° Le folle eterogenee - Come si differenziano - Influenza della razza --- L'anima delle folle 'é
tanto più debole quanto é più forte l'anima della razza - L'anima della razza rappresenta lo
stato di civiltà e, l'anima della folla lo stato di barbarie - 2.° Le folle omogenee - Divisione
delle folle omogenee - Le sette, le caste, le classi.
Abbiamo veduto quali sono i caratteri generali comuni alle folle. Ci resta da studiare i
caratteri particolari sovrapposti a questi caratteri generali, secondo le diverse categorie delle
collettività. Anzitutto facciamo una breve classificazione delle folle.
Il nostro punto di partenza sarà la semplice moltitudine. Essa raggiunge la sua forma più
bassa quando è composta da individui appartenenti a razze diverse. Il suo unico legame è la
volontà, più o meno forte, del capo. Come esempio di tali moltitudini, si possono dare i
barbari di origini diverse, che per parecchi secoli invasero l'impero romano.
Al di sopra di queste moltitudini senza coesione, stanno quelle che, sotto l'azione di certi
fattori hanno acquistato caratteri comuni e hanno finito col formare una razza. Esse
presentano le caratteristiche speciali delle folle, ma sempre insieme a quelle della razza. Le
diverse categorie delle folle che si possono osservare in ogni popolo possono dividersi così
A. - FOLLE ETEROGENEE
1° Anonime (Folle delle vie, per esempio).
2° Non anonime (Giurie, assemblee parlamentari, ecc.).
B.- FOLLE OMOGENEE
1° Sette (Sette politiche, sette religiose, ecc.). B. –
2° Caste (Casta militare, casta sacerdotale, casta operaia, ecc.).
3° Classi (Classe borghese, classe contadina, classe operaia, ecc.).
Ora indicheremo con poche parole i caratteri che differenziano le diverse categorie delle folle.
FREUD TRA SCIENZA ED ETICA* - Stefano Garroni
*Da QUADERNO
FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS
"Ogni virtù, secondo Aristotele, è posta tra due vizi, uno dei quali è la mancanza, e l'altro l'eccesso; essa non è, in un certo modo, se non una delle nostre inclinazioni naturali, alla quale la nostra ragione ci proibisce e di resistere troppo e di obbedire troppo" (Condorcet)
L'Io punta a conquistarsi il dominio sulle spinte pulsionali, avocando a sé la decisione di soddisfarle, subito o nel tempo, orientandosi in base alla valutazione delle circostanze obiettive ma, anche, ispirandosi alla regola di evitar dolore e ricercar piacere - laddove, più è alto il livello di spinta pulsionale, meno è piacevole la sensazione.
L'Io, come sappiamo, è sottoposto a sollecitazioni, che sono contrastanti - quando non addirittura contraddittorie - in diversi sensi: perché le spinte pulsionali, che vengono dall'Es né si curano di definirsi, né di rendersi reciprocamente compatibili; perché, parzialmente, costituiscono gli imperativi e i divieti del Super-io ed, infine, perché vi sono sollecitazioni, che provengono da tutt'altro "luogo", dalla realtà esterna. L'Io è chiamato ad orientarsi in questo insieme intricato, a manipolarlo per poterlo controllare ed, infine, a (realisticamente) conciliarlo (versohnen, appunto). Se vi riesce, la sua azione è corretta.
L'ottica di Freud può comprendere concetti quale "equilibrio", "misura", "conciliazione" ed il loro opposto (l'Es, la spinta pulsionale, ecc.), perché è costruita sulla giustapposizione, sullo scontro fra ordine e disordine, organizzazione e mancanza d'organizzazione. E ciò nel senso che lo spazio ritagliatosi dalla psicoanalisi è quello di una problematica centralissima per l'etica (almeno per una certa tradizione etica), che viene ri-presentata, ma su un altro terreno: quello delle istanze psichiche e dei loro drammatici rapporti.
venerdì 16 ottobre 2015
Orario e condizioni di lavoro: due facce della stessa medaglia - Riccardo Bellofiore
Da: Liberazione,
2 aprile 1997
- Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Riccardo
Bellofiore è professore
ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di
Bergamo.
Recentemente, su queste colonne ha avuto luogo una
discussione tra Giovanni Mazzetti e Ernesto Screpanti in merito alla
possibilità, alle forme e alle prospettive di una riduzione dell'orario di
lavoro a parità di salario. La questione andrebbe affrontata,certamente,
attraverso il vaglio di una indagine disincantata della natura attuale del
processo di accumulazione capitalistico; come anche attraverso una valutazione
realistica dei limiti della politica economica nell'intervenire dall'alto sui
termini del conflitto di classe. Spero di poterlo fare in futuro,se me ne sarà
data l'opportunità. Adesso, preferisco invece prenderla per così dire più alla
lontana, trattando l'argomento della riduzione dell'orario di lavoro sul
terreno apparentemente più generico, ma forse ricco di qualche insegnamento,
delle fondazioni concettuali, con l'aiuto di due testi che mi è capitato di
(ri)leggere in questi giorni, uno di Guido Calogero, l'altro di Claudio
Napoleoni: grandi maestri, l'uno filosofo l'altro economista, che ci propongono
due modi di affrontare il tema non poco diversi, e però entrambi attuali.
Lo scritto di
Calogero è il testo di una conferenza tenuta nel 1955 intitolata"Lavoro e giuoco nella civiltà di domani"
(la si può leggere in Scuola sotto inchiesta, Einaudi).Calogero definisce
lavoro "ogni attività che svolgo per
ritrarne una remunerazione, e che cesserei di svolgere se tale remunerazione
non mi fosse più corrisposta ... l'attività produttiva di beni economici, i
quali quando vengono scambiati diventano merci". Il lavoro salariato,
insomma, come paradigma del lavoro in generale. Giuoco è invece "ogni altra attività,non determinata
dall'intento di un vantaggio economico perché o la svolgo senza ritrarne alcun
guadagno, o la svolgerei egualmente anche se guadagno non ne ritraessi":
una definizione che ha una qualche parentela, per esempio, coni 'lavori
concreti' di cui parla Giorgio Lunghini, o l' 'economia sociale' (il'terzo
settore') di cui parla Marco Revelli.
giovedì 15 ottobre 2015
LA CADUTA TENDENZIALE DEL TASSO MEDIO DEL PROFITTO (e sue controtendenze)* - Guglielmo Carchedi
*Recenti dibattiti teorici su Marx nel mondo anglosassone:
una introduzione, Karl Marx 2013 (Il
Ponte) a cura di Roberto Fineschi, Tommaso Redolfi Riva e Giovanni Sgrò.

Se il lavoro astratto è comune a tutte le società, è solo nel capitalismo che esso acquisisce una rilevanza sociale perché esso crea il valore contenuto nelle merci prodotte sotto relazioni di produzione capitaliste e quindi serve per misurarne il valore come suo tempo di erogazione. Esso è quindi sia materiale che sociale. Il “valore delle merci è una realtà puramente sociale” perché è una realtà solo nel capitalismo ma “le merci acquisiscono tale realtà solo nella misura in cui esse sono l’espressione, perché incorporano, una identica sostanza sociale, cioè il lavoro umano” (Marx, 1967a, p.47, enfasi mia, G.C.). Questa identica sostanza sociale è una sostanza materiale che diventa socialmente rilevante solo nel capitalismo.
Per Marx, i lavoratori sono i protagonisti perché il loro lavoro, sotto coercizione, produce sia i valori d’uso delle merci che il valore in essi contenuto.
Sia c il capitale
investito in mezzi di produzione in senso lato e v il capitale investito in forza lavoro. Marx chiama il primo
capitale costante e il secondo capitale varabile. Avendo investito c e v,
il capitalista fa produrre dai suoi lavoratori una merce che incorpora un plusvalore
(un valore al di sopra di c e v) uguale a s. Il valore contenuto (V) è quindi V=c+v+s. Se la merce si vende a un prezzo, (P) uguale a V, cioè se
essa realizza il valore incorporato in essa, il suo prezzo è uguale al suo
valore (P=V). Questo è il caso più semplice di trasformazione di valori in
prezzi. Tuttavia, la diatriba riguarda il caso (che è la regola) in cui il
valore realizzato (prezzo) non è uguale al valore incorporato. L’assunto
fondamentale è che solo il lavoro produce valore e quindi plusvalore. In tal
caso, ceteris paribus i vari capitali producono plusvalore in quantità
differenti e cioè secondo il capitale variabile investito. Se ragioniamo in
termini percentuali, più alta è la percentuale di capitale constante, più bassa
è quella del capitale variabile, minore è il lavoro impiegato e quindi minore è
il (plus)valore generato. Marx chiama il rapporto c/v la composizione organica del capitale. In breve, tanto più alta
è la composizione organica, tanto più basso è il plusvalore generato che a
questo livello di astrazione possiamo ipotizzare sia uguale al profitto. Il
tasso di profitto generato da ciascun capitale è s/(c+v). Percentualmente, tanto maggiore è la composizione
organica, tanto minore è il plusvalore generato e tanto minore è il tasso di
profitto.
La competizione tecnologica riduce percentualmente la forza
lavoro e aumenta la proporzione dei mezzi di produzione. Dato che solo il
lavoro genera valore, il TMP (Tasso medio del Profitto) cade. Tuttavia, gli
innovatori, producono più output (valori d’uso, nella terminologia di Marx).
Essi, potendo vendere un numero maggiore di prodotti allo stesso prezzo dei
concorrenti ad altri settori, si appropriano attraverso il sistema dei prezzi
del plusvalore di chi non ha innovato. Aggiungiamo ora che questa è la
tendenza. Essa, si manifesta nonostante le controtendenze che ne ritardano il
manifestarsi ma che non possono ritardala indefinitivamente.
Se i mezzi di produzione aumentano relativamente alla forza
lavoro mentre il TMP (e quindi il plusvalore relativamente al capitale
investito) cade, i primi non possono produrre plusvalore. Ma allora non possono
produrre neanche valore. Dato che ci sono solo due fattori di produzione, i
mezzi di produzione e il lavoro, è il lavoro e solo il lavoro che produce
valore e plusvalore. La legge del valore è empiricamente supportata.
Consideriamo ora l’aumento del tasso di sfruttamento. Tra il
1987 e il 2009, nonostante la crescita della composizione organica, il TMP
aumenta a causa dell’aumentato tasso di sfruttamento, cioè che la
controtendenza sopraffa la tendenza.
Per stabilire se l’aumento del tasso di sfruttamento sia
veramente una controtendenza che frena l’aumento della composizione organica e
quindi la caduta del TMP, ho calcolato quale sarebbe stato il TMP nell’assenza
di un incremento del tasso di sfruttamento. Più precisamente, ho calcolato il
tasso medio di sfruttamento. Questa procedura mostra quale sarebbe stato il TMP
nel periodo 1987-2009 se il tasso di sfruttamento non fosse aumentato al di
sopra della media di tutto il periodo precedente e quindi isola il corso del
TMP dall’aumento dello sfruttamento nel periodo 1987-2009. Il grafico 4
evidenzia che il TMP sarebbe caduto drammaticamente. Quindi, il TMP è cresciuto
perché il tasso di sfruttamento è cresciuto di più di quanto non sia cresciuta
la composizione organica, perché la controtendenza ha sopraffatto la tendenza.
Nel 2006 il TMP era del 14% ma sarebbe stato del 8% senza l’aumento del tasso
di sfruttamento.
La causa dell’aumento del TMP dal 1987 è stato un salto
senza precedenti nel tasso di sfruttamento. Ciò indica la grandezza della
sconfitta della classe lavoratrice nell’era neo-liberale. La triste peculiarità
è che la classe lavoratrice non è stata ancora in grado di risollevarsi ed
esigere una fetta maggiore del nuovo valore prodotto da essa stessa. L’attacco
continua.
mercoledì 14 ottobre 2015
LA SCRITTURA - Carlo Sini
Da: Società.filosofica.italiana.Bergamo - Carlo
Sini è
un filosofo italiano.- CarloSiniNoema
Sul tema della scrittura.
Sulla centralità dell'alfabeto greco come forma logica del pensiero occidentale e sui suoi pericoli.
Sul tema della scrittura.
Sulla centralità dell'alfabeto greco come forma logica del pensiero occidentale e sui suoi pericoli.
lunedì 12 ottobre 2015
La rivoluzione delle donne
Non c’è liberazione della donna se non in una società socialista: questo è il senso che diamo alla lotta delle donne. Comuniste dunque, anche in quanto donne, per realizzare quella liberazione che dentro la società della divisione del lavoro e della divisione in classi non può realizzarsi. E questa è la ragione per cui le donne comuniste non si pongono solamente come antagoniste all’esistente: lottano contro, certo, contro lo sfruttamento, contro il patriarcato, contro la violenza, contro la collocazione in ben precisi ruoli sociali e culturali…, ma lottano anche per “abolire lo stato di cose presenti” e per costruire un mondo nuovo, di liberi ed uguali: un mondo socialista. La condizione delle donne è - al pari di quella degli uomini - il prodotto di relazioni sociali che si sono affermate storicamente e che si modificano con il modificarsi delle diverse forme economiche e politiche.
Dunque, anche il ruolo della donna (se così vogliamo
definirlo, perché è evidente che questo ruolo non è lo stesso per le donne
lavoratrici e per le donne della classe dominante) è un prodotto
storico-sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo
attraverso la trasformazione della società che determina questi ruoli. Questo
vuol dire che quando si tenta di analizzare la posizione della donna nella
società in cui viviamo non si può fare a meno di partire dall’analisi della
natura di questa società dunque, nel nostro caso, una società capitalista che
si fonda essenzialmente sulla divisione in classi e sullo sfruttamento del
lavoro di una classe da parte di un’altra classe. In altri termini, non
possiamo non tenere conto che esiste una classe - fatta di uomini e di donne -
che viene sfruttata e che ne esiste un’altra - anch’essa composta da uomini e
da donne - che sfrutta, domina e accumula profitto sulle spalle dell’altra.
Questo è per noi l’elemento centrale da cui partire, perché siamo convinti che
la contraddizione tra i sessi si collochi all’interno di un’altra
contraddizione fondamentale che è quella tra lavoratori salariati e
capitalisti.
Dopo la Rivoluzione di Ottobre – avvenuta nel 1917 – le
donne russe ottennero conquiste che le donne del resto del mondo avrebbero
ottenuto solo molti anni dopo: per esempio, la prima donna ministra al mondo fu
Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione, mentre in Italia le donne
hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947, dopo la Resistenza; in Russia
le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo
attendere gli anni ’70-’80.
Prendiamo la situazione della donna rispetto al mondo del
lavoro. Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore
gli effetti della crisi economica del capitalismo. Gli attacchi durissimi
portati alle conquiste sociali ed economiche del mondo del lavoro hanno avuto
conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle
donne. Il processo generale di ristrutturazione e di precarizzazione del lavoro
che è stato portato avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi
decenni, qualunque fosse il loro segno politico, ha prodotto
l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà
del lavoro, portando con sé lo smantellamento di diritti che i lavoratori e le
lavoratrici avevano conquistato nelle lotte della fase precedente. Le donne (e
gli immigrati, per altro verso) sono i soggetti più colpiti dal
supersfruttamento attraverso contratti di lavoro “atipici”, come il lavoro interinale
o i contratti part-time che molte donne chiedono non allo scopo di liberare
tempo per sé stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico
di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia. Quindi: doppio
sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che lavorano
in casa. Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica
porta con sé l’aumento della violenza sulle donne (e magari anche la
diminuzione delle denunce, le due cose non sono affatto in contraddizione).
domenica 11 ottobre 2015
MARX: INTRODUZIONE DEL 1857. SCHEMA DELL'OPERA* - Stefano Garroni
*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed.
Se si tengono presenti, ad es., le pagine dedicate al tema <denaro> nel Per la critica dell'economia politica, e quelle dedicate, nei Grundrisse,alle <Forme precapitalistiche di produzione>, si può sostenere che Marx interpreta lo svolgersi della storia come processo di effettiva separazione di parti che, all''inizio', giacciono confuse l'una nell'altra in una totalità immediata (la forma 'asiatica' di produzione, basata su proprietà comune e possesso privato), anche se - dal punto di vista logico - sono, invece, concepibili separate l'una dall'altra. Questo modello - dell'effettiva separazione nel Dasein di ciò, che è logicamente concepibile come separato - è rigorosamente applicato da Marx, anche nel senso che diverse sono le forme, in cui si realizza effettivamente la separazione, posto che tale diversità sia logicamente concepibile. Ecco cosa significa, veramente, la distinzione, operata da Marx, tra modo di costruzione del concreto nella mente, e modo di costruzione dello stesso nella storia. Ed ecco perché Marx critica il pensare speculativo, in quanto accusato di attenersi rigidamente ad una sola, presupposta forma di movimento dialettico.
La polemica di Marx non è esattamente contro Hegel (che egli
conosceva bene, utilizzava largamente e che rileggeva, quand'era impegnato
nella stesura di Das Kapital); la sua
polemica è contro un certo modo di
essere hegeliano, che trovava nella cosiddetta sinistra hegeliana - o movimento dei 'giovani hegeliani' - e che
radici nel testo di Hegel doveva pur averle. Indubbiamente la polemica di Marx
è contro una determinata interpretazione di Hegel, accompagnata, però, dalla
consapevolezza che difficilmente una interpretazione è appieno arbitraria.
Dunque la polemica di Marx è contro quello Hegel, che può condurre alle tesi giovani-hegeliane; contro
quei lati, quelle oscurità, quelle ambiguità, presenti nel testo di Hegel e
che, in qualche modo, possono concludersi con le posizioni della sinistra
hegeliana.
Senonché, questo non è
tutto Hegel, né forse è lo Hegel essenziale.
E', però, un certo modo, in cui Hegel ha funzionato di fatto e che, per Marx,
va respinto.
venerdì 9 ottobre 2015
Karl Marx - Il metodo dell’economia politica*
*Da Introduzione a "Per
la Critica dell'Economia Politica", Capitolo 3
Marx insiste sul momento analitico del metodo che propone.
Ricordiamo che, nella Logica, Hegel deduce le categorie (determinazioni del
pensare) analiticamente: appunto per via d’analisi si svolge il fondamentale
processo del passaggio in altro. In questo senso, la procedura dialettica è
esplicativa, fa emergere progressivamente ciò che è contenuto nel punto di
partenza. Se questo è vero, non meraviglia che muoversi nella prospettiva
dialettica implica, anche, la necessità di differenziare l’analiticità
dialettica, appunto, da un’altra analiticità, che si limita ad esplicare
formalmente, nel predicato, ciò che è contenuto nel soggetto. Dunque,
l’interesse di Hegel e di Marx verso le proposizioni tautologiche consegue
direttamente da caratteri essenziali della prospettiva dialettica.
La procedura dialettica ... si completa ora mediante la
sintesi. Per Hegel, l’analisi consiste nell’esposizione..., sulla sola base
della necessità concettuale, di ciò che è contenuto in sé nel concetto
originario, colto come totalità; quanto alla sintesi, essa è ai suoi occhi una
procedura, che implica una esteriorità del ragionamento in rapporto a se
stesso, l’assunzione di un’alterità reale. In questo senso il metodo
dialettico, per Hegel, non è né analitico né sintetico -o, piuttosto, è contemporaneamente
e l’uno e l’altro.
La conclusione di Marx, dunque, è che il risultato è
l’effettivo punto di partenza. Esattamente come Hegel sosteneva (G.W.F. Hegel,
Science de la logique...: 42s). Altrettanto chiaro è che Marx sta
ricollegandosi alla critica a Feuerbach, che aveva svolto -in età giovanile-
nelle Thesen über Feuerbach.
Resistenza, lotta di classe e religiosità popolare a Cuba - Alessandra Ciattini

Ma la Costituzione del 1976, approvata con un
referendum popolare da circa il 98% dei votanti, considerava anche la
concezione scientifica materialistica come ideologia ufficiale dello Stato
cubano. Sulla stessa linea si collocano le Tesis sobre Religión, la Iglesia y
los Creyentes discusse in precedenza dal primo Congresso del Partito comunista
cubano, tenutosi nel 1975, nelle quali si ribadisce il diritto a praticare
qualsiasi forma di culto, purché ciò avvenga nel rispetto della legge e della
morale socialiste. In tali tesi si indica come obiettivo da raggiungere
l’affermazione della conoscenza scientifica libera da pregiudizi e
superstizioni, e si esclude che i credenti possano far parte del partito.
Questa decisione scaturì sicuramente dalla volontà di rispondere
all’aggressività mostrata soprattutto dalla gerarchia cattolica nei confronti
della Rivoluzione, la quale con l’abolizione delle scuole private, approvata
negli anni ’60, perdeva un potente strumento di influenza e di penetrazione
culturale.
Nonostante tali posizioni considerate da molti antireligiose, lo
Stato rivoluzionario rivalutò i contenuti estetici, artistici, i valori
folclorici legati alla religiosità popolare, tentando di mettere in secondo
piano i suoi aspetti religiosi e mistici. Tale atteggiamento e l’effettiva
preminenza dei membri del partito comunista nella vita sociale avrebbe spinto
quella parte della popolazione, che in qualche modo seguiva una fede religiosa,
a nascondere tale fede. Tuttavia, nonostante l’adesione all’oggettivismo
positivistico e all’ateismo scientifico, lo Stato cubano perseguì sicuramente
la rivalutazione delle tradizioni popolari cubane, come mostrano, ad esempio,
l’istituzione del Conjunto Folklórico Nacional (lo straordinario corpo di ballo
tutt’ora esistente) e lo spazio dato ad opere teatrali, in cui si
rappresentavano idee e valori legati al retaggio africano. Come osserva Lázara
Menéndez (2004: II parte) tale rivalutazione fece sì che tali forme culturali e
al contempo religiose continuassero ad operare come un fattore di
identificazione, come era avvenuto già nelle epoche passate. Ma poiché, ciò
avveniva accantonando i contenuti religiosi pur caratterizzanti larga parte
della popolazione cubana, si produsse il fenomeno, di cui è difficile valutare
l’estensione, che i cubani chiamano della “doble moral”: essere credenti senza
dichiararlo apertamente. Sicuramente tali osservazioni, sviluppate per esempio
da Lázara Menéndez (2004), sono fondate, ma pongono grossi problemi a chi
voglia auspicare e sostenere una radicale trasformazione sociale, i quali non
possono essere risolti difendendo a tutti i costi le le antiche tradizioni pur
cariche di esperienze esistenziali. Infatti, cambiando il contesto
storico-sociale, inevitabilmente queste ultime, anche se con maggiore lentezza
e gradualità, si trasformano e si riadattano alla nuove circostanze.
Non si
capisce pertanto perché un’organizzazione sociale, che si propone di cambiare
dalle sue basi la precedente struttura sociale, non debba intervenire per
orientare l’innovazione spontanea delle pratiche e delle credenze, favorendo lo
sviluppo di convinzioni e valori funzionali alla nuova strutturazione sociale.
È questo un processo che si è prodotto in tutte le epoche storiche, sia in
quelle rivoluzionarie che in quelle restauratrici.
Naturalmente tale intervento
non può essere in nessun modo repressivo e del resto a Cuba non lo è mai stato,
anche perché come diceva Lenin ai lavoratori interessa mettersi d’accordo sul
“paradiso” in terra, lasciando agli altri le dispute sull’aldilà.
venerdì 2 ottobre 2015
LA DIALETTICA MISTICA DI HOLDERLIN - Stefano Garroni
*Da QUADERNO
FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS
L'amore (e l'amicizia, e l'abbandonarsi, l'immergersi nella
natura) definisce un certo livello d'esperienza, in cui si esplicano forze
profonde ed essenziali, le quali realizzano un "disegno",
attualizzando un'aspirazione radicale, che è degli uomini e dei viventi in
generale. Si tratta dell'aspirazione all'unità, alla ricomposizione, al
superamento d'una condizione di scissione, separatezza, che produce angoscia,
che rende vana, sterile l'esistenza, la svuota di senso. Ma questo va tenuto
ben presente: esiste uno scarto fra il piano in cui si collocano separatezza e
angoscia, e l'altro in cui si realizza la ricomposizione. Il primo, infatti è il piano
dell'intelletto, della riflessione, del sapere scientifico e dell'agire
politico (è il livello del "tempo, insomma); l'altro è quello a cui si perviene, quando, superati illusori furori,
ci si allontana dal pensare e dall'agire (nel senso sopra detto) e si ritorna
ad una relazione immediata, emozionale con la madre-natura.
Dato questo scarto, è vero, allora, che le riconquistate
armonia ed unità rigorosamente,non sono
tali, ma piuttosto lo sono metaforicamente,
allusivamente. Perché fossero effettive
armonia ed unità, dovrebbero, infatti, risultare da un intervento attivo sul mondo della scissione; un intervento
che cambiasse questo mondo, che
operasse, a dir così, sul
"tempo", per introdurre un diverso
"tempo".
giovedì 1 ottobre 2015
Psicologia delle Folle (1895, seconda parte) - Gustav Le Bon
PARTE SECONDA
CAPITOLO I
Le opinioni e le credenze delle folle - I fattori lontani
Fattori preparatorii delle credenze delle folle. - Il fiorire delle credenze delle folle è la
conseguenza di un'elaborazione anteriore. - Studio dei diversi fattori di queste credenze. - 1.°
La razza. - Preponderante influenza esercitata dalla razza. - Essa rappresenta la suggestione
degli antenati. - 2.° Le tradizioni. - Esse sono la sintesi dell'anima della razza. - Importanza
sociale delle tradizioni. Come, dopo esser state necessarie, diventano dannose. - Le folle sono
le conservatrici più tenaci delle idee tradizionali - 3.° Il tempo. - Esso prepara
successivamente la formazione delle credenze, poi la loro distruzione. -- In grazia sua l'ordine
può uscire dal caos. - 4.° Le istituzioni politiche e sociali. Idee errate sulla loro funzione. - La
loro influenza é debolissima, - Sono effetti, e non cause. I popoli non saprebbero scegliere le
istituzioni che a loro sembrano migliori. - Le istituzioni sono etichette che, sotto uno stesso
titolo, nascondono le cose più dissimili. Come possono nascere le costituzioni. - Necessità per
certi popoli di alcune costituzioni teoricamente cattive, come la centralizzazione. - 5.°
L'istruzione e l'educazione. - Errore delle idee attuali sulla influenza dell'istruzione sulle folle.
- Statistiche. Funzione demoralizzatrice dell'educazione latina. - Influenza che l'educazione
potrebbe esercitare. Esempi che ci forniscono diversi popoli.
mercoledì 30 settembre 2015
Tutto è merce - Gianfranco Pala
“Nel mercato mondiale
la connessione del singolo individuo con tutti, ma nello stesso tempo anche
l’indipendenza di questa connessione dai singoli individui stessi, si è
sviluppata a un livello tale che perciò la sua formazione contiene già
contemporaneamente la condizione del suo trapasso. Il lato magnifico sta
proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione
naturale, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che
presuppone perciò la loro indipendenza e indifferenza reciproche. Ma è anche
insulso pensare quel nesso materiale come un nesso naturale. Esso invece ne è
il prodotto. È un prodotto storico. Appartiene a una determinata fase del suo
sviluppo. Il grado e l’universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa
individualità diventa possibile presuppone appunto la produzione sulla base dei
valori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l’universalità,
l’alienazione dell’individuo da sé e dagli altri, ma anche l’universalità e
l’organicità delle sue relazioni e delle sue capacità. Volgersi indietro a
quella pienezza originaria è altrettanto ridicolo quanto credere di dover
rimanere fermi a quel completo svuotamento. Al di là dell’opposizione a quel
punto di vista romantico, quello borghese non è mai pervenuto, e perciò esso
l’accompagnerà come opposizione legittima fino alla sua morte beata”. (K. Marx, Lf.q.I,f.22-23)
Ecco: quello descritto da Marx rappresenta “splendori e
miseria” del mercato mondiale, la cui unificazione pone per la prima volta
nella storia dell’umanità le antitetiche condizioni materiali per consentire un
sufficiente sviluppo della produttività e della disponibilità di tempo. Mancano
ancora, infatti, le condizioni sociali per sopprimere il carattere antitetico
di tale sviluppo. Ma il modo di esistenza del capitale diventa adeguato al suo
concetto solo sul mercato mondiale, dove le merci dispiegano universalmente il
loro valore, dove la loro forma autonoma di valore si presenta di fronte a esse
come moneta mondiale. Dunque, esporre articolatamente l’ambito mondiale della
diffusione della merce (capitalistica) non è pleonastico o ridondante rispetto
alla teoria del valore (e del plusvalore). Piuttosto ciò ne costituisce,
appunto, la necessaria cornice per conoscere bene il contesto in cui il valore
si muove. Si rappresenta così, allo stesso tempo, in via preliminare, nel
succedersi dei modi di produzione, la necessità del “cominciamento” di valore
per delineare il quadro complessivo reale – l’attuale fase della lotta di
classe – al quale in ultima analisi ancora oggi ci si riferisce. È sul valore
di scambio, sul denaro, sul capitale – appunto sulla proprietà, sul controllo e
sulla disponibilità di essi – che si basa anche lo sviluppo del sistema
dell’uguaglianza e della libertà borghese: uno sviluppo libero su una base
limitata, cioè adeguata al capitale, che è un sistema della disuguaglianza e
dell’illibertà. Il sistema del valore di scambio, su cui si articola il sistema
monetario, è infatti solo formalmente il sistema della libertà e
dell’uguaglianza, le quali però – quanto più diviene universale la forma-merce
– si rovesciano all’occasione nel loro opposto.
lunedì 28 settembre 2015
Astrazione determinata - Paolo Vinci
«È nella pratica che l’uomo deve provare la
verità e cioè la realtà del suo pensiero» (K. Marx)
Direi che il vero significato della astrazione determinata è
questo: l’astrazione determinata è ciò che accade ogni giorno nella società
capitalistica. Tale astrazione non è deformazione dello sguardo, ma è appunto
ciò che effettivamente accade nello scambio delle merci, dove il valore viene
assunto come una proprietà stessa delle cose. Marx chiama ciò apparenza, perché
esso corrisponde solo ad un lato della realtà: il fatto che le cose abbiano
qualità sociali occulta, il fatto che ciò dipende dal loro esser state prodotte
dal lavoro umano e sempre sotto determinati rapporti sociali. Decifrare questa
apparenza significa essere in grado di compiere un’inversione, ovvero mostrare
che la forma fenomenica del valore nasconde un contenuto: il lavoro che si
compie sempre in base a rapporti sociali storicamente determinati.
L’astrazione non è dunque un prodotto mentale per Marx:
l’apparenza non è l’errore, ma il manifestarsi di qualche cosa che occulta nel
risultato il processo che vi è dietro. L’apparenza è l’indipendenza di qualche
cosa, che in realtà non è indipendente, ma che si pone come tale negando ciò da
cui dipende. Questo è quello che Marx chiama forma, parlando di forma merce,
forma denaro, per indicare questa dimensione per cui nella forma fenomenica si
occulta il processo che lo ha generato. L’apparenza, l’astrazione determinata è
un’oggettività spettrale, poiché essa consiste in una esistenza sociale in cui
ciò che è materiale subisce una strana vicissitudine.
Tutta la teoria di Marx ruota intorno a questa oggettività
spettrale che presuppone che qualcosa sia separato, che le relazioni sociali si
siano rese indipendenti dai loro veri soggetti. Questo elemento soggettivo è
importante, poiché è ciò che chiede un superamento della scissione, la
riappropriazione da parte del soggetto delle sue relazioni sociali.
La dialetticità sta proprio nella capacità di tener conto di
questa contrapposizione tra il lato fisico naturale e quello sociale, assumendo
la loro simultanea presenza a partire dalla opposizione tra valore d’uso e
valore di scambio. Quindi il movimento di contenuto e forma che vi ho
accennato, riferendomi al passaggio dalla merce al denaro, è un movimento per
contraddizione. La teoria di Marx vuole essere una ricostruzione di questo processo
per farci vedere che ciò che accade nel capitalismo è esattamente
l’irrigidimento dell’opposizione presente nella merce fra il corpo naturale
sempre particolare e il valore universale.
L’irrigidimento consiste in una cancellazione della
particolarità; ma ciò accade esclusivamente nella dimensione sociale, non in
quella immediatamente naturale. In questo senso abbiamo quella separazione che
dà vita a un movimento dialettico, dove funzionano nello stesso tempo due
principi opposti. Per questo possiamo dire che l’astrazione che si manifesta
nello scambio non è un atto mentale quanto piuttosto il modo di funzionare del
modo di produzione capitalistico. Il fatto che il processo reale sia un
processo dove si attua una negazione e un’astrazione è direttamente collegato
al dominio del capitale, che è un dominio dell’universale astratto sul
particolare concreto. Si tratta di non subire gli effetti incontrollati di una
contraddizione dialettica non dominata: di ribellarsi a una unilaterale
affermazione della universalità del valore di contro soggettività concreta degli
individui.
La «soluzione» nella sua forma più generale, la prospettiva
del comunismo che, ad esempio, troviamo accennata nei Grundrisse coincide con
l’affermazione del controllo cosciente degli individui sulle loro relazioni
sociali.
Attraverso il comunismo Marx più che una soluzione ci
consegna una domanda: come muovendo dall’istanza di autorealizzazione di ogni
individuo possa prodursi un nesso sociale unitario e non una forma di dominio
separata. E’ possibile un legame sociale che nasca proprio dall’agire degli
stessi individui? E’ possibile superare l’individualismo garantendo la libertà
di tutti e di ciascuno?
domenica 27 settembre 2015
Augusto Graziani, l’uomo che ha davvero capito la moneta - Steve Keen
In primo luogo, anche se tutti noi tendiamo a pensare allo
scambio come qualcosa che coinvolge due persone che commerciano due beni, in
realtà tutte le operazioni coinvolgono tre parti -un venditore, un acquirente,
e una banca – e solo una merce, la cui contropartita è il trasferimento di una
promessa di pagamento della banca dal compratore al venditore. Pertanto tutte
le transazioni sono triangolari: qualsiasi pagamento monetario deve quindi
essere una transazione di tipo triangolare, che coinvolga cioè almeno tre
agenti, il pagatore, il beneficiario, e la banca.
In secondo luogo, le banche devono essere parte dell’analisi
economica – lasciandole fuori si omette il principale (anche se non unico) modo
in cui si crea denaro in un’economia moderna – e non possono essere
semplicemente accorpate alle altre imprese:
"Le imprese sono
presenti sul mercato come venditori o acquirenti di merci e ricorrono alle
banche per effettuare i loro pagamenti; le banche d’altro canto producono mezzi
di pagamento, e agiscono come stanze di compensazione tra imprese. In un
modello di economia monetaria, le banche e le imprese non possono essere aggregate in un unico settore.” (A.
Graziani)
Le banche creano moneta mediante l’emissione di un prestito
ad un contraente; registrano il prestito come una attività, e il denaro che
depositano nel conto del contraente come una passività.
la moneta è semplicemente la promessa di un terzo di pagare, che noi accettiamo come pagamento definitivo in cambio di beni. I due principali soggetti terzi le cui promesse accettiamo sono lo Stato e le banche.
E’ semplicemente la natura della moneta: non è sostenuta da
nulla di “fisico” ed invece si basa sulla fiducia.
Psicologia delle Folle (1895, prima parte) - Gustav Le Bon
"Il punto di vista di
Le Bon è caratterizzato da una pessimistica arrendevolezza verso le proprietà
della folla, quali si danno immediatamente. Questo è l'atteggiamento di Le Bon:
il modello positivo d'individuo a cui è fedele, non può che portarlo a
rifiutare in blocco la realtà massa.
Con Lenin la faccenda
sta in tutt'altro modo. Lenin non parla della massa in generale, ma secondo un'ottica precisa, che nel suo caso è quella politica
ovviamente. Già con questo, Lenin è in condizione di dare una prima
delimitazione al proprio oggetto: la sua analisi si volgerà a quegli aspetti
della vita della massa, che son politicamente significativi o, comunque,
valuterà il comportamento delle masse solo per quanto ha di politicamente
rilevante ... Il suo atteggiamento è
quello di chi, fin dall'inizio, concepisce il dato come 'materia prima'. La
conseguenza necessaria è che la sua analisi mette in evidenza del comportamento
della massa quanto vi è di manipolabile, di ulteriormente organizzabile: il
fatto che un certo progetto da realizzare stia a monte dell'analisi - questo
voglio dire - fa sì che la stessa materia dell'analisi assuma un volto (quello
della trasformabilità) e non un altro.
Avveniva lo stesso con
Le Bon. La differenza era che egli non mirava ad una più alta organizzazione
delle masse, sì invece a trattenerle, contenerle, per assicurare al meglio il privilegio
individuale. Tuttavia, nonostante questa differenza anche per lui il progetto
da realizzare predeterminava i caratteri
del dato da analizzare." [S. Garroni, Su
Freud e la morale (L'uomo e la società),http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/01/freud-e-la-massenpsychologie-stefano.html ]
Parte prima
CAPITOLO I.
Caratteristiche generali delle folle - Legge psicologica della loro unità mentale.
Come è costituita una folla dal punto di vista psicologico. - Un agglomeramento numeroso di individui non basta a formare una folla. - Speciali caratteri delle folle psicologiche.-Orientamento fisso delle idee e dei sentimenti negli individui che le compongono e scomparsa della loro personalità. - La folla è sempre dominata dall'incosciente. - Scomparsa della vita cerebrale e predominio della vita nervosa. - Abbassamento dell'intelligenza e trasformazione completa dei sentimenti. - I sentimenti trasformati possono essere migliori o peggiori di quelli degli individui di cui la folla è composta. - La folla è facilmente eroica quanto criminale.
Nel senso consueto, la parola folla rappresenta una riunione di individui qualsiasi, qualunque sia la loro nazionalità, la professione e il sesso, qualunque siano i casi che li riuniscano.
Il rifiuto del lavoro. Teoria e pratiche nell'Autonomia Operaia - Ottone Ovidi
Maria Turchetto definisce così l’ideologia del lavoro:
"Quel modo di
pensare, largamente introiettato nella nostra società, che fa dell'attività
lavorativa continuativa e retribuita il titolo normale e pressoché esclusivo di
partecipazione alla vita associata. […] L'idea che sia il lavoro a conferire
pieno diritto di cittadinanza è in effetti ampiamente trasversale,
interclassista, condivisa da etiche laiche e religiose. É più di un ideologia:
è senso comune, rappresenta cioè una norma di comportamento e di giudizio
completamente assimilata e che dunque funziona, proceduralmente, senza passare
attraverso un attento esame critico, come dispositivo disciplinare." (Il lavoro senza fine. Riflessioni su
“biopotere”e ideologia del lavoro tra XVII e XX secolo)
In assoluto gli autonomi non erano i primi a discutere
tematiche antilavoriste. Possiamo ricordare che già nel 1887, Paul Lafargue
aveva pubblicato il suo Diritto alla pigrizia, recentemente ripubblicato. Ma
queste tematiche non si erano, prima di allora, mai tramutate in programma
politico, in azione collettiva che uscisse al di fuori dal comportamento
individuale avverso alla pratica lavorativa.
In Italia, è soprattutto il mondo dell’operaismo che
comincia ad accorgersi di alcuni cambiamenti che si stavano verificando nelle
grandi concentrazioni industriali. L’attenzione degli operaisti è attratta
dalle pratiche di insubordinazione e sabotaggio che si erano diffuse e
radicalizzate nelle fabbriche fino ad esplodere con l'autunno caldo del 1969.
E’ allora che queste pratiche spontanee e diffuse vengono concepite come
molteplici forme dello stesso rifiuto. E saranno la base su cui si formeranno i
primi nuclei dell’autonomia. L’autonomia come progetto politico nasce in
maniera simbiotica con il rifiuto del lavoro. L’evoluzione del rifiuto del
lavoro come impianto teorico e come applicazione pratica va ricercata nella
vita quotidiana dei militanti e non solo, negli espropri, nelle spese
proletarie, nelle autoriduzioni delle bollette, degli affitti, nell’occupazione
di stabili per motivi abitativi o culturali e/o politici, nel modo di lavorare
di chi aveva un lavoro fisso e nelle modalità di vita di chi non lo aveva.
Risulta chiaro quanto grande sia stata allora la novità, quanto grande
l’impatto di una posizione come quella del rifiuto del lavoro praticata e
propagandata dagli autonomi. La storia del rifiuto del lavoro è la storia della
fabbrica, concentrato di esperienze storiche, di necessità quotidiane, di
insoddisfazione nei riguardi dei sindacati e delle pratiche sindacali, di
impegno politico ed ancora di metodi di lotta radicali: come il gatto
selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla catena di montaggio, lo
sciopero a scacchiera o a singhiozzo, il rifiuto del cottimo. L’operaismo degli
anni ’60 in Italia, al di là della costellazione dei percorsi politici che lo
hanno animato, era declinato sulla centralità politica operaia, per cui la
classe operaia era il soggetto politico e l’attore principale del cambiamento
della società e della rivoluzione. Tuttavia l’operaismo rompe con la tradizione
comunista dell’etica del lavoro e introduce l’idea-forza dell’odio degli operai
per la propria condizione.
"Nessuna
affermazione comunista, più di quella del rifiuto del lavoro, è stata
violentemente e continuamente espulsa, soppressa, mistificata, dalla tradizione
e dall'ideologia socialiste. Se vuoi mandare in bestia un socialista o se vuoi
scoprirlo quando si copre di demagogia, provocalo sul rifiuto del lavoro.
Nessun punto del programma comunista, lungo un secolo, da quando Marx parlava
del lavoro come “essenza disumana” è stato tanto combattuto: fino a quando la
scomunica del rifiuto del lavoro è divenuta taciuta, surrettizia, implicita, ma
non meno potente: l'argomento è stato tolto. Ora, è su questo terreno indiretto
che l'astuzia della ragione proletaria ha cominciato a restaurare la centralità
del rifiuto del lavoro nel programma comunista. […] Nostro compito è la
restaurazione teorica del rifiuto del lavoro nel programma, nella tattica, nella
strategia dei comunisti." (Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio)
sabato 26 settembre 2015
"REALIZZAZIONE DELLA FILOSOFIA" e "MESSA IN OPERA" di HEGEL* - Stefano Garroni
*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed.
Non mi sembra che il rapporto di Marx con Hegel segua
tracciati netti - per quanto
modificantisi in epoche diverse; in realtà, in ogni pagina (o quasi), in cui il
problema sia 'interpretare Hegel', Marx sembra muoversi, contemporaneamente,
fra due prospettive: nella prima, Hegel è considerato rispetto a problemi
espressamente speculativi ed è strettamente congiunto con il (neo) hegelismo
successivo; nella seconda, proprio Hegel è invece usato per sostanziare la
critica alla filosofia speculativa, di cui il neo-hegelismo (e Proudhon)
divengono esempi.
Al fondo di tutto ciò, osserva Marx, sta il fatto che
Proudhon non vede come la legge o ragione, che egli vorrebbe ordinasse la serie
degli eventi (storico-economici), in realtà già
sta in essi: la superiorità, di Ricardo consiste, secondo Marx, proprio
nell'evitare quest'errore.
Ne consegue che quel particolare rapportarsi della regola
all'evento e viceversa, su cui, in contrapposizione a Proudhon, Marx costruisce
nella Misère de la philosophie la sua
prospettiva di filosofia della storia (e conseguentemente di analisi
economica), anch'esso, ha non solo una precisa matrice hegeliana, ma pure - e
questo per noi conta assai - si lega coerentemente alla critica della filosofia
speculativa, che caratterizzava le opere marxiane precedenti (critica
hegeliana, sappiamo) operando un ulteriore passo avanti.
Con l'espressione <messa in opera> voglio sottolineare
che Marx tende ormai non più ad occuparsi di generali questioni metodologiche in sé (quale, ad es., il rapporto fra concetto e fenomeno, come
aveva fatto nella Heilige Familie),
si piuttosto procede ad applicare a circoscritti domini d'esperienza una
strumentazione metodologica, che è plastica
(dialettica), in quanto volta a determinare quale sia la regola interna ad un certo svolgersi
di eventi.
venerdì 25 settembre 2015
La crisi cinese e la "stagnazione secolare". Intervista a J. Halevi
Mentre il Giappone è rientrato in recessione e l’Europa è
completamente ferma. E la felicità inglese è completamente collegata alla City.
No, ripresa vera non ne vedo.
Nell’ambito dell’economia e anche della politica
mondiale, c’è una zona che gli americani si sono lasciati scappare: le ex zone
sovietiche dell’Asia centrale. Per esempio, il Kazakistan è un grosso
produttore di gas, petrolio, ecc. Su quell'area c’era inizialmente una idea
russo-tedesco-cinese. Quella di costruire un grande asse Germania-Russia-Kazakistan
e Cina. Qualche mese fa c’è stato il primo treno merci partito dalla Cina e
arrivato a Duisburg…
Passando per la Russia… Ed anche per l’Ucraina. Questa idea
costituiva la nuova frontiera dell’industria meccanica pesante tedesca, perché
per realizzarla bisogna ristrutturare gran parte dell’industria russa,
ristrutturare il sistema ferroviario del Kazakistan, ecc.
Questo era il grande progetto.
L’idea era della Germania... Però secondo me è saltata con
l’Ucraina. Ed è stata una scelta americana. Che ha detto alla Germania: io ad
est non ti ci faccio andare...
con l’Ucraina sono riusciti a bloccare tutto, a mettere in
crisi la Germania. Qui c’è la vera debolezza della Germania. Quando scoppiò la
crisi ucraina il quotidiano economico tedesco Handelsblatt era contro il
conflitto con la Russia. Però una parte del governo tedesco, come “la
baronessa”, la ministra della difesa tedesca Ursula von der Leyen, era
completamente a favore di un “ruolo dinamico della Germania nei confronti dell’Ucraina”,
cioè di appoggio all’Ucraina. E anche Schaeuble era favorevole a dare alla
Germania una funzione di punta nella situazione Ucraina.
La via di von der Layen e Schaeuble è conflittuale con gli
stessi interessi tedeschi. Un economista conservatore come Hans Werner Sinn,
l’anno scorso, l'ha detto papale papale: “noi non dobbiamo scontrarci con i
russi”.
Sulla vicenda dell’Ucraina, secondo me, dietro c'è anche la
Francia, che ha interesse a mettere i bastoni tra le ruote alla Germania.
loro hanno appoggiato molto l’Ucraina, nei fatti.
L’articolazione era Stati Uniti-Nato-Polonia. In quella partita la Polonia ha
giocato un ruolo molto importante, perché praticamente ha trasformato la parte
non orientale dell’Ucraina in un protettorato polacco. E dietro c’era la Francia
che ha appoggiato, mentre la Germania è entrata in difficoltà. Ma questo ti fa
saltare una grande strategia…
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