MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO, mondializzazione
o globalizzazione?
1. Alla fine di questo 1998, centocinquantenario
del Manifesto del partito comunista di K. Marx e F. Engels, è
– a quanto sembra – pacifico e generalmente riconosciuto: la critica del
capitalismo avanzata a metà ‘800 conteneva una singolare capacità di
previsione storica – nelle grandi linee, e dunque non
necessariamente politica.
Ricordiamo brevemente.
Già nel Manifesto il “mondo” appare come un
“mondo”, un processo obiettivo e che si generalizza secondo sue determinazioni
interne. Abbiamo:
- la produzione capitalistica, capace di
abbattere o sottomettersi tutte le forme precorse di riproduzione della vita
umana associata (dunque: espansione illimitata della produzione capitalistica);
- la tendenziale estensione della forma di merce,
e del corrispondente “nudo rapporto d’interesse”, a ogni elemento della
riproduzione della vita umana e del corpo associato (dunque: trasformazione
graduale di tutte le dimensioni societarie in figure “capitalistico-borghesi”);
- la creazione di un mercato mondiale, non come
semplice rete di scambi, ma come regolazione vincente di rapporti sociali, politici,
culturali (dunque: unificazione, in prospettiva, del genere umano nella – contraddittoria –
“civiltà borghese”);
- il primato economico delle “nazioni
borghesi” come tendenza alla sottomissione di tutte le altre, o alla loro
“integrazione” nelle forme economiche e politiche corrispondenti .
Ce n’è abbastanza – può sembrare – per trovare proprio in
Marx un “profeta” del presente, il cui “fantasma” deve inquietare i posteri 1.
Ma è un’apparenza superficiale, capace di ogni ambiguità, e sostanzialmente ingannevole.
2. Noi sappiamo [i]bis che nel Manifesto la
teoria del modo di produzione capitalistico 2 era appena abbozzata; che Marx,
nel 1848, non aveva una sua teoria della forma di valore (cioè del rapporto di
produzione generale, e che astrattamente “copre” tutto l’arco del mpc), né
del processo di capitale, che, se comprende in sé il
semplice rapporto di capitale (lavoro salariato), si svolge
poi categorialmente fino all’unica e vera “contraddizione” del mpc: la tendenza
allo “sviluppo incondizionato della forza produttiva del lavoro sociale” e lo
“scopo limitato” della valorizzazione, entrambe inerenti allo svolgimento del
mpc in tutto il suo arco. Di conseguenza, solo nell’elaborazione della teoria
del mpc in tutto il corso dell’esperienza scientifica di Marx [ii]bis, si
sviluppa anche la teoria marxiana delle classi. Poiché la nozione di “classe”
dipende concettualmente da quella di “modo di produzione” essa ha,
innanzitutto, uno status teorico del medesimo livello
d’astrazione della teoria del mpc. E come questa non è teoria
delle singole configurazioni del “capitalismo” (i “capitalismi nazionali”, con
le loro determinazioni pregresse e sussunte, “ricchezza” e “tradizioni”
storiche peculiari, etc.), né – in prima istanza – una teoria degli “stadi” o
“fasi” delcapitalismo se non in quanto processo tendenzialmente
universalizzantesi, secondo le sue leggi di moto intrinseche e con sussunzione
di altre pregresse figure sociali in genere – così la teoria delle classi è
(quanto meno per l’autore del Capitale ) una teoria di forme
di moto della riproduzione sociale nella forma del mpc, che solo ulteriormente,
nella utilizzazione analitica dell’intera teoria del modo
di produzione per lo studio di configurazioni sociopolitiche concrete (singoli
“capitalismi” storici, nei loro stati, etc.) può acquistare valenza politica
nel senso più lato del termine. Torneremo più avanti su quest’aspetto.