Da: http://www.rifondazione.it/formazione/ - Nata a Berlino nel 1943, Claudia von Werlhof si è laureata in economia e in seguito ha conseguito il dottorato in sociologia presso l’Università di Colonia; ha insegnato all’Università di Bielefeld e dal 1988 al 2011 come professoressa emerita (Political Science and Women ́s Studies) all’Università di Innsbruck. Nel 2010 ha dato vita alla Fondazione “Planetary Movement for Mother Earth” e nel 2015 alla rivista “BOOMERANG – Journal for the Critique of Patriarchy”. Tra le sue opere in inglese si ricorda: Women, the Last Colony, Zed London 1988; There is an Alternative, Zed, London 2001; The Failure of Modern Civilization and the Struggle for a “Deep” Alternative, Lang, Frankfurt-New York-Paris 2011. In Italiano è recentemente uscito il volume, recensito in questo numero della rivista, Nell’etá del Boomerang. Contributi alla teoria critica del patriarcato, Unicopli, Milano 2014.
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Il processo di accumulazione originaria “continuata” e la crisi della riproduzione del capitale oggi.
Era il 1976 quando, grazie al pensiero di Rosa Luxemburg, elaborai la mia prima scoperta teorica. Gli effetti sarebbero stati di ampia portata. Si tratta del nuovo concetto di “ accumulazione originaria continua” o “progressiva” (Werlhof 1978). Fino a quel momento esisteva solo il concetto di “accumulazione originaria” o “primitiva” formulata da Karl Marx (Marx 1974a), il cui presupposto era la violenta espropriazione della popolazione rurale e artigianale europea nel processo della formazione del capitale all’inizio dell’età moderna.
Il capitale è venuto al mondo “grondante sangue e fango”, come scrisse Marx. L’estorsione dei mezzi di produzione, la loro “separazione” da coloro che con essi lavoravano e la sottomissione di costoro – da ultimo nella guerra dei contadini del XVI secolo – come pure il trasferimento di tali mezzi di produzione, ovvero le terre, nelle mani di una nuova classe padronale diventarono il fondamento dell’economia moderna. In questo modo, per Marx, la questione era in linea di principio risolta perché da quel momento i contadini e gli artigiani presero di fatto a trasformarsi in “liberi lavoratori salariati”, più precisamente in proletari, diventando così doppiamente “liberi”, in quanto affrancati sia dai mezzi di produzione, sia liberi di vendere la loro forza lavoro.
Da parte sua, Marx considerava l’accumulazione originaria innanzitutto come una fase storica poi più o meno conclusasi. Essa rappresentava così la fase di accumulazione quasi anteriore, quella che aveva preceduto la fase dell’effettiva accumulazione di capitale, e quindi quella che stava alla base del lavoro salariato e della fabbrica. E mentre il lavoro salariato si fonda sull’ “obbligo economico” indiretto, che non richiede più l’uso della frusta, per Marx esso era “il mistero” del processo di accumulazione originaria, che si basava sull’obbligo diretto e politico, ovvero sulla estorsione mediante violenze e guerre.
Nei successivi dibattiti dedicati al tema dell’accumulazione originaria e della sua continuazione l’accento era sempre stato posto sul fatto che anche oggi si tratterebbe di una forma ancora precapitalistica del processo di accumulazione (per es. in Frank 1977). Il concetto era rimasto quello di un tempo: poiché i contadini e gli artigiani non si erano ancora trasformati in lavoratori salariati, più precisamente in “un esercito industriale di riserva”, da loro non può ancora venire un contributo al processo di accumulazione genuinamente capitalistica.
Come ha mostrato sia la storia sia l’inclusione nella analisi del modo di produzione e di accumulazione capitalistici di altri produttori e produttrici nonché regioni del mondo, questo voler circoscrivere il concetto di accumulazione originaria a una fase “storica” nel senso di “passata, finita” non corrispondeva alla realtà.
Rosa Luxemburg fu la prima che fece notare come su scala mondiale la fase dell’accumulazione originaria non fosse finita nemmeno all’inizio del XX secolo, e come quindi si stesse assistendo a una sorta di “continuazione” di tale processo (Luxemburg 1913). In questo modo la Luxemburg aprì la discussione su una nuova definizione del concetto di “riproduzione del capitale”, e quindi del capitalismo come modo di produzione.
Quindi noi ora, cento anni dopo Rosa Luxemburg, dobbiamo cimentarci con due temi: la questione del modo di produzione capitalistico e la sua vera essenza, posta da Rosa Luxemburg nel XX secolo, e il dibattito sul modo di produzione capitalistico e la sua “crisi” del XIX secolo, nella misura in cui è riconducibile al pensiero luxemburghiano. E lo è.
In entrambi i casi l’argomento ruota intorno alle forme dell’accumulazione capitalistica e in particolare su quella appartenente alla sfera della cosiddetta accumulazione originaria. Le contraddizioni che Rosa Luxemburg ha scoperto cento anni fa non sono affatto sparite e nemmeno superate dalla storia. Al contrario, esse si sono allargate, rafforzate, emerse in molteplici forme anche al di fuori del settore agrario. In definitiva sono contraddizioni ben rintracciabili, costituendo la base “logica” generale del capitalismo globale in sé e per sé.
Nella sua opera principale, L’accumulazione del capitale del 1913 (Luxemburg 1913), Rosa Luxemburg si era già confrontata con l’analisi marxiana e ne aveva ampliato la portata nella direzione indicata, soprattutto geografica e/o geopolitica.
Aveva acquisito una maggiore consapevolezza del ruolo primario rivestito dalle colonie nella crescita di ciò che oggi chiamiamo “sistema capitalistico mondiale” (Wallerstein 1979). In altri termini, la studiosa si lasciò alle spalle la prospettiva piuttosto eurocentrica per non dire nazionalistica di Marx e del suo tempo, per passare all’approfondimento delle modalità con cui, sin dagli esordi del capitalismo, le colonie furono coinvolte nello sfruttamento e quindi nella “riproduzione del capitale”, senza attraversare la fase di trasformazione in una società “moderna”, quella delle fabbriche e dei salariati.
Le due questioni centrali, che subito vogliamo mettere sul tappeto, sono: i rapporti di produzione, che vanno analizzati, e il loro significato nel quadro dell’accumulazione capitalistica.
Per esempio, nel caso dell’Egitto, Rosa Luxemburg descrive così i contadini della economia di sussistenza, ovvero coloro i quali dedicano il proprio lavoro principalmente al proprio sostentamento e non alla produzione di merce; essi furono costretti con la forza a integrarsi nel processo dell’accumulazione, e non ci fu affatto bisogno di renderli dapprima partecipi del mercato delle merci o addirittura a quello del lavoro. Il mezzo impiegato per raggiungere tale risultato fu il denaro, che nel caso specifico assunse la forma di credito coloniale, con la importante conseguenza che il denaro rifluì nel rimborso del debito e che si dovette mobilitare lavoro in misura crescente. Tutto ciò fu praticabile e praticato senza bisogno di un regime come quello del lavoro salariato, senza regolamentare produzione di merci e senza la fabbrica. Eppure, “lo scudiscio di nerbo di ippopotamo sibilava a pieno ritmo” (Werlhof 1985a/1991a).
La descrizione luxemburghiana si riferiva dunque ai rapporti di produzione delle colonie, dove i contadini, benché non separati dalla loro terra, non potevano più disporne in autonomia e furono costretti con la forza a produrre un plusvalore del quale non potevano beneficare. Si trattava quindi di una “accumulazione” primitiva“ incompleta”.
La Luxemburg descrisse anche la forma “classica” della “accumulazione primitiva” o originaria nelle colonie, dove si diffuse, come già in precedenza in Europa quando si ebbe il riscatto delle terre, attraverso l’appropriazione di terre da parte dei colonizzatori, dando vita a estese proprietà fondiarie e alle piantagioni. La “anomalia” rispetto al “modello” rappresentato dal modo di produzione capitalistico consistette nel fatto che tale accumulazione non sfociò nel lavoro salariato, ma in nuove forme di servitù della gleba, schiavismo e lavoro forzato, forme che agli occhi del capitalismo apparterrebbero al passato (cfr. la discussione sulla “seconda” servitù della gleba in Polonia, Dygo 2005).
Processi di accumulazione più o meno compiuta o “continua” si sono protratti per secoli e perdurano fino ai nostri giorni. Fino a poco tempo fa la metà della popolazione mondiale era ancora costituita da piccoli contadini o coltivatori diretti (Amin 2004). Negli ultimi due decenni un pesante landgrabbing li ha messi fuori gioco ponendo fine a questo ciclo storico e interrompendo per il momento il processo della accumulazione originaria “continuata” nel settore agrario di tutto il mondo.
Ma non finiscono qui le “anomalie” rispetto alla concezione marxiana del modo di produzione, imperniata sul lavoro salariato e la fabbrica e sull’Europa. Infatti, se da un lato l’accumulazione originaria aveva perdurato soltanto nel settore agrario, dall’altro i contadini del Sud, che solo ora sono stati “affrancati” in massa dalla terra, non vengono ancora – o non più – impiegati nel settore “regolare” del lavoro salariato (Bales 2001). La terra è sempre più in mano a imprenditori agrari capitalistici e viene da loro amministrata con criteri industriali. Ma dei lavoratori non c’è più bisogno, e tanto meno di lavoratori salariati. E al Nord, come dimostrano le ondate migratorie di questi giorni in tutto il mondo, gli uomini non vengono affatto trasformati in massa in proletari titolari di “rapporti di lavoro salariato normale”.
Si pone così la questione sul ruolo del cosiddetto “sviluppo delle forze produttive” su cui ci soffermeremo più estesamente. Intanto concentriamoci sui rapporti di produzione e sulla loro dinamica. Essi non si sono concretati in una generale applicazione di lavoro salariato proletario. E Rosa Luxemburg aveva in qualche modo intuito tale anomalia. Non si è verificata e non si verifica quella condizione normale, che si vuole traguardo del progresso, in cui il rapporto tra lavoro salariato e capitale subentra a tutti gli altri rapporti di produzione in quanto “pre-capitalistici”. Tale condizione, che si presume essere la norma, non si rileva nel Sud del mondo, ovvero nella periferia del sistema capitalistico mondiale, e non lo sarà nemmeno in futuro, e anche nel centro di questo sistema, nel Nord, la condizione normale sta scemando per cedere il posto alla condizione cosiddetta precaria, sempre più simile a quella esistente nel Sud.
Questo forse significa che il capitalismo non si è del tutto affermato o addirittura che è in via di estinzione? Oppure, più probabilmente, che ha assunto sembianze molto diverse da quelle finora osservate dagli analisti? La risposta è la seconda, non ci sono dubbi. Le cose stanno così: il capitale non solo è venuto al mondo “grondante fango e sangue”, per dirla con Marx, ma ha continuato a inondare il mondo di sangue e fango. Il capitalismo si dimostra rapace, insaziabile e guerrafondaio, e questo cammino va abbandonato al più presto. L’utopia della modernità è ormai da troppo tempo una distopia e la promessa del paradiso in terra ha ceduto il passo a un inferno in espansione (Werlhof 2012). Sul fronte teorico la lotta prosegue per individuare cause e motivi; occorre verificare se chi vi è coinvolto ne abbia compreso significato e portata.
Questo il quadro del dibattito di allora. In quell’epoca, dagli anni Settanta in poi, la questione era questa, in primo luogo: quando il capitalismo usa o addirittura genera al proprio interno dei rapporti di produzione che sembrano avere caratteristiche “non capitalistiche”, come vanno interpretati? Se contribuiscono alla accumulazione di stampo capitalistico, non possono essere né retaggio pre-capitalistico, né “non capitalistici” (Bennholdt-Thomsen 1980, 1981). Qui sta il punto decisivo. In altre parole, anche da questa angolatura si pone la questione, già riconosciuta dalla Luxemburg, su quale forma assuma nella realtà la “riproduzione del capitale".
La Luxemburg, tuttavia, non affrontò il tema in modo diretto: il lavoro, quando viene svolto non come lavoro salariato e ciononostante all’interno del ciclo dell’accumulazione – per esempio i contadini delle colonie che praticano un’agricoltura di sussistenza – per Rosa Luxemburg, come da lei ribadito a più riprese, continua a rivestire un carattere “non-capitalistico”. Inquadrava quindi il problema come un fenomeno transitorio, entro una determinata cornice storica, e non condusse la sua analisi fino alle sue logiche conseguenze.
Ma Rosa Luxemburg conosceva già la cifra con cui interpretare una volta per tutte la questione sulla natura del capitalismo se lo si osserva nel suo complesso e nei suoi effetti su scala globale che fin dalla nascita lo hanno accompagnato. Invero, con Rosa Luxemburg vengono al pettine nuovi nodi, teorici oltre che empirici.
Cosa significa affermare che il capitalismo non sia sorto col sorgere della fabbrica, ma che abbia alle spalle un lungo percorso storico iniziato nel settore dell’agricoltura e nelle colonie?
Cosa significa affermare, in un’ottica capitalistica, che l’agricoltura e le colonie non subirono una trasformazione tale da renderle simili alla fabbrica e all’Europa intesa quale centro e “prototipo” dello sviluppo capitalistico? Infatti, un simile “sviluppo” non si verificò; si ebbe invece il “sottosviluppo”, causato dalla distruzione della cultura e dei saperi di cui erano portatori gli artigiani e gli agricoltori prima delle conquiste coloniali, le quali imposero un sistema capitalistico di stampo guerresco e innescarono la dinamica delle “forze produttive in via di sviluppo” senza creare un lavoro salariato degno di questo nome.
Oggi occorre interrogarsi anche su un altro aspetto: l’Europa si sta avviando verso una sorta di sottosviluppo o decrescita molto simili a quello delle colonie; periferia e centro tendono a eguagliarsi, ma in un senso opposto a quello pronosticato. Come va inteso tutto ciò?
La tesi secondo la quale, con ottimismo tutto marxiano, il cosiddetto primo mondo sviluppato del Nord mostrerebbe al terzo mondo, quello sottosviluppato, il volto che quest’ultimo avrà in futuro, si è capovolta e si sta capovolgendo. Oggi è sempre più evidente che il Nord sta diventando come il Sud; le anomalie considerate tipiche del capitalismo reale sono cresciute e si stanno generalizzando in perfetta controtendenza rispetto al suo modello. In passato avevamo già individuato questo trend, caratterizzandolo come “terzomondializzazione” del primo mondo (Werlhof 1981, e altri 1983).
Rosa Luxemburg non ha ancora fornito una soluzione alle tre domande. Alla seconda e alla terza per motivi biografici, non avendo vissuto abbastanza a lungo. E anche perché il marxismo della sua epoca non possedeva, e non possiede neppure ora, una prospettiva “ecologica”, non assume cioè come metodo di analisi la questione del rapporto del capitalismo con la natura (Werlhof 1983a). Senza questo metodo non è possibile affrontare criticamente le conseguenze derivanti dalla espropriazione dei “mezzi di produzione” e nemmeno cogliere il senso dello “sviluppo delle forze produttive” (Davis 2004). Quanto alla prima questione, essa venne sollevata dalla Luxemburg che nel tentativo di dare una risposta rilevò che nelle colonie si fosse in presenza di una sorta di “prosecuzione” dell’accumulazione originaria e si interrogò sulle conseguenze per la riproduzione del capitale. Nello stesso tempo però sostenne, sulla scia di Marx, che si era di fronte a una forma pre-capitalistica dell’accumulazione, in particolare per quello che riguardava i rapporti di lavoro e di produzione, accompagnati da metodi coercitivi diretti, diversi da quelli indiretti tipici della moderna produzione di merci attraverso il lavoro salariato.
Rosa Luxemburg ha colto la “continuazione” dell’accumulazione originaria in atto nelle colonie, ma l’ha interpretata come uno sfasamento temporale, come una diffusione a livello planetario del processo che si era diffuso in Europa.
Ma non ha inteso la continuazione di tale forma di accumulazione in termini di genuino fenomeno capitalistico, come elemento perfettamente coerente con la logica dell’accumulazione. Ecco il problema centrale davanti al quale la Luxemburg si è arrestata.
Per le medesime ragioni la Luxemburg non ha riconosciuto il fenomeno dell’accumulazione originaria “continuata” in settori diversi da quello agrario, e soprattutto non ha saputo riconoscerne e distinguerne tutte le altre forme. Ma dopo due generazioni questo è stato possibile: comprendere che le forme in cui l’accumulazione originaria è continuata erano e sono da considerare un fenomeno tipico e generale del modo di produrre e accumulare capitalistico – che forse sono la caratteristica fondamentale di questa logica.
Questo radicale cambiamento di prospettive fu causato dall’analisi del lavoro femminile in connessione con l’analisi del lavoro dei contadini nel capitalismo.
È in gioco il problema del rapporto non mediato con la natura in generale, e la sua trasformazione in capitale, cioè il cosiddetto “sviluppo delle forze produttive” prima di assumere la forma della industria, quindi per così dire dopo la natura. In altre parole, siamo di fronte al nodo del rapporto di dipendenza del capitale dalla natura in generale e dai produttori che lavorano in stretto contatto con la natura in particolare; essi continuano a esistere fino a quando verrà raggiunto il grado di sviluppo delle forze di produzione che permetterà di affrancarsi dalla natura e da ogni suo cosiddetto “limite”.
Accanto allo sfruttamento del sottosuolo, come per esempio le miniere, le attività di estrazione di petrolio e di gas, sono da annoverare soprattutto due settori: quello agrario, che attiene alla produzione di cibo, e quello femminile, che attiene al parto e all’allevamento dei figli a beneficio della forza-lavoro. Per Marx la “legge demografica” o “principio della popolazione” è niente meno che la “legge dell’accumulazione capitalista” (Marx 1974b), poiché sullo sfruttamento della forza-lavoro viva è basato per Marx tutto il processo di formazione del capitale. Senza gli uomini e senza il cibo neanche il capitalismo è in grado di vivere. Quindi occorre analizzare il rapporto passato e presente del capitale con la natura nel senso di terra e con il corpo femminile.
Così, nella nuova analisi critica del capitalismo, la questione della donna e della maternità va ad occupare un posto centrale, accanto alla questione dei contadini e della agricoltura. Un tema che né Marx né Rosa Luxemburg avevano preso in esame.
Marx aveva identificato la contraddizione tra “Monsieur Le Capital e Madame La Nature”. Ma, al pari di quasi tutti i pensatori fino ad oggi, la questione femminile rimase fuori dalle sue analisi dei modi di produzione capitalistica vista nella prospettiva di una produzione umana capitalistica “necessaria” e quindi da perseguire.
A sua volta, Rosa Luxemburg si disinteressò della questione femminile, anche se naturalmente il movimento delle donne socialiste era già nato (Zetkin 1889). Ora come in passato il movimento non si occupa criticamente della questione del capitalismo come modo di accumulazione e produzione, e nemmeno della “produzione umana”, delle condizioni di lavoro non salariato, della partecipazione delle donne (Werlhof 1983c). Quello che invece in primo luogo premeva al movimento delle donne socialiste e alle donne che in seguito ad esso si ispirarono, erano i diritti delle lavoratrici salariate e la loro integrazione nel “proletariato” in quanto ritenuto l’unica classe sociale “produttiva” e l’unico movimento “rivoluzionario”. Va però rilevato che Rosa Luxemburg, con la sua tesi sulla “spontaneità delle masse”, ha dato un’impostazione politica più orientata verso le donne, in coincidenza con i primi moti di ribellione e rivoluzionari quasi sempre promossi su iniziativa di donne (Federici 2012). La discussione – a proposito della spontaneità – sulle conseguenze derivanti dal fatto che in un secondo momento la “leadership” sia stata assunta da uomini, lascia trasparire come Rosa Luxemburg fosse vicina alla questione femminile con uno sguardo politico – e tuttavia non economico o teorico (Neusüß 1992).
È stata soprattutto la questione femminile la spinta che, due generazioni dopo Rosa Luxemburg, e riallacciandoci al suo pensiero e alla sua ricerca di una spiegazione per le forme reali della riproduzione del capitale, ci ha condotto sulla strada della analisi critica.
Solo verso la fine degli anni Sessanta il rinnovato movimento delle donne ha riproposto le questioni che erano state trascurate in quanto considerate retaggi pre-capitalistici e dunque in via di estinzione. Si trattava soprattutto della questione del lavoro domestico, emersa in relazione con la questione sulla violenza e la maternità. Venne però elaborata sulla scia di un’analisi di più ampio respiro sui modi di produzione capitalistici e non delle questioni poste sul tappeto dal movimento femminile, quali “donna e famiglia” oppure “donna e società”, del resto affrontate senza tener conto delle premesse e delle conseguenze capitalistiche.
Ora il lavoro domestico divenne un tema cruciale. Bisognava riflettere se esso sia da annoverare tra gli elementi costitutivi dei “rapporti di produzione”, se contribuisca alla accumulazione capitalistica – primitiva, originaria continuata o di altro genere – ma anche analizzare il nesso tra lavoro domestico e “sviluppo delle forze di produzione”. Emersero quindi i seguenti quesiti:
– Quale interpretazione dare del fatto che le donne, nel bel mezzo del capitalismo e del regime a lavoro salariale, abbiano svolto, sempre e ininterrottamente, soprattutto un lavoro non retribuito, in gran parte come lavoro domestico ma anche al di fuori di esso?
– Perché hanno svolto questo lavoro con metodi “ancora” preindustriali, benché tali metodi stessero mano a mano esaurendosi, e cosa significa appunto l’industrializzazione progressiva o meglio la commercializzazione e “capitalizzazione” del lavoro domestico e la mancata trasformazione in lavoro salariale e in una industria pubblica?
– Per chi o per cosa le donne hanno prestato la loro opera? C’è un legame con l’accumulazione capitalistica? Era un lavoro non indispensabile oppure “necessario”, e per quale ragione? Il lavoro domestico era un retaggio “feudale” o invece la base umana e fisica, in senso letterale del termine, di ogni accumulazione capitalistica?
– Cosa significa che le donne siano sempre state oggetto di violenza e/o minacce in vastissime proporzioni che solo con ritardo sono state rese pubbliche? Tali violenze costituivano forse il “segreto” della sfera domestica?
– E come si è arrivati storicamente a questo, sapendo che per le donne la condizione non è sempre stata così e che il lavoro domestico è un’invenzione dei tempi moderni?
– Qual è il nesso tra questa condizione e il dato naturale per cui solo le donne possono procreare, con la conseguenza che esse sono preposte alla “produzione” e alla riproduzione della forza lavoro nel capitalismo? Qual è il rapporto sociale e naturale che in generale contraddistingue la loro condizione?
– Cosa è accaduto al lavoro procreativo e materno da quando ha dovuto confrontarsi col processo della crescente industrializzazione e con la trasformazione in una “ri-produzione umana” diretta capitalistica?
– Come ha inciso e incide tale processo sul lavoro domestico stesso, ma anche sul lavoro extra-domestico e sul rapporto tra sfera privata e pubblica, famiglia e società, generazioni e sessi, nonché sul rapporto naturale tra i protagonisti? Quali tendenze sono nel frattempo emerse? Il lavoro salariale delle donne/madri è rimasto “casalingo” e non si è trasformato in un lavoro salariato “regolare”.
– Cosa significa oggi la “liberazione” della omosessualità dal e/o dal disprezzo? Sta forse volgendo alla fine lo stato unico e singolare della moderna famiglia mononucleare, costruita con criteri eterosessuali perché predisposta alla riproduzione umana, e stanno emergendo nuove forme di convivenza famigliare, si stanno ridefinendo i generi sessuali e i ruoli materni e paterni al di fuori e al di là dei figli generati insieme, al di là di ogni status naturale? Forse lo sviluppo delle forze produttive nella sfera della ri-produzione umana va in direzione di una progressiva “sostituzione” della madre – e del genere sessuale come veniva comunemente inteso finora?
Concludendo: nel disegno politico del capitale, quale ruolo riveste e ha rivestito la riproduzione della forza-lavoro e la generazione successiva di forza-lavoro? E' cambiato qualcosa? Per esempio, le barriere del privato sono cadute; esso viene commercializzato, industrializzato e “occupato” a causa della trasformazione di ogni servizio alla persona in prestazioni gestite coi criteri del profitto all’interno del neoliberalismo (GATS). Un altro esempio è l’impoverimento di madri e figli, la precarizzazione della loro condizione, lo smantellamento dello stato sociale e il sempre più esteso disfacimento della famiglia mononucleare. Anche al Nord il capitale non sembra più interessato a una buona e sicura riproduzione della forza-lavoro?
Nel rispondere a queste domande ci hanno fatto da guida le analisi sul capitale inteso come processo storico anziché come mera “struttura” data come presupposta. Si è delineato così un parallelo con il destino dei contadini e relativa accumulazione primitiva continuata. Sono però emerse anche notevoli differenze.
Quando iniziammo, eravamo ancora nel secondo dopoguerra, le crisi erano di là da venire ed era in corso la piena ricostruzione dell’economia capitalistica dell’Occidente, considerato la patria di valori quali i diritti umani, la democrazia, il progresso, il benessere e la libertà per universale. Ma sembrava che per le donne il campo d’efficacia fosse ridotto. Perché lo era, cosa significava, come è andata a finire?
In Germania il nuovo movimento delle donne cominciò ad organizzarsi a partire dai moti studenteschi del 1968. A differenza della maggior parte delle femministe attive in quell’epoca, noi eravamo state nel “terzo mondo”, come allora veniva chiamato, dove avevamo trascorso lunghi periodi della nostra vita e condotto i nostri studi e le nostre ricerche. Quando dico noi, intendo Maria Mies, che visse in India, Veronika Bernholdt-Thomsen, che fu in Messico, ed io, che fui più a sud in America Latina e successivamente in Venezuela. Ci rendemmo conto che non esistevano i “tre mondi” di cui si parlava allora, uno capitalistico, uno socialista e uno “ancora feudale”, bensì un unico mondo da considerare nella sua globalità, secondo una posizione di pensiero che già Rosa Luxemburg aveva abbozzato. La “questione coloniale” divenne così la questione sul sistema in sé e per sé, dove il “Sud”, quello attuale, non è un mondo a parte il cui futuro sarebbe condizionato dal “Nord” e dallo “sviluppo” raggiunto da quest’ultimo. Al contrario, era evidente che il “Sud” rappresentava la parte “inferiore” del sistema globale, la sua “periferia”. Ragion per cui quello che succedeva nel Sud era tanto capitalistico quanto quello che succedeva nel Nord e contribuiva in generale alla accumulazione. Discorso valido anche per il socialismo, il cosiddetto “secondo mondo”, che si presumeva inserito in un processo di “sviluppo ritardato ma in fase di recupero” e giunto a uno stadio più avanzato rispetto al “terzo mondo”.
Dal punto di vista dei processi di accumulazione primitiva e la loro evoluzione questo poteva essere interpretato in un solo modo: un’accumulazione capitalistica “autentica” ai vertici del sistema, cioè nel Nord, era possibile soltanto grazie alla accumulazione primitiva continuata in atto nel Sud.
In corso di ottenimento dei dati derivanti dalla nostra tesi sul “mondo unico” ci siamo scontrati con la sinistra che si rifiutava di vedere nel socialismo una “parte costitutiva” di quel mondo capitalistico e non una sua alternativa. Ma assumere come base per un’analisi sistematica categorie come contadini, donne, natura e colonie non andava a genio alla sinistra, poiché continuava a vedere solo fabbriche e proletariato e considerava tutto il resto retaggi del feudalesimo che presto sarebbero scomparsi e che comunque non avrebbero nulla a che vedere con l’accumulazione capitalistica a causa della loro supposta “improduttività”.
Gettando oggi uno sguardo al passato mi accorgo di nuovo di come non solo la sinistra fosse cieca, ma anche brutalmente superficiale sul tema della pronosticata “estinzione” della natura e con essa dei produttori e delle produttrici che vi lavorano. Infatti, dal punto di vista dello “sviluppo delle forze di produzione” una simile estinzione non poteva non verificarsi, e la trasformazione di tutta la natura in capitale veniva auspicata e attesa in un futuro prossimo – e con essa il compimento dell’accumulazione originaria. Tradotto, significava che i contadini sarebbero diventati lavoratori salariati dell’industria, l’agricoltura una grande fabbrica agraria, il lavoro domestico e l’allevamento dei figli un’impresa industriale collettiva. Ma non si parlava ancora di industrializzare la procreazione umana.
E davvero processi siffatti si verificano con una crudeltà insospettata, con una forza distruttiva che travalica ogni confine e con vere e proprie guerre a livello globale. Eppure: tutto ciò non porta al risultato previsto e pianificato – e nemmeno al compiersi dell’accumulazione originaria, o al suo superamento fino al “brave new world”! (Werlhof 1991) È vero esattamente il contrario. Ecco perché oggi la sinistra non sa più che pesci pigliare, non si esprime sulla follia della globalizzazione, del neoliberismo e della guerra (Mies 2004, Mies/Werlhof 1998, Werlhof 2007, Chossudovsy 2012, 2015), sulla nuova fase di saccheggio in atto su scala mondiale secondo il modello di un’accumulazione originaria definitiva, in cui sono del tutto assenti gli effetti collaterali positivi “pronosticati”. La sinistra non sa spiegarsi la realtà di una morte e di una miseria massificate, poiché è una realtà completamente diversa dal modello di progresso del sistema capitalistico – e cosa fa la sinistra? Distoglie lo sguardo.
Veronica ed io a Bielefeld, Maria a Colonia, quando ci siamo imbattute in Rosa Luxemburg non fu per il tramite della questione femminile, ma di quella coloniale e dei contadini. Tuttavia, ai miei occhi, dopo la mia tesi su “Lo sviluppo del sotto-sviluppo” in America Centrale (Werlhof 1975), la questione femminile era diventata la cifra per capire la “logica” che Rosa Luxemburg non aveva ancora riconosciuto. Infatti, era lampante che le donne più ancora dei contadini dovevano restare a disposizione del sistema in modo “assoluto”, permanente, senza mediazioni, insieme e accanto ai lavoratori salariati, fungendo per così dire da “terreno” per il proletariato, e al contempo da loro “contadino”. In caso contrario, la riproduzione di forza-lavoro sarebbe venuta a mancare o sarebbe risultata del tutto insufficiente. La logica del capitale consisteva dunque nell’integrare le donne nel sistema in un modo tale che esse continuassero a svolgere i loro “compiti” senza acquistare potere alcuno, e nel privarle della possibilità di organizzarsi in forme di resistenza. Infatti, erano depositarie di un monopolio che nel capitalismo solo il capitale ha il permesso di avere, dal quale dipende a meno che non riesca ad appropriarsene. Questo monopolio è tuttora quello della capacità di procreazione delle donne, una forza creativa che proviene dalla natura ed è legata al loro corpo, dall’uso del quale tutto dipende. Così le donne sono potenzialmente “pericolose” e fu necessario cercare di togliere a loro questo potere, evitando al contempo che le donne smettessero di praticare la procreazione; quindi occorreva raggiungere una forma per cui la “funzione” si svolgesse a uso e consumo del capitale e fosse finalizzata alla riproduzione delle forze produttive. La soluzione fu l’istituzione della casalinga, il suo isolamento sociale, il suo depotenziamento e la messa a punto di un lavoro casalingo sotto forma di accumulazione originaria continuata.
Il monopolio della procreazione da parte delle donne riguarda il loro corpo, quindi una forza della natura di cui solo loro fruiscono. L’analogia con la situazione del contadino era evidente. Quello che per il contadino è la terra, per la donna è il proprio corpo. E come il contadino non poteva essere realmente, ossia letteralmente, separato dalla terra se doveva procurare il sostentamento alimentare, allo stesso modo la donna non poteva essere separata dal corpo se questo doveva produrre individui umani. Ergo: il processo dell’accumulazione primitiva non era realizzabile nel caso dei contadini, e tanto meno lo era nel caso delle donne in quanto produttrici in stretto contatto con la natura, il cui prodotto era indispensabile per la società e l’accumulazione capitalistica. E così, nell’era dell’accumulazione primitiva “classica”, le donne furono espropriate, interdette dal disporre autonomamente del loro corpo, come i contadini della terra, ma senza fisicamente separarle dal corpo. Il corpo restò in loro “possesso”, ma senza esserne le “padrone”, senza cioè poter decidere che uso farne. La separazione tra i produttori e le produttrici e i mezzi di produzione, l’accumulazione originaria in sé e per sé, non era perfetta, perché se lo fosse stato, non ci sarebbero stati più uomini e donne, o, nel caso dei contadini, non ci sarebbe più stato cibo. I contadini si sarebbero estinti, le donne sarebbero morte.
Ci fu un periodo, nei secoli della cosiddetta caccia alle streghe, tra il ‘400 e il ‘700, in cui questo si verificò davvero in Europa e persino nei paesi coloniali (Federici 2012). Un periodo che, riferendoci alle donne, interpretiamo come una fase della accumulazione originaria, dove le donne vennero espropriate di tutto, anche della loro stessa vita. Ma è anche una messa a punto, un adattamento violento delle donne a beneficio del capitale (Mies, 1988). Quando la forma dell’accumulazione originaria delle donne, la caccia alle streghe, terminò e si pose fine all’uccisione di centinaia di donne, subentrò la fase dell’accumulazione originaria continuata, quindi si passò “dalla strega alla casalinga” (Werlhof 1983b). Ora le donne venivano lasciate in vita, ma “con la condizionale”. Erano ancora insostituibili, almeno fino a quando non si sarebbe trovato un qualche rimpiazzo “tecnico”. È quindi nell’ordine logico delle cose la violenza che continua ad abbattersi sulle donne. Il capitale non può fare a meno di attuare a ogni nuova generazione di donne la “separazione” dal loro corpo, di frapporsi tra la “facoltà” di disporre del proprio corpo e la donna, e nello stesso tempo anche di mettere le donne a servizio di questo stesso corpo in modo proficuo – e tutto sotto il segno della gratuità.
Siamo di fronte a forme diversamente declinate dell’accumulazione originaria inventate dal capitale grazie alle quali poteva lasciare le terre ai contadini (e ad altri coltivatori del settore agrario) e i corpi alle donne, senza per questo “correre alcun rischio”.
A questo punto, studiando le teorie luxemburghiane sull’accumulazione originaria “continuata”, compresi che c’era un nesso tra la questione delle donne e quella dei contadini e, più in generale, ne intuii l’importanza per l’analisi del capitalismo nel suo insieme. Non dimenticherò mai questo momento. Fu come la fatidica folgorazione che apre nuove prospettive di pensiero. Il concetto di “accumulazione originaria progressiva” o “continuata” fungeva da strumento perfetto per scoprire un processo logico. Negli studi analitici sul capitale questo elemento era assente. Il nuovo concetto permetteva poi di spiegare tutta una serie di fenomeni rimasti insoluti, per esempio l’inversione di rotta della civiltà moderna che contro ogni previsione e auspicio si è trasformata nel suo contrario, e infine la “crisi”, oggi tangibile, epilogo di questo processo!
In particolare: i contadini
Abbiamo visto come la separazione dei produttori agrari dai loro mezzi di produzione, la terra, non poté essere attuata fino in fondo per il semplice motivo che non ci sarebbe più stato cibo per sfamarsi. All’accumulazione originaria fu gioco-forza rimanere incompiuta fino al momento in cui non fosse possibile garantire il cibo senza i contadini, senza il loro lavoro con la terra, o quantomeno senza il possesso da parte dei contadini della terra. Questa è la ragione per cui anche nei paesi “avanzati” si sono sempre riaffacciati i piccoli produttori agricoli, anche dopo il riscatto delle terre, per esempio in seguito a riforme agrarie, quando la terra divenne proprietà di terzi ma rimase a disposizione dei coltivatori diretti (fattori, mezzadri, altre forme di contratto agrario), quindi non si ebbe mai una “reale” e integrale separazione (Werlhof 1985). I collettivi agrari di grandi dimensioni e i latifondi sono sempre stati affiancati da piccole aziende a conduzione familiare, che il socialismo considerava appartenenti al settore “privato; nelle piantagioni esse servivano al sostentamento degli schiavi (Reddock 1979) e in generale anche oggi vengono considerate un’alternativa alquanto produttiva (Shiva 2004).
Le monocolture delle grandi aziende agricole, condotte con metodi industriali e con il massiccio impiego di prodotti chimici, stanno però per uccidere la terra, la base naturale. In altri termini, il settore agrario non giova all’accumulazione originaria, alla trasformazione “totale” in capitale, benché oggi la “tecnica” permetterebbe tale trasformazione in perfetta sintonia con il grado di sviluppo raggiunto dalle forze di produzione. Ormai si crede di poter fare a meno della terra, solo che essa è ancora il terreno imprescindibile per la crescita delle piante. Colture ibride sono però in grado di svilupparsi senza alcun bisogno di terra.
Le future grandi carestie sono già state pianificate poiché il suolo si è trasformato in una zona “morta” sulla quale crescono piante geneticamente manipolate che hanno bisogno di essere “nutrite artificialmente”, come in un reparto di terapia intensiva. Ovunque il ciclo dalla terra alla pianta al cosmo è stato interrotto, dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, come dimostrano le serre per la floricoltura in Olanda o in Etiopia – dove le piante vengono per così dire sepolte vive e per questo non emanano più profumo; anche il cibo uscito dall’industria agroalimentare non ha più alcun gusto riconoscibile.
L’esempio è utile per capire come al capitalismo non stia a cuore il soddisfacimento dei bisogni delle masse, secondo quanto sostengono i propagandisti di destra e di sinistra. Il capitalismo è interessato al soddisfacimento dei bisogni delle masse di capitale accumulato che sono alla ricerca di una valorizzazione proficua, perché altrimenti si dileguano, per parafrasare Marx a proposito del capitale liquido. Così si agisce in base a ciò che in quel momento garantisce un profitto, anche se a lungo andare il fondamento di questa forma di accumulazione verrà distrutto, come verrà irrimediabilmente e concretamente distrutta la vita stessa. E la ragione di questo sta nel fatto che l’accumulazione originaria, unendosi alle forze di produzione avanzate, si perfeziona fino al proprio compimento. Ciò che sta avanzando come progresso comporta la distruzione della natura. Ora, questo nesso viene negato. Eppure attualmente si rinuncia anche a quel “surplus” che ci viene dalla natura, quando si lavora in cooperazione con essa, come dimostrano i coltivatori diretti su piccola scala e gli agricoltori biologici (Shiva 2004, Werlhof 1985b). Infatti, di fronte a un’industria agraria avanzata e alle sue diramazioni su scala mondiale, dalla “rivoluzione verde” agli “OGM”, non si fanno molti affari con la lavorazione “non violenta” e “amorevole” della terra, della quale “cantare le lodi” (Werlhof ib.).
La piccola azienda agricola viene eliminata con il risultato che in vaste zone della terra il cibo viene a mancare. Fino a poco tempo fa in Africa la popolazione veniva sfamata per l’80% dalle coltivatrici dirette (Imfeld 1985).
Questo significa che fino a poco tempo fa l’accumulazione originaria era incompleta e che i contadini/farmers non erano del tutto affrancati dai mezzi di produzione, nonostante fossero all’interno del capitalismo, e quindi non costituivano una forza-lavoro da offrire sul mercato libero del lavoro. Uno stato di latente “servitù”, di mancanza di libertà, del sia sia e del né né, ha caratterizzato questo stato di cose fino a ieri, dimostrando che la fase dell’accumulazione originaria non si era conclusa ma si era propagata in varie forme in tutto il mondo.
Solo oggi essa si sta avvicinando alla sua fine, poiché è convinzione diffusa che tramite lo sviluppo allargato delle forze di produzione sia possibile una volta per tutte sbarazzarsi della natura, soprattutto della terra e dei contadini che la lavorano. Ma offrendo lavoro salariato che assorba tale forza-lavoro, la morte per fame che sta minacciando grandi masse di popolazione, è parte della pianificazione, come denuncia Jean Ziegler, che ne parla come di un assassinio di massa (Ziegler 2002).
Una carestia di così vasta portata supera tutte le carestie del passato (Davis 2004).
Accumulazione capitalistica e rapporti di produzione al di fuori del lavoro salariato
Era quindi necessario ridefinire il contributo dato dai contadini e dalle donne all’accumulazione, non inquadrandolo più in un sistema pre-capitalistico e/o in un sistema vigente in precedenza. L’accumulazione originaria continuata trovava una spiegazione solo se interpretata come un contributo costante e regolare alla accumulazione del capitale, come elemento costitutivo dell’accumulazione capitalistica in quanto tale. Il criterio da applicare riguardava la possibilità di rinunciare o meno a tale contributo costante. (Arbeitsgruppe Bielefelder Enwicklungssoziologie 1979).
La successiva scoperta teorica, che va imputata soprattutto alla mia collega di allora, Veronika Bennholdt-Thomsen, consisteva nel riconoscere caratteristiche capitalistiche nei rapporti di produzione che non sono organizzati nella forma del lavoro salariato. La Bennholdt-Thomsen li ha definiti “forme di sussunzione” del lavoro al capitale (Bennholdt-Thomsen 1982).
Il parallelismo è evidente. Contribuendo l’accumulazione originaria in modo progressivo all’accumulazione capitalistica, i produttori che la rendevano possibile dovevano essere dei produttori capitalistici, lavorare in condizioni di produzione capitalistica e appartenere alla “normale “classe” del modo di produzione capitalistica, a esclusione di quella dei proletari salariati. In questo modo il proletario quale soggetto principale della storia e della rivoluzione veniva deposto dal suo ruolo di protagonista, in compenso si ritrovò in compagnia di un numero smisurato di compagni e compagne di sventura.
L’intelligibilità di tale evidenza andava evitata e quindi furono intrapresi vari tentativi per neutralizzarla, ricorrendo al cosiddetto “incrociamento” di svariati modi di produzione, capitalistici e non, che hanno sollevato il cosiddetto “dibattito sui modi di produzione” (Elwert/Wong 1979). Il quadro intanto si faceva sempre più chiaro: schiavitù, servitù, lavoro forzato e rapporti di lavoro “equiparabili al lavoro casalingo”, cioè prestati gratuitamente, erano e sono capisaldi del capitalismo di ieri e di oggi e i più globalizzati in assoluto. Il lavoro a basso reddito, definito precario, ispirato al modello del lavoro della casalinga e applicato anche al lavoro degli uomini, ha da lungo tempo ormai superato per diffusione il cosiddetto “rapporto di lavoro a reddito normale” (Werlhof 1983b).
La ragione è semplice: un lavoro non retribuito comporta maggiore profitto. Se è possibile imporlo, si impone. La violenza necessaria a tal fine viene giustificata appellandosi alle qualità naturali dei produttori (razzismo, sessismo) o delle loro attività, alla loro “distanza” dal capitale.
Il lavoro non retribuito, che nel Sud è diffusissimo, non poteva più essere spiegato sostenendo la tesi della sua qualificazione pre-capitalistica o non-capitalistica. È indubbio che esso sia il risultato dell’integrazione delle ex-colonie nell’attuale sistema mondiale capitalistico. I rapporti di lavoro, dalla “marginalità” dei piccoli coltivatori fino ai “produttori di merci privi di salario” o “produttori a contratto” dipendenti dal credito, comprese le altre forme di produttori, dai “né lavoratori salariati né capitalisti” ai “sia produttori sia capitalisti”, erano da considerare “produttori capitalistici” e non più pre o non capitalistici (Werlhof 1985b, Bennholdt-Thomsen1982). Nella nostra prospettiva non era più sostenibile il concetto di lavoro salariato quale unico e vero lavoro capitalistico a favore dell’accumulazione.
Il tema si sostanzia ulteriormente esaminando il lavoro domestico, il quale forse contribuisce all’accumulazione in maniera più determinante del lavoro salariato. Il lavoro della casalinga non comporta nessun costo per il capitale, e nello stesso tempo senza di esso non sarebbe possibile il lavoro salariato e l’accumulazione che ne è un frutto. Tutti i settori “sedimentati” nell’accumulazione originaria progressiva giocavano un ruolo centrale da non sottovalutare. Il quadro che lentamente si delineava era quello di un capitalismo capovolto.
Il lavoro domestico
A buon diritto la questione femminile diventava centrale, categoricamente. Essa svela l’ideale cui tende il capitale: non essere più costretto a retribuire il lavoro, ottenerlo in via del tutto gratuita, e per soprammercato, coglierne il frutto nella forma di nuova e fresca manodopera. E davvero il lavoro casalingo è stato organizzato e assegnato alle donne soltanto con l’affacciarsi dell’epoca moderna. A tutte le donne. Ne va del “principio della popolazione”, che nel pensiero marxiano occupa un ruolo decisivo per l’accumulazione capitalistica. Poiché se non c’è il lavoratore, non c’è profitto e non c’è accumulazione. Purtroppo Marx non ha affrontato la questione da un punto di vista sociale e non ha stabilito un nesso con il lavoro. Lo stesso vale per Rosa Luxemburg.
Il lavoro della casalinga è un rapporto di produzione creato dal capitale stesso, finalizzato alla creazione e alla produzione di manodopera umana da immettere nel sistema del lavoro salariato, il quale a sua volta non è reso disponibile se manca lavoro casalingo.
Il lavoro non retribuito della casalinga è strettamente legato al lavoratore salariato, al quale è assoggettato e al quale deve servire su ordine del capitale.
Il lavoro casalingo è dunque un rapporto di produzione capitalistico sui generis. E non è sorto per caso. Quando il capitale si rese conto che il lavoro a basso reddito delle donne e dei bambini nelle fabbriche comportava un’insufficiente riproduzione di forza-lavoro e che la generazione successiva non copriva le sue esigenze, venne inventata la famiglia mononucleare, che divenne il luogo della riproduzione del lavoratore salariato, dove la casalinga fungeva da produttrice e riproduttrice (Werlhof et altri 1983).
Fu così che il lavoro in fabbrica venne “mascolinizzato”, le donne “femminilizzate” e relegate in casa a riprodurre manodopera. Il lavoro casalingo assurse a “condizione naturale” della donna, e questo nel momento stesso in cui la donna era stata predisposta, trasformata e approntata per essere sfruttata dal capitale. Il contributo della donna all’accumulazione è stato giustamente definito da Veronika come una “rendita femminile”, in analogia con la rendita fondiaria capitalista (Bernholdt-Thomsen/Werlhof 1978).
Questo lavoro deve essere conquistato per poter essere garantito. Qui sta la violenza, nella famiglia mononucleare e nel lavoro domestico, nella misura in cui devono cooperare col lavoratore salariato e padre di famiglia, con “colui che guadagna il pane”. Non sono ammesse inadempienze. Questo spiega anche perché la violenza per lungo tempo non fu contemplata dalla legge. Fondamentalmente era considerata e lo è ancora come un fenomeno “naturale”. Invece è una tipica componente di tutti i settori dell’accumulazione originaria e delle sue propagazioni.
Quindi il lavoro di casa si configura come un punto centrale nell’accumulazione originaria continuata, come componente fondamentale e consequenziale di ogni accumulazione capitalistica e non come modello storico archetipico. È stato appositamente creato quando si diffuse il lavoro salariato proletario e basta questo dato per capire come esso non abbia in sé nulla di pre-capitalistico. Ciò che potrebbe suggerire una sua connotazione pre-capitalistica sta nella essenza prettamente naturalistica, poiché è legato alla nascita, alla cura e all’allevamento di esseri umani, i quali escono dal loro stato naturale, o da quello che sembrava una sfera pre-capitalistica ma che da lungo tempo non è più tale, solo per diventare forza-lavoro.
Da questo momento le donne furono considerate in primo luogo come massaie, madri e mogli, indipendentemente dalla circostanza se svolgessero o meno anche un lavoro salariato. Abbiamo definito tale fenomeno “casalinghizzazione” (Mies e altri 1980, Werlhof 1993). Fuori dalle mura domestiche il salario della donna era di conseguenza molto basso, essendo viste soprattutto come casalinghe, mentre il lavoro extra-domestico era considerato un prolungamento di quello domestico. Inoltre, era necessario impedire alle donne di rendersi indipendenti dal lavoratore salariato. Così si spiega il reddito “casalinghizzato”, che generalmente corrisponde a un quarto fino a un terzo del salario che gli uomini ricevono per svolgere lo stesso lavoro. Non stupisce allora che il modello della casalinga moderna sia stato un articolo esportato con successo in tutto il mondo (Bennholdt-Thomsen 1984).
Una volta compreso il lavoro domestico, comprendiamo l’economia – questa la conclusione che ne traggo (Werlhof 1983b). Tutto il sistema andava interpretato sotto la lente di tale rapporto di produzione, il lavoro della casalinga, che si asserisce essere pre-capitalistico oppure non capitalistico; bisognava ragionare a partire per così dire dal fondo del barile. La natura da sola non produce un uomo bell’e pronto, e tanto meno un lavoratore salariato. Per ottenerlo, occorre un lavoro continuativo, svolto – finora – in un luogo diverso dalla fabbrica.
Questo stato di cose è cambiato ed è ancora in via di cambiamento.
Il fenomeno dell’accumulazione originaria si presenta ogni volta che è necessario separare i produttori e le produttrici dai loro mezzi di produzione – risorse naturali, utensili, proprietà, diritto d’uso o capitale – al fine di permettere ad altri di usufruirne, e in questo senso le vicende che riguardano il corpo femminile forniscono un modello esemplare e particolarmente attuale. Il traguardo di una accumulazione non più soltanto progressiva, ma anche originaria, diventa sempre più vicino. Si ha l’impressione che il capitale voglia separare letteralmente e definitivamente le donne dal loro corpo, e lo fa davvero con la messa a punto di modernissime tecnologie prenatali, natali e postnatali, senza però rinunciare alla creazione di nuova vita umana. Si sta tentando di abolire la madre, nel senso letterale del termine, in sostituzione della quale è nata un’industria procreativa?, si pensi alla “artificial life” o alle “life industries”, attive anche in ambiti non strettamente attinenti la vita umana (Werlhof 2010). Solo l’ovulo femminile non è stato ancora riprodotto artificialmente, ma pare che sia in corso di costruzione un utero artificiale; sarà quindi possibile procedere a una ectogenesi, a una produzione di esemplari umani fuori dal grembo materno (Klein 2008). Le tecniche genetiche e procreative, la fecondazione assistita, la FIVET, la surrogazione di maternità, l’uso di organi appartenenti a varie persone, tutto ciò si sta materializzando in una vera e propria industria globale, che, al pari di una macchina, pratica la medicalizzazione della procreazione umana (Klein 2008, Mies 1992, Werlhof 2015, Huxley 1932).
È ancora all’opera l’accumulazione originaria progressiva che separa le donne da parti del loro corpo, e lo stesso vale per la violenza che è stata ulteriormente perfezionata attraverso manipolazioni ed istituzioni esterne (medici, industria farmaceutica, medicina, giustizia), assumendo via via forme grottesche per non dire spettrali. Il corpo umano viene scomposto nelle sue parti per rimontarle altrove, un sistema paragonabile al “trapianto d’organi” (Bergmann 2000). La maternità viene letteralmente smontata e trasformata in una fabbrica in cui i pezzi provenienti da varie madri vengono ricomposti. Vengono distrutti legami, ciclicità e integrità, le qualità intrinseche di un processo naturale quale quello della nascita.
In tutto il mondo le donne subiscono atti di estorsione da parte di un apparato fatto di maternità surrogata, utero in affitto e tecniche di procreazione assistita, facendo passare la maternità normale come una faccenda “antidiluviana”. Il progresso tecnico ci bombarda con propagande molto aggressive proprio in questo ambito, presentandosi come “servizio” alle donne bisognose. Nella campagna “di modernizzazione” della maternità rientra anche una politica di separazione tra le generazioni, soprattutto tra madri e figli.
Si mira evidentemente all’abolizione della madre, a compiere fino in fondo la “separazione” tra le donne e la loro capacità di procreare. Si sta perpetrando un grandioso matricidio. Viene schernito e fatto a pezzi il “numinoso” delle donne e delle madri, quello che finora era l’elemento miracoloso e misterioso della loro forza creativa. Sorprende che gli attuali movimenti delle donne e le madri non ab biano compreso in tutta la sua portata quanto sta accadendo. Si ha l’impressione che non siano più in grado di capire il nesso che lega il loro corpo alla madre terra, o addirittura che ci abbiano rinunciato.
La separazione della madre dalla società viene portata avanti anche attraverso l’abolizione delle categorie di identità sessuale; l’omosessualità si propaga, si parla già di un “trans-umanesimo” della nuova persona umana (Schirrmacher 2001). Tutto viene etichettato come progressista, come il concetto di “gender” che vorrebbe veicolare verso una nuova donna “sessualmente neutra”, la cui integrazione sociale è lontana da valori come famiglia, lavoro domestico e “natura”.
La curva discendente segnata dal lavoro casalingo, inteso come attività con e per le persone e la loro vita, si può misurare bene attraverso il concetto di “lavoro ombra” di Ivan Illich (Illich 1982). Con il lavoro privato svolto gratuitamente dalle donne/partner a favore e ad integrazione di quello salariato, l’elemento vitale viene lasciato cadere e sta per sparire. Alla “riproduzione” della vita è rimasto poco spazio, la sua naturalezza viene contestata con toni sempre più accesi, essa viene manipolata, scalzata, frammentata e persa di vista – è quello che succede in generale con lo “sviluppo” delle forze di produzione. L’accumulazione originaria, nel suo significato più genuino, è entrata nella vita quotidiana ed ecco la separazione delle donne dai loro figli, ecco la miseria che avvolge le une e gli altri (Tazi-Preve 2004).
Significa che il capitale sta rinunciando al particolare “input” del lavoro domestico fornito da manodopera e persone in carne e ossa solo perché sa di poterle sostituire in un prossimo futuro e/o perché non ne ha più bisogno in grande quantità? La “legge demografica”, o “principio della popolazione”, ha esaurito i suoi compiti? La forza lavoro viva viene sostituita gradualmente da macchine? Oppure conta sulla presenza di manodopera proveniente dal Sud o attiva nel Sud, la cui ri-produzione si realizza altrove o con altri mezzi? Il capitale ricorre all’accumulazione originaria per le persone del Sud in grado di lavorare e le separa dalla loro patria? I flussi migratori provocati scientemente dalle azioni di guerra avviate dalla politica occidentale (Chossudovsky 2015) inducono a pensarlo. Più di un aspetto accomuna questi flussi a quelli dell’epoca schiavistica. Solo che allora queste persone non andavano verso l’Europa.
Il sistema globale si sta ammalando, è ormai agli sgoccioli quanto a risorse, espansione e accumulazione, o forse è addirittura in fase di implosione, e quindi non deve più assecondare il “principio demografico”? È vero il contrario. La riproduzione non è più sotto l’alto auspicio del sistema. La “sovrappopolazione relativa” marxiana sembra ormai una sovrappopolazione assoluta, sulla quale si riversano disoccupazione e penuria di mezzi di produzione.
Capitale e rapporto con la natura
Per Marx il capitale è il risultato della trasformazione della natura in merce, macchinari, moneta e “comando”. Quindi natura è ciò che ancora non è stato trasformato in capitale. Tuttavia non è possibile togliere alla donna e al contadino tutta la natura, il corpo e il suolo, altrimenti non sarebbe ricavabile qualcosa di trasformabile in capitale – a meno che non sia stata attuata con successo una “capitalizzazione” duratura di terra e corpo. Fintanto che uomini e cibo sono necessari al disegno del capitale, alla sua accumulazione, non è possibile fare a meno dei contadini e delle donne/madri. La loro organizzazione del lavoro sul terreno della società, sulle sue basi naturali, rappresenta l’accumulazione originaria progressiva, che in via di principio corrisponde a quella storica originaria, poiché le problematiche sono le stesse. La domanda che sorge è allora: come arriva il capitale a intaccare le basi e le risorse naturali dalle quali intende generarsi e riprodursi, e quali misure adotta per mettere in moto tale processo di trasformazione? Il capitale usa la violenza, la guerra, la coercizione diretta, senza risarcire; in breve, il capitale rapina. Ai produttori, degradati fino allo stato di natura, perché non “valorizzati” dal proprio lavoro, non occorre più corrispondere un salario e sulla scala della considerazione sono pari a zero, come lo è anche la natura. E non basta, coloro i quali traggono il loro lavoro dalla natura non sono più nemmeno considerati “soggetti”!
Sono oggetti della natura a cui non si accordano diritti umani né partecipazione alla vita civile, e la tanto propagandata civilizzazione non li riguarda. La natura costa poco, anzi è gratis (Werlhof 1983a). Quanto più vicini alla natura, tanto meglio, secondo gli ideali del capitalismo. La giustificazione per la distruzione della natura mediante la trasformazione in capitale, così come la discriminazione in base alla razza e al sesso, sono fenomeni “necessari” a cui la modernità non può rinunciare. Permettono la retrocessione di persone al livello della natura, le si taccia di primitività, ricacciandole al livello dello schiavo, in stati supposti “animali”, vittime della mancanza di diritti e della estinzione. La guerra ne è l’esempio più eclatante, a cominciare da quella coloniale. Si mira alla disunione tra l’uomo e il suo “essere creatura umana” e/o essere persona vivente, cioè forza lavoro, dalla sua stessa vita. Tali “barbarie” sono invenzioni della civiltà moderna e nient’ affatto il substrato da cui la civiltà si sarebbe “innalzata”.
L’accumulazione originaria continuata si traduce nel rubare ai “produttori naturali” i beni da loro creati, “materie prime”, esseri umani e cibo, ma anche e soprattutto conoscenze, capacità, valori e tecniche. Un esempio: “brevettare la vita”(Mies 1996), che oggi assume la forma degli accordi TRIPs della Organizzazione mondiale del commercio. O ancora, nel settore minerario sono gli accordi sulla “estrazione”. Una separazione totale tra questi produttori e produttrici dai loro “mezzi di produzione”, il compiersi cioè dell’accumulazione originaria non si avvererà fino a quando non se ne potrà fare del tutto a meno, fino a quando la natura e ciò che da essa viene ricavato o da essa viene trasformato in capitale, non è ottenibile con altri mezzi o a costi bassissimi.
Il traguardo è il “superamento” della natura attraverso gli strumenti della tecnologia, oppure la sua sostituzione col capitale, per potersene così disfare definitivamente. Questa totale accumulazione originaria, questa separazione dalla natura, è il sogno utopico del capitale e dello sviluppo delle sue forze di produzione. Ora il problema consiste nel fatto che la natura, di cui più che mai si continua ad avere bisogno, viene depredata, distrutta fino a quando collasserà, lascerà la terra e precipiterà nel nulla (Wright 2006).
Dove non c’è natura, non c’è accumulazione originaria e nemmeno la sua propagazione. Significherebbe la fine del capitale. Per questo motivo oggi siamo davvero dentro la “crisi”, con risorse che stanno diminuendo, che non sono riproducibili e non ne possediamo i surrogati. E in definitiva, è difficile riportare al suo stato naturale la natura trasformata in capitale. Siamo in un vicolo cieco.
Chiamare in causa la questione sul rapporto con la natura ebbe come conseguenza, oltre alla ridefinizione dei rapporti di produzione e accumulazione, anche un totale ripensamento del capitalismo come modo di produzione tout court; Maria ricorreva sempre al suo “modello dell’iceberg” per dimostrarlo (Mies 2008), chiarendo come, dalla prospettiva della natura, si doveva porre di nuovo, ridefinendola, la questione sul significato innegabilmente centrale dello sviluppo delle forze produttive, che si sono rivelate estremamente distruttive. Il tema era tabù. Eppure non era possibile nessun avvicinamento alla natura senza queste “forze produttive”.
Il patriarcato
Non volevamo né potevamo escludere dalle nostre analisi il patriarcato come invece succede quasi sempre perfino in Scheidler (Scheidler 2015). La sua realtà era evidente e così abbiamo cominciato a parlare di “patriarcato capitalistico” (Mies 1988). Nell’epoca moderna si riserva un trattamento così negativo alle donne quali detentrici di cultura, madri, forza lavoro, esseri sessuati, che ci rifiutammo di derubricare tale trattamento a categorie come “natura” o “naturalezza”, come si fa in genere, sempre che il tema venga sollevato, cosa che accade raramente. Così molte donne sono davvero convinte che il loro problema sia la natura, che la “dotazione naturale” che si ritrovano ad avere con il loro corpo e con la loro appartenenza al genere femminile, sia l’ostacolo per una parità di trattamento. Sulla scia del canone patriarcale e capitalistico finalizzato al superamento e al controllo della natura, le donne ora si battono per uscire anche a livello personale dalla natura. Il movimento prende il nome di “gender” – non più movimento delle donne – e propone di tagliare qualsiasi legame con i presupposti naturali (Butler 1991), anticipando in questo ambito l’accumulazione originaria “progressiva” se non addirittura totale. I fedeli del progresso e della modernizzazione non accettano l’obiezione che qui non sia in gioco la natura, ma che si tratti dei rapporti della società con la natura e del modo in cui viene manipolata. Da una visione patriarcale e capitalistica si può uscire, mentre la natura può solo essere distrutta, distruggendo al contempo le nostre basi vitali.
La domanda da formulare è quindi: perché il patriarcato è una struttura sociale che non si limita a dominare le donne – e la natura – ma che le trasforma, che anzi vorrebbe abolirle? Perché, per andare dove, e come? O meglio: Perché il patriarcato reca con sé tanta distruzione quando dovrebbe essere solo un sistema di potere?
Negli anni Ottanta e Novanta le studiose hanno scoperto un ordine sociale esistente da millenni in tutto il mondo e lo hanno denominato ordine patriarcale. I patriarcati si fondavano tutti, al di là delle differenze tra i vari sistemi, sul principio della inferiorità della donna, che veniva sottomessa, controllata e sfruttata (Meier-Seethaler 1992, Eisler 1993, Lerner 1951, Weiler 1991, Daly 1981). In Europa il patriarcato ha conservato tutti questi elementi e prosegue la sua esistenza senza significative soluzioni di continuità. Non si poteva non riconoscere che la struttura dell’era moderna e la sua conversione in capitalismo è profondamente radicata nel patriarcato. Il capitalismo contiene innumerevoli elementi di natura patriarcale, è anzi fondato su di essi; ragion per cui molti elementi non sono spiegabili solo attraverso concetti “capitalistici”. Se il patriarcato fosse capitalistico, tutto si spiegherebbe. Se fosse pre-capitalistico, sarebbe già scomparso. Nel socialismo e in gran parte del Sud il patriarcato sopravvive dopo essere stato imposto dai conquistatori europei – si veda a questo proposito la storia del colonialismo.
Questo però significa anche che prima del patriarcato o in parallelo – o anche successivamente – esisteva un ordine diverso, che in parte esiste ancora e che potrà esistere anche in futuro: il matriarcato (Projektgruppe Zivilisationspolitik 2009 e 2011, Werlhof 2010).
Così anche i moderni studi sul matriarcato (Göttner, Abendroth 1988) sono entrati nella nostra discussione, dopo essersi confrontati con la questione economica, l’eco-femminismo (Mies/Shiva 1993), nato dall’inclusione della natura nell’analisi economica. Ma solo dopo un confronto critico sul cosiddetto sviluppo delle forze di produzione sotto forma della tecnica moderna e delle macchine (Genth 2002), tabù tenuto accuratamente segreto da tutti, gli studi della “scuola di Bielefeld”, costituita a Bielefeld e a Colonia ad integrazione della “scuola di Innsbruck”, hanno avviato un nuovo filone di ricerca con la “teoria critica sul patriarcato” (Werlhof 2014, 2015).
Solo grazie a questa sinergia si è acceso un dibattito sulle interrelazioni tra accumulazione originaria capitalistica con le sue propagazioni, e la “mortificazione” alchimistico-patriarcale, intesa come fenomeno in sostanziale contiguità col patriarcato, poiché finora non era stato possibile spiegare la ragione per cui l’accumulazione originaria, in tutte le sue forme e propagazioni, sia stata così devastante, non solo per gli uomini e le donne coinvolti, ma anche per la natura. Infatti la trasformazione della natura in capitale, che a questo punto segnò la propria data di nascita, non necessariamente porta alla distruzione della natura. Tutto acquista senso se nell’analisi si introduce il concetto di sistema patriarcale, il quale si basa sulla mortificazione, la “uccisione” della materia; si comprende così la forte impronta patriarcale del capitalismo e di tutta la sua tecnica; si comprende quale sia la fonte da cui sgorga l’odio per le donne, le madri e la natura.
Lo sviluppo delle forze di produzione
Perché il patriarcato inizia con un matricidio (Tazi-Preve 2004) e finisce con un matricidio? Il tentativo di abolire la maternità con interventi sempre più pesanti dell’accumulazione progressiva se non di quella originaria totale, è destinato a fallire, a fronte del “miglioramento” della vita grazie al progresso tecnico. In una prima fase il processo si traduce in un peggioramento a danno della vita (Werlhof 1986, Klein 2008) e non al suo miglioramento. La questione che ne è alla base è già stata posta: perché, per andare dove, e come il patriarcato vuole trasformare le donne come vuole fare anche con la natura? È in gioco qualcosa di diverso dalla questione sullo sfruttamento o saccheggio; si tratta della “trasformazione”, cioè la questione della tecnica. È un problema che non appartiene soltanto al capitalismo moderno, ma era presente sin dagli esordi del patriarcato.
La madre costituisce un ostacolo perché è il simbolo della vecchia società matriarcale; essa va sostituita per dimostrare come non sia più “mater archè”, che al principio della vita non sta la madre, ma il “pater archè”: all’inizio della vita sta un “padre”. Questo stabilisce il patriarcato che è sulla via verso la perfezione: non esistono più né dee né madri sovrane alla base della vita, di ogni vita. Dapprima ciò viene fatto valere sul piano ideologico e religioso, poi su quello della realtà: nessuna dea madre, né madre natura, né madre terra e nemmeno più la propria madre. E ora siamo alla follia di una madre-pianeta colpita dal questo capovolgimento (Bertell 2013).
Ora l’uomo patriarcale non nasce più dal grembo materno. Il concetto è: egli si è creato da sé. E la società patriarcale se la cava senza le madri, senza tutta la natura, poiché le macchine ne generano imitazioni artificiali. Questo il sogno del patriarcato “puro”. Come dimostra una vasta letteratura, esso accompagna la storia sin dal mondo antico che denominò “alchimia” la scienza e la tecnica destinate a realizzarlo (Werlhof 2010a e 2011, 2012, 2015, Schütt 2000).
Questo è anche il sogno della nostra epoca. Sembra così “normale” che non ci si sofferma a riflettere sul suo significato. Infatti, proprio nell’era della modernità, nel capitalismo e grazie al capitalismo, si lavora alacremente e “con successo” alla sua realizzazione come “utopia concreta”, alla creazione del patriarcato “puro”. Tutto vi viene coinvolto, natura, esseri viventi, cicli, spazio e tempo. Devono cedere il passo all’anti-mondo e all’anti-natura del patriarcato e alla sua tecnica tuttora intrisa di “alchimia” perché sono enti esistenti in natura o usciti da un grembo materno.
Per questo sono destinati programmaticamente all’annientamento. Al loro posto verrà un mondo “migliore”, “elevato”, il nuovo e bello mondo artificiale del patriarcato.
Rendersi autonomi dalla terra, operare una separazione concreta da essa, questo il disegno del patriarcato che finalmente ha trovato nel capitale e nelle sue “forze di produzione” gli strumenti per realizzarlo. Fino a un recente passato i tentativi in questo senso sono tutti falliti, si pensi per esempio la creazione della vita umana nell’ampolla degli alchimisti, ovvero senza il grembo materno.
L’alchimia ha formulato e tentato di tradurre nella realtà questi sogni già migliaia (!) di anni fa, dopo essere stata patriarcalizzata. Solo in epoca moderna la macchina fornì lo strumento ideale per trasformare la natura in non-natura, la madre in una macchina procreativa o macchina “creativa” senza bisogno di nessuna madre in un essere “post-umano”, “patriarcale”, in “capitale”. Si spiega così perché viene bloccata ovunque la critica alle macchine da parte di chi vi vede il simbolo precipuo dell’attuale sviluppo delle forze produttive. Il piano patriarcale del capitale è talmente logico, che non si deve nominare né criticare.
Esso sta alla base del capitalismo in cui tutti credono, e che è “l’elefante nella stanza” (Werlhof 2010b, 2013). Il patriarcato è una religione. Per questo non è ammissibile una critica delle “forze di produzione” e delle macchine. Per un certo lasso di tempo la critica divampò (Genth et al. 1983) per poi tornare a tacere. La critica dimostrava come tutto stia andando a rotoli, come la produzione conduca alla distruzione e che non possiamo permetterci un patriarcato capitalistico. Il mito del progresso e dello sviluppo delle scienze della tecnica si sta squagliando, eppure tutti vi ripongono ancora la loro fede.
Solo la ridefinizione del patriarcato come società improntata all’alchimia e intrisa di motivazioni utopistiche, secondo le tesi elaborate nella “Kritische Patriarchatstheorie” (Werlhof 2010) riesce a dimostrare la ragione per cui la produzione è sempre e in ogni caso una distruzione. Infatti la nuova “genesi” che vuole fare del “padre” una “madre”, secondo l’idea del perfetto patriarca, è capace di rimpiazzare con qualcosa di “superiore” e “migliore” ciò che è stato prima distrutto, e cioè ciò che per natura e cultura è materno. L’intero processo di mortificazione dell’esistente che funge da materia prima per dar vita alla “grande opera” della nuova creazione, si basa sulla superstizione e la credenza in simili miracoli.
Ma in genere ci si ferma alla distruzione che in ogni caso ha luogo. Non si può parlare di gloriose ri-generazioni. É una contraddizione irrisolvibile. L’epoca moderna si è infranta sullo scoglio rappresentato da questa contraddizione insolubile senza neanche averlo avvistato. Solo pochi interessati ne hanno avuto consapevolezza.
Lo sviluppo delle forze di produzione oggi rappresenta una forza distruttiva che attende ancora di essere spiegata. Ne sono capaci solo i princìpi e i procedimenti alchemici che ne rappresentano il fondamento. Infatti la “mortificazione” si esercita con armi quali appropriazione, usurpazione, dominio, distruzione, disintegrazione ed “uccisione” di ciò che esiste in natura. In questo assomiglia all’accumulazione originaria. Prima dà valore alla materia, poi la svalorizza. Ma poi non si accontenta più di “suddividere e dominare”, ma vuole “suddividere, trasformare e dominare”, e pretende che in ciò che è stato trasformato non ci sia più nulla che ricordi ciò da cui proviene, la terra, il grembo materno!
Si dimostra così che la modernità in quanto patriarcato capitalistico è una epoca assassina e quindi non ha futuro.
La bontà di un concetto si misura sulla quantità di realtà che esso riesce a spiegare. Nel caso dell’accumulazione originaria e della sua propagazione “Rosita” ci ha arricchito di nuove conoscenze e intuizioni. Abbiamo potuto ampliare il suo pensiero, portarlo a compimento, presentarlo in un modo che avrebbe sicuramente approvato, se fosse ancora in vita!
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