martedì 16 febbraio 2021

CAPITALE SENZA RIVOLUZIONE? - Riccardo Bellofiore

 Da: http://www.palermo-grad.com - Riccardo Bellofiore, Docente di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo, i suoi interessi sono la teoria marxiana, l’approccio macromonetario in termini circuitisti e minskyani, la filosofia economica, e lo sviluppo e la crisi del capitalismo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info

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Pubblichiamo la relazione di Riccardo Bellofiore alla conferenza sul centenario della rivoluzione d’ottobre tenuta a Roma il 18-22 gennaio 2017 e organizzata dall’associazione e rete C17. L’intervento è stato trascritto e pubblicato in Comunismo necessario – Manifesto a più voci per il XXI secolo, a cura di C17 (Mimesis, 2019). Qui di seguito troverete le domande poste da C17 e subito dopo la relazione di Riccardo Bellofiore.




C17:
Cos’è diventato il Capitale nel XXI secolo? Come intendere la “singolarità” del capitalismo neoliberale? Si tratterà per un verso di qualificare – su scala globale – la nuova composizione del lavoro e dello sfruttamento. Ma anche, chiaramente, la composizione del Capitale stesso, tra estrazione del valore e finanza. Per l’altro di percorrere gli antagonismi e la produzione di soggettività (ambivalente) che segnano das Kapital contemporaneo.


1. Aggiornare la critica
Condizione e finalità della critica dell’economia politica borghese è, per Marx, l’esistenza delle classi e la loro incessante lotta: attraverso la «scoperta» dello sfruttamento, la critica marxiana rende visibile la società divisa in luogo dell’individuo isolato e la storia in luogo dell’eternità delle categorie dell’economia politica. Tuttavia, il nuovo paradigma economico-politico «borghese» oggi dominante ha radicalmente modificato il suo oggetto e le forme attraverso cui mistifica il conflitto di classe: alle classi sociali è stato sostituito l’individuo proprietario, alla legge del valore-lavoro quella del valore-utilità, fondando l’origine dell’economia sullo scambio di mercato anziché sulla produzione. In che modo una critica dell’economia politica adeguata al tempo presente deve confrontarsi con queste modifiche nell’oggetto della scienza economica? 

2. Crisi e lotte
La crisi economica internazionale ha ormai perso il suo statuto di eccezionalità e costituisce anzi un nuovo modo di regolazione istituzionale, che si rafforza tanto più quanto i motivi della crisi vengono lasciati inalterati. Alcuni economisti mainstream hanno ripreso lo scenario della secular stagnation. Ma ciò che essi non possono e non vogliono vedere è il rapporto tra lotte e crisi economica. Storicamente, sul finire dell’Ottocento e più di recente nella crisi del ’29, sono sempre state le lotte a interrompere la congiuntura della crisi, imponendo nel contempo le condizioni per una ristrutturazione complessiva dei rapporti economici e sociali, e aprendo a fasi di radicali mutamenti istituzionali. In che modo è possibile ripensare oggi la relazione tra lotte, riforme e ristrutturazione capitalistica?

3. Globalizzazione e interdipendenza
Se per Marx la costituzione del mercato mondiale è una tendenza fin dall’inizio immanente allo sviluppo capitalistico, l’attuale globalizzazione dell’economia sembra inverarla fino al punto della sua massima visibilità. Tuttavia, l’uniformazione globale del mercato ha portato anche alla luce nuove forme di segmentazione dello spazio economico mettendo in discussione le teorie classiche della «divisione internazionale del lavoro». Le coordinate con le quali si sono a lungo analizzate le relazioni di gerarchia e dipendenza sulla scena mondiale, risultano da un lato indebolite, e dall’altro, sembrano caratterizzare dall’interno i singoli spazi regionali, nazionali e urbani. Quanto l’eterogeneità dello spazio geografico ci aiuta a comprendere le mutazioni dei rapporti fra le diverse forme di sfruttamento e la diffusione di spazi economici alternativi?

4. Riproduzione sociale
Diversamente dall’economia classica e dalle versioni più recenti della teoria economica dominante, per Marx il soggetto che vende la forza lavoro sul mercato non è un soggetto disincarnato ma coincide con il corpo vivente nella sua definizione più ampia ed estesa. A partire da queste premesse e superando i limiti dell’analisi marxiana, la critica femminista ha posto la «riproduzione sociale» e il lavoro domestico come base per un ripensamento complessivo del lavoro, mostrando l’esistenza di attività essenziali per il funzionamento del capitalismo, benché non retribuite e non riconosciute socialmente. In che termini il paradigma della riproduzione sociale può, oggi, presentarsi come un asse fondamentale della critica dell’economia politica anche oltre la sua stretta associazione con la dimensione di genere e il lavoro domestico?

5. Economia collaborativa
I discorsi sull’«economia collaborativa» si sono particolarmente diffusi con il prolungarsi della crisi. Alcuni autori vedono nelle tecnologie di rete e nelle pratiche di condivisione una tendenza spontanea al superamento dell’economia di mercato e dello stesso capitalismo. Contro questa concezione irenica del mutamento sociale sembra risuonare il giudizio che Marx ed Engels espressero sui socialisti utopistici: «Al posto dell’attività sociale deve subentrare la loro individuale azione inventiva; al posto delle condizioni storiche dell’emancipazione, subentrano condizioni immaginarie; al posto dell’organizzazione progressiva del proletariato in classe, deve subentrare un’organizzazione della società macchinata per l’occasione». Quanto la condivisione e la cooperazione, potenziate dalle tecnologie di rete, vanno pensate come oggetto di una nuova valorizzazione capitalistica e quanto come emersioni di nuove prassi istituenti centrate sul Comune?

6. Capitale finanziario
All’origine del ciclo neoliberale è possibile collocare il radicale cambiamento della funzione del capitale finanziario globale. Non più «capitale fittizio», ovvero produzione di moneta a mezzo di moneta, senza alcuna mediazione con le fasi della produzione capitalistica, bensì capitale effettivamente produttivo, capace di svolgere una funzione ordinatrice e gerarchizzante rispetto a tutte le altre «porzioni di capitale». La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia ha comportato una trasformazione delle principali relazioni monetarie, come quella del debito. L’indebitamento – pubblico e privato – si presenta sempre più come una delle più rilevanti forme di assoggettamento sociale di produzione del soggetto neoliberale. Se il nuovo «uso capitalistico» del debito pubblico mette in questione la relazione tra spesa pubblica e ruolo delle banche centrali, il debito privato interroga alla radice la trasformazione della relazione salariale. In che modo l’esercizio del credito da parte delle banche si collega allo sfruttamento derivante dalla relazione salariale? 

Riccardo Bellofiore:

Tronti nel suo intervento di ieri ha detto che le vostre domande vengono alla fine di un lungo ragionamento, e sono definite da quel ragionamento. Sono molto d’accordo. Ciò crea, dal mio punto di vista un problema, ed in qualche modo un paradosso. Il modo con cui quel ragionamento viene formulato, e quindi le domande a cui approda, penso impedisca di trattare veramente la questione di cui sono invitato parlare: la critica dell’economia politica, cosa è oggi il capitalismo del XXI secolo, cosa ne è in particolare del neoliberismo. Potrei ovviamente prendere una via di uscita facile, proporvi una sintesi del mio discorso sulla crisi: ma visto che quel discorso è stampato anche in libretti molto brevi, che si possono leggere in poco tempo, ed essendo convinto che il dialogo si fa tra diversi, sono stato molto contento che quando ho risposto “ma guardate che io ho dei problemi con le vostre quaestiones” mi sia stato risposto “ma ti abbiamo invitato apposta”. Cercherò quindi di esplicitare in quel che segue qualche dissenso. Dovrò farlo in modo molto veloce e schematico. Saranno tesi apodittiche, e saranno frammentarie. Tra l’altro ci sono alcuni di questi frammenti che dovrò saltare per ragioni di tempo e spazio, cercherò però di nominare almeno il titolo di quei frammenti che non posso sviluppare.

Comincio però dalla ricorrenza, dal C17. Nel 2017, se vado a parlare di critica dell’economia politica, la data di riferimento è per me il 1867, cioè il centocinquantenario della pubblicazione della prima edizione del primo libro del Capitale. Ed è poi la considerazione che nel 2017 sono ormai passati dieci anni dalla crisi del capitale più grave dal 1929. Una grande crisi sistemica, come quella che stava avendo luogo quando iniziai a studiare economia politica all’inizio degli anni ’70. Ho avuto, per così dire, la “fortuna” di vivere due grandi crisi capitalistiche. Il problema che credo ci si debba porre è come mai la crisi sistemica del 2017, che ha visto morire quello che io chiamo il social-liberismo, ed è stata la crisi del neoliberismo per come lo conoscevamo, ha visto riemergere il neoliberismo quasi fosse uno zombie. È tornata l’esplosione della finanza, almeno in una certa misura, ma non riesce a far ripartire la crescita reale. Una prospettiva radicale, non dico comunista, non è riuscita ad affermarsi.

Parto di qui, cioè proprio dal titolo: “Critica dell’economia politica”. L’aggancio che viene fatto nelle vostre domande tra critica dell’economia politica e il capitale nel XXI secolo mi pare problematico. Bisogna intendersi su cosa sia la critica dell’economia politica, il famoso sottotitolo del Capitale, per Marx. Marx sa bene che per indagare il capitale come oggetto reale ha bisogno di una mediazione teorica, devo farlo attraversando la critica degli economisti. Allora il discorso economico copriva un po’ la teoria sociale in generale. Per questo Marx spacca l’economia politica in due: l’economia volgare e l’economia politica. L’economia volgare è quella che si aggira nel nesso illusorio, prende le cose così come si presentano. Al contrario, l’economia politica scopre il nesso interno – ovvero, riconduce il valore al lavoro. La prima è apologia, la seconda è scienza. E allora, perché non va bene questa “scienza” dell’economia politica?

Critica può voler dire molte cose. Può significare svelare e attaccare le contraddizioni di un discorso teorico. In maniera più interessante, può significare che si cerca di comprendere come mai l’economia politica non riesce a risolvere il quesito che essa si era posto o che dovrebbe porsi, cioè l’emergere del plusvalore. Qui si inserisce il ragionamento di Marx. Marx percorre di fatto due strade. La prima è di fare la scienza meglio di Ricardo, meglio dell’economia politica classica: questa la possiamo chiamare la strada della “economia politica critica”. La seconda è però di chiarire come l’economia politica non sia in grado di comprendere non solo come produce il capitale ma come si produce capitale. Non è in grado di farlo perché è borghese. Questo essere borghese gli impedisce sostanzialmente di cogliere tre cose fondamentali per l’indagine del capitale: la distinzione tra forza lavoro e lavoro vivo, la distinzione tra lavoro concreto e lavoro astratto, e il fatto che il valore si presenti in forma di denaro. 

Sicuramente, nella critica di Marx all’economia politica la dimensione “pratica”, e quindi le lotte, giocano un ruolo chiave. Marx ha potuto pensare in questo modo, è stato in grado di sviluppare la critica del capitale, perché aveva alle spalle e nel suo tempo un antagonismo di classe che contestava il rapporto di capitale. Vale però anche il viceversa. La critica dell’economia politica richiede uno sviluppo teorico autentico, che è essenziale all’orizzonte delle lotte. 

Il problema per noi è: quale attualità ha oggi questo discorso? Se uno si pone il problema della critica dell’economia politica deve anche individuare qual è ai nostri giorni l’equivalente dell’economia volgare, qual è l’economia politica a noi contemporanea o prossima, com’è cambiato l’ “oggetto” capitale. Per quel che mi riguarda, leggo Marx “a ritroso”. Lo leggo cioè a partire dai problemi che sono emersi nelle due grandi crisi che ho vissuto, la Grande Stagflazione e la Grande Recessione, e nel neoliberismo che esce dalla prima e collassa nella seconda. Questo non significa che mi invento il mio Marx a piacimento, in modo arbitrario. Significa che Marx, proprio per la sua capacità di comprendere il capitale, veicolava un discorso teorico più ricco e fertile di quanto lui stesso avesse coscienza. È già successo. Molti negli anni ’60 e ’70 hanno già proposto una operazione del genere. Salto ora, questo è un omissis per le ragioni di tempo e spazio, tutto un discorso che si dovrebbe fare, su quella discussione, e su come da essa emergano nei decenni successivi temi che rompevano con il marxismo ereditato.

Vado invece direttamente a quelli che considero i punti chiave della critica dell’economia politica, per lo meno nel primo libro del Capitale. In fondo, il nucleo del discorso è possibile racchiuderlo in pochissime frasi. La merce è duplice: valore d’uso e valore. Il valore nella merce singola è però un “fantasma”. Questo fantasma, come in un romanzo gotico, si impossessa di un corpo, che è il corpo della merce-denaro. Il denaro è a questo punto un “valore incorporato”, una “crisalide”. Il denaro come denaro, se lo trattengo come coagulo di ricchezza astratta, non produce plusvalore. Perché ciò avvenga occorre che la crisalide (il denaro come denaro) si trasformi in “farfalla” (denaro come capitale). Marx a questo punto rivela che il passaggio dalla crisalide alla farfalla può avvenire soltanto se il fantasma del valore si muta, in quanto capitale cioè valore che figlia plusvalore, in “vampiro”. Ciò può avvenire quando il capitale include dentro di sé lavoratrici e lavoratori come un “altro” che viene reso interno. A questo punto il capitale diventa un “mostro meccanico”. Rimanendo nella letteratura gotica, Frankenstein. Prima Kaushik Sunder Rajan ha fatto una sintesi magistrale di questo pezzo del discorso di Marx sul capitale come automa, come soggetto dominante, come feticcio automatico. 

Questo aspetto rimanda a ciò che Marx chiama il “carattere di feticcio” del capitale. Il capitale è dotato di poteri sociali, che sono del capitale non del lavoro: ciò è qualcosa di reale, non di illusorio. Il “feticismo” è altra cosa dal carattere di feticcio: è attribuire alle cose, ai mezzi di produzione, al denaro, dei caratteri sociali in quanto oggetti naturali, per cui sarebbe sempre stato così (è, in fondo, l’aspetto radicalizzato dall’ “economica” neoclassica, con tutte le sue diramazioni). Non è così: è il rapporto di capitale che fa delle “cose” dei feticci portatori di un potere sociale “oggettivo”, socialmente e storicamente determinato. Questo risponde in fondo alla domanda che ponete sulla “cooperazione”, e su cui ho un dissenso: non c’è una cooperazione originaria di cui il capitale si approprierebbe, è lui stesso che ne crea le condizioni.

Questo è il Feticcio in senso proprio. Come si è “costituito” questo feticcio? Marx propone una nozione abbastanza complessa di “lavoro”. È nota, al punto di rientrare nell’abc del marxismo, la distinzione tra forza lavoro e lavoro vivo. Il punto è comprendere che abbiamo a che fare con una nozione triadica: forza lavoro, lavoro vivo, e portatori viventi di forza lavoro. Forza lavoro e lavoro vivo sono attaccati a degli esseri umani (socialmente determinati), sicché lavoratrici e lavoratori sono i portatori viventi di quella forza lavoro, sono “forza lavoro vivente”; e sono quegli stessi lavoratori e lavoratrici a erogare il lavoro come attività. Il capitale si compra la capacità di lavorare ma deve estrarre (“succhiare”, come un vampiro) lavoro vivo. Qui incontra un problema sociale specifico: deve superare una potenziale contro-produttività della classe lavoratrice, deve ottenere il lavoro come fluido, tutto il lavoro come attività, e fare in modo che il lavoro vivo si prolunghi oltre il lavoro necessario. È un problema di lotta di classe, non solo “dal basso” ma anche “dall’alto”. Tutto il comando tecnologico, tutto il comando monetario, se volete anche tutto il comando ideologico, contribuiscono a tutto ciò. 

Anche qui due cenni veloci ad aspetti che non posso sviluppare. Da quel che precede risulta evidente che, benché Marx non ne parli nel Capitale, il tema della riproduzione sociale, cioè la riproduzione dei portatori viventi della forza lavoro è parte essenziale della critica dell’economia politica, e questo è un altro pezzo di risposta: anche se il lavoro domestico e il lavoro di cura non sono lavori “produttivi” di plusvalore, essi entrano nella produzione (non di mercato) di quella merce speciale (la forza lavoro vivente) che crea nuovo valore, e dunque plusvalore, e dunque capitale. Il secondo aspetto è il seguente. Marx non lo dice chiaramente ma lo si può derivare: la forza lavoro, il denaro e possiamo aggiungere, la domanda effettiva, richiedono di essere organizzati dallo Stato come un “esterno” che però è fondamentale perché consente al capitale di costituirsi come tale. C’è, in altri termini, una gestione politica delle merci speciali (denaro e forza lavoro) e della domanda effettiva da cui non si può prescindere in una analisi sistematica del capitale.

L’idea che la cooperazione, le lotte o il “lavoro” siano prima del capitale (come è implicato nelle vostre domande) non sta in questo orizzonte marxiano. Esiste semmai il “rapporto” di capitale, nessuno dei due in un certo senso sta prima, Quello di Marx è il discorso che io chiamo della “costituzione” del capitale come quel Soggetto che poi pretende di porre integralmente (e circolarmente) i propri presupposti, dal capitale al capitale: il fatto è che quel Soggetto dipende dallo sfruttamento che (linearmente) procede dal lavoro al capitale. 

Quando Marx raggiunge l’altezza teorica della sussunzione reale del lavoro al capitale nella produzione, allora il suo discorso sulla “socializzazione del lavoro” muta di senso e si arricchisce. All’inizio del Capitale sembra che il concetto di lavoro astratto non rimandi ad altro che ai lavori immediatamente privati che devono divenire sociali ex post nella circolazione, per il tramite della validazione monetaria. In questo discorso la socialità pare esaurirsi integralmente nella commensurabilità che viene dal denaro come misura omogeneizzante. In realtà Marx parla anche di lavoro “immediatamente socializzato” nei processi capitalistici di lavoro. Quando siamo all’estrazione del plusvalore relativo, al sistema di macchine, al modo di produzione specificamente capitalistico, Marx non fa più riferimento al lavoratore singolo come produttore di merce, perché non è più così. Il “lavoro” che produce merci è ora un lavoratore collettivo, immediatamente socializzato già nella produzione, tecnologicamente comandato e organizzato dal capitale. 

Se ci pensate bene questa realtà è stranissima, “bizzarra” (direbbe Marx). Ci sono lavoratori immediatamente socializzati, nella produzione, da imprese capitalistiche in concorrenza: imprese che però devono ancora ottenere la sanzione della socialità nella validazione monetaria sul mercato, nello scambio finale di merci, perché sono lavori immediatamente privati. Socializzati immediatamente eppure non ancora “sociali”, immediatamente privati. Il che forse ci dice qualcosa su cosa sia nella testa di Marx il comunismo: ci tornerò in conclusione. 

Il discorso va arricchito e articolato ulteriormente rispetto a come ce lo presenta Marx. La discussione sul denaro e la moneta negli anni ’70/’80 ha mostrato che in realtà occorre abbandonare la tesi marxiana che vuole essenziale nel suo ragionamento il denaro come merce. Accanto al denaro come equivalente universale io credo vada collocata in posizione anteriore e determinante una nozione di moneta ulteriore, il finanziamento alla produzione grazie al quale il settore delle imprese eroga il monte salari a lavoratrici e lavoratori: e in questo caso abbiamo a che fare con moneta credito, creata ex nihilo dalle banche. Si tratta di una socializzazione anticipata della produzione, di una ante-validazione. Nel mercato del lavoro la forza lavoro deve avere una sorta di imprinting monetario anticipato, come lavoro “in potenza”. Il lavoro astratto è un processo (forza lavoro – lavoro vivo – lavoro sociale ex post) e la valorizzazione è al tempo stesso un circuito monetario (finanziamento bancario come ante-validazione – produzione dove il lavoro è “immediatamente socializzato” – validazione monetaria come il divenire sociale ex post dei lavori immediatamente privati nella circolazione di merci).

Per Marx la teoria del valore è al tempo stesso teoria della crisi. Qui l’aggancio ai temi dell’attualità diviene molto forte. Di teorie della crisi ce ne sono state tante. Una versione è la teoria della crisi da sproporzioni: in questo caso il mercato è un potente regolatore; e se si pensa che il problema di fondo sia l’anarchia del mercato basterebbe in fondo il piano a definire il comunismo. In fondo socialdemocratici e leninisti si trovano d’accordo sull’idea che il processo produttivo ed economico è sempre più socializzato, bisogna solo entrare dentro la stanza dei bottoni, o per rompere lo Stato o per governarlo. C’è poi il filone della crisi sottoconsumista. Oggi, a ben vedere, sono quasi tutti sottoconsumisti: se prendete gli economisti alternativi italiani, sono fautori della tesi secondo cui il problema sarebbe il sottoconsumo (il mondo dei bassi salari), che si chiamino keynesiani o che si chiamino marxisti non conta. Questo in realtà non ha niente a che vedere con Marx. La stessa Rosa Luxemburg parlava piuttosto, e a ragione, di sottoinvestimento. C’è poi la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto. La mia idea è che la caduta tendenziale del saggio di profitto, che nella sua formulazione letterale quale la troviamo in Marx non è accettabile, sia una componente essenziale del discorso sulla crisi, a condizione di reinterpretarla come una metateoria delle crisi.

Cosa vuol dire? Significa formulare una teoria unitaria che fonde in modo coerente i diversi approcci marxiani alla crisi. Il punto centrale è il saggio di sfruttamento. Il discorso è che il capitale per ottenere un maggiore saggio di sfruttamento investe aumentando la composizione di capitale in termini materiali, e questo per un po’ di tempo porta con sé un aumento della composizione di capitale in valore. Il saggio del profitto allora cade perché non c’è abbastanza plusvalore, non ci sono abbastanza profitti lordi. Questo è effettivamente avvenuto, è la Lunga Depressione di fine Ottocento. La mia tesi è che in seguito, dal Novecento, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto vada letta sulla base della constatazione, che diviene quasi un principio, secondo il quale le controtendenze vincono sulla tendenza, creando però di conseguenza nuove contraddizioni a catena che si avvitano su se stesse. Con Ford e Taylor il capitalismo aumenta drammaticamente il saggio del plusvalore, e ciò crea le condizioni della crisi degli anni ’20, che non è una crisi da sottoconsumo ma è una crisi da sottoinvestimento, quindi una crisi da mancata realizzazione del plusvalore potenziale. Qui la crisi non si dà perché ci sono troppo pochi profitti lordi, come prima, semmai perché ci sono troppi profitti rispetto a quanti sono realizzabili. 

Se ne uscirà non con il New Deal, anche se quest’ultima è un’esperienza di grande interesse su cui ci sarebbero molte cose da dire ma non ne ho tempo. Se ne uscirà con la seconda guerra mondiale e la conseguente enorme distruzione di capitale, e nel secondo dopoguerra con lo Stato che continua a spendere in modo sostenuto, al limite anche in disavanzo. Si tratta sostanzialmente di un’estensione e approfondimento della teoria della Luxemburg e come è stata ripresa da Kalecki. Il governo diventa il fornitore di una domanda esterna all’area capitalistica in quanto tale. Quel periodo, i cosiddetti Trenta Gloriosi non possono essere ridotti, come spesso si fa, ad un “compromesso”. Sono stati un equilibrio nel senso di “bilico”: un prodotto delle lotte, perché quello che noi ex post attribuiamo di positivo a quegli anni viene proprio da un rapporto conflittuale le cui condizioni di possibilità furono allora molte. In quel periodo, si verificò una riduzione della quota dei lavoratori produttivi di plusvalore: l’ampliamento dell’area del cosiddetto lavoro improduttivo consente di realizzare il capitale sul terreno della realizzazione. Perché ciò possa proseguire senza troppe tensioni, il giro di vite sui lavoratori direttamente produttivi deve stringersi sempre di più. Le ragioni della crisi degli anni ’70, che a me pare proprio darsi come crisi sociale direttamente sul terreno della valorizzazione immediata, sono molte ma essenzialmente il punto cruciale è che a un certo punto non tanto la lotta sul salario ma la lotta sulle condizioni di lavoro rende rigida l’estrazione del tempo di lavoro e pluslavoro: non si estrae abbastanza plusvalore. In Italia, addirittura, c’è una crescita del salario relativo per qualche anno, grosso modo dal 1969 al 1973. Quello che viene dopo – il neoliberismo – in fondo altro non è che la grande risposta a questo blocco sociale, una risposta che si muove su due gambe: la gamba della frammentazione del lavoro (la cosiddetta precarizzazione) e la gamba dell’inclusione subalterna del lavoro dentro la finanza (la cosiddetta finanziarizzazione).

E qui vengo alla risposta alla vostra ultima domanda che non riguarda tanto le banche ma riguarda il capitale finanziario. La mia idea è che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 inizia la fase monetarista, e che però quest’ultima duri pochissimo, in fondo solo tre anni. Nel 1982 c’è stato veramente il rischio di un ritorno della grande crisi da domanda, in conseguenza delle politiche ferocemente restrittive. Non si è trattato però di un autentico liberismo: la politica non ha mai lasciato il capitale. Il secondo Reagan risponderà alla tendenza stagnazionistica con un vero e proprio keynesismo militarizzato, è il periodo delle Star Wars, che dà vita negli Stati Uniti ai disavanzi gemelli, nel bilancio dello Stato e nel conto corrente con l’estero. La controtendenza che però definisce il neoliberismo più adeguatamente viene subito dopo, con il governatore della Federal Reserve Alan Greenspan, dal 1987 al 2005, a partire dal salvataggio della finanza nella crisi borsistica che dovette affrontare appena insediato. Il capitalismo che si costruisce allora lo sintetizzo in tre figure. La prima è il “lavoratore traumatizzato”: la frammentazione e l’indebolimento della classe lavoratrice nel mercato e nei luoghi del lavoro. La seconda è il “risparmiatore maniacale”: il sistema dei fondi pensione e dei fondi istituzionali del capitalismo patrimoniale, che include le famiglie dentro il capitale; il che, insieme ad altri fattori, spinge verso l’alto il valore delle attività finanziarie (cresce il valore dei risparmi già investiti), e consente alle “famiglie” di spendere per consumi anche a debito (si riduce la propensione al risparmio sul reddito corrente), sulla base di una ricchezza “cartacea” che pare crescere illimitatamente di valore. La terza figura è appunto questa, il “consumatore indebitato”.  E si crea il rischio, che poi si verificò con la Grande Recessione, che il risparmiatore maniacale entri in fase “depressiva”.

Un velocissimo sguardo plurisecolare, che è certo una caricatura, può aiutare. Il capitalismo dell’Ottocento e inizio Novecento è trainato dall’investimento privato. Il capitalismo successivo, “fordista-keynesiano”, è trainato dalla spesa pubblica, innanzitutto militare e di spreco. Il neoliberismo – e qui tanto di cappello all’inventiva del capitale – quando né l’una né l’altra cosa bastavano si è inventato un terzo traino dell’accumulazione del capitale: il consumo a debito. Il neoliberismo è più propriamente, e paradossalmente, un keynesismo privatizzato di natura finanziaria: e avrete senz’altro colto il paradosso delle politiche “keynesiane” di Reagan e Greenspan. Questa fase ha cambiato la finanza, ha cambiato l’industria: entrambe sono diventate transnazionali. Non è questione di globalizzazione o di postfordismo, termini che non amo. Ciò che è successo è che, a partire dalla stessa Europa, le catene produttive del valore si sono spalmate attraverso le frontiere.

Prendiamo uno dei casi che voi richiamate nelle vostre domande, che è quello del nuovo lavoro legato alla cosiddetta industria 4.0, detta anche manifattura 4.0. Qui abbiamo dei sistemi produttivi dove sono integrati il fisico e il digitale che non sono più distinti, è un caso da manuale di oggettivazione tecnologica in cui si producono delle manifatture che però hanno attaccato al prodotto materiale il servizio. La valorizzazione è legata innanzi tutto a quest’ultimo, il prodotto può persino ridursi soltanto servizio. È un sistema produttivo che richiede il massimo di flessibilità e il massimo di personalizzazione perché dagli anni Ottanta la domanda tra produttori è in feroce concorrenza ed è molto instabile. Ora, che cosa ci dice davvero la “manifattura 4.0”? Primo, che la manifattura è ormai molto di più della manifattura in senso tradizionale. Secondo, che quello che è avvenuto è una “centralizzazione senza concentrazione” cioè una disintegrazione verticale a livello della singola unità produttiva, ma con una catena transnazionale del valore che invece è massimamente integrata. Deve essere chiaro che questo è un “sistema” che non va da sé, è un sistema che deve essere controllato strettamente: la totalità del Soggetto capitale di cui parlavo prima, il Feticcio Automatico, è tendenzialmente autoritaria, e la tendenza è ora massimamente tesa. In Marx troviamo una distinzione tra tecnologia e tecnica (la distinzione si deve a Guido Frison). “Tecnologia” è il disegno del processo produttivo che consente l’innovazione, dove il processo produttivo è inteso in senso naturalistico: questa naturalizzazione del processo produttivo è evidente nel trattare gli esseri umani come cose. La realtà è fatta però dell’applicazione “tecnica” del lavoro agli strumenti, che incontra diecimila difficoltà, e del rapporto tra lavoratori, quindi dall’ “organizzazione” di lavoratrici e lavoratori gli uni con gli altri nel processo del lavoro. 

Devo chiudere dove evidentemente si dovrebbe iniziare. Gli anniversari da ricordare quest’anno, vi dicevo, sono due. Non solo il 1917, ma anche il 1867. Per questo, lo confesso, avevo fantasticato di costruire per il 2017 un convegno, in quattro parti, che però non mi sarà possibile fare per davvero (il crowdfunding non è il mio forte). Nomi chiave delle prime tre parti dovrebbero essere: Marx, il Capitale, 1867; Lenin, la rivoluzione russa, 1917; Gramsci, perché subito dopo scrive sull’Ordine Nuovo l’articolo “La rivoluzione contro il capitale”, 1917. Per quel che riguarda l’oggi, e dunque noi, il problema è quasi completamente rovesciato rispetto al titolo gramsciano: è “il capitale senza rivoluzione”. Non so, sinceramente, se il nostro problema, qui e ora, sia discutere del comunismo. È certo però che il problema primo è se siamo in grado, come sfida ad un tempo teorica e politica, di apporre un punto interrogativo al termine di quel “capitale senza rivoluzione”. 

Come ho anticipato, non è che noi non si sappia cosa dovrebbe essere il comunismo per Marx, lo sappiamo abbastanza bene. Se il lavoro astratto è il lavoro immediatamente privato che diviene sociale sul mercato, ed è al tempo stesso il lavoro vivo che è già immediatamente socializzato e comandato dal capitale (due novità astoriche assolute), il lavoro nel comunismo è un lavoro che deve essere immediatamente socializzato nella produzione, senza però lo sfruttamento del lavoro vivo, e deve al tempo stesso essere sociale ex ante, non deve attendere una validazione sociale sul mercato posteriore alla produzione. Molto facile da dire, molto difficile da realizzare. In Marx troviamo due movimenti – anche qui, purtroppo, devo essere un po’ caricaturale, per ragioni di tempo. Da un lato, c’è il Marx che ritiene che il problema, in fondo, sia semplice da risolvere. Visto che il capitale sta già socializzando la produzione, la socialità è sì alienata dai lavoratori, ma in fondo si tratta semplicemente di riappropriarsene. Dall’altro lato c’è il Marx che ragiona lungo le linee che ho svolto in precedenza, e che ha quindi piena coscienza di quanto l’uscita dalle inversioni capitalistiche sia molto difficile. Difficile ma non impossibile. Le lotte ci sono, e le lotte spontanee hanno una loro immediata politicità. Quel soggetto e quella conflittualità, lasciati alla mera spontaneità, sono destinati alla frammentazione. Come ben sapeva Rosa Luxemburg contro Lenin, il ruolo della organizzazione, della avanguardia è pur sempre essenziale, ma come coscienza interna alla classe. 

La difficoltà di questo tipo di schema – ad un tempo teorico e politico – ai nostri tempi è presto detta. Marx riteneva che il lavoro, per la via del comando capitalistico tanto tecnologico quanto organizzativo, fosse socializzato immediatamente nella produzione ai fini dello sfruttamento. La socializzazione immediata del lavoro però significava anche che per sfruttare i lavoratori il capitale doveva pur sempre metterli in relazione, una relazione con una dimensione conflittuale che può emergere, che può evolvere in antagonismo. Nella nostra contemporaneità vi è un drammatico divorzio tra la socializzazione immediata dall’alto del capitale, per lo sfruttamento, e una frammentata, eppur viva, socializzazione nel conflitto e nell’antagonismo. Bisogna nuovamente “costruire”, nel tempo e con pazienza, una soggettività che lotta dentro e contro il capitale. In fondo, è così che è nato il movimento “operaio”, circa 1817. Non un dato ma un risultato.

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