“Pensare” “Astratto”? Sauve qui peut! Si salvi chi può! Così
sento già gridare un traditore corrotto dal nemico che va vociando contro
questo saggio per il fatto che vi si parlerà di metafisica. “Metafisica”
infatti, come “astratto” e quasi anche come “pensare” è la parola di fronte
alla quale ognuno, più o meno fugge via come davanti a un appestato.
Ma qui non si ha la cattiva intenzione di voler spiegare che
cosa sia “pensare” o che cosa sia “astratto”. Nulla è così insopportabile al
bel mondo come lo spiegare. Anche a me,quando qualcuno si mette a spiegare, mi
dà fastidio alquanto, perché, all’occorrenza, capisco tutto da solo. Qui poi la
spiegazione del “pensare” e dell’“astratto” si mostrerebbe senz’altro del tutto
superflua proprio perché il bel mondo sa già che cosa è „astratto“ e ne
rifugge. E come non si desidera quel che non si conosce, così non lo si può
nemmeno odiare.
Inoltre non è mia intenzione voler conciliare di nascosto il
bel mondo con il “pensare”o con l’“astratto”, quasi insinuandoli di
contrabbando sotto l’apparenza di una conversazione alla buona, così da
ridestarli di nascosto e senza alcuna ripugnanza e da esser entrato
furtivamente ed essermi addirittura subdolamente insinuato nella società che,
come dicono gli Svevi, sarebbe stata circuita; l’autore di questo intrigo
avrebbe fatto conoscere questo ospite altrimenti forestiero, l’astratto, e l’intera
società l’avrebbe quindi trattato, con altro titolo e riconosciuto come un buon
amico. Tali scene di riconoscimento,per le quali il mondo verrebbe ad essere
istruito contro sua voglia, hanno in sé l’imperdonabile difetto di far
vergognare il loro orditore che voleva procurarsi a poco prezzo una piccola
fama; sì che quella vergogna e quella piccola presunzione ne annullano
l’effetto, ché anzi piuttosto spingono a rifiutare un insegnamento acquistato a
tal prezzo. L’esecuzione di un tale piano sarebbe ad ogni modo già
fallita,perché per la sua attuazione si esige che la parola chiave dell’enigma
non venga detta in anticipo. Questo è invece quanto è già accaduto nel titolo.
Se questo saggio avesse avuto una tale intenzione, non se ne sarebbero dovute
presentare le parole chiave fin dall’inizio, bensì, come il ministro nella
commedia, si sarebbe dovuto percorrere l’intera recita avvolti nella
sopravveste e soltanto all’ultima scena sbottonarla e far risplendere la stella
della sapienza. E poi lo sbottonarsi della sopravveste metafisica non
presenterebbe questa volta così bene come quello della sopravveste
ministeriale, perché quel che esso porterebbe alla luce sarebbe nulla più che
un paio di parole; e il meglio della burla dovrebbe essere quello di mostrare che
la società era da lungo tempo in possesso della cosa; alla fine essa avrebbe
acquistato solo un nome, mentre la stella del ministro significa un qualcosa di
ben più reale, un sacco di quattrini.
Che cosa è “pensare”, che cosa è “astratto”, e il fatto che
ognuno lo sappia è già scontato nella buona società: ed in essa noi ci
troviamo. Il solo problema è dunque chi sia che pensa astrattamente.
L’intenzione non è, come già si è ricordato, di conciliare la società con
queste cose, di pretendere da lei di dedicarsi a qualcosa di difficile, di
insinuarle nella coscienza che essa trascura nella maniera più avventata ciò
che per rango e condizione si addice ad un essere dotato di ragione. Piuttosto
l’intenzione è di conciliare il bel mondo con se stesso; ché se in realtà esso
non si fa altrimenti scrupolo di una tale trascuratezza,tuttavia davanti al
pensare astratto ha, per lo meno interiormente, un certo rispetto, come davanti
a un qualcosa di elevato; e se lo evita, non è perché gli sembri troppo misero,
bensì troppo alto, non troppo comune, bensì troppo nobile; o, al contrario,
perché gli sembra una éspèce, un qualcosa di particolare, un qualcosa per cui
non ci si mette in mostra nella società, come per una nuova moda, bensì ce se
ne esclude e ci si rende ridicoli come con un vestito povero, o anche con uno
ricco, ma adorni di un gioiello incastonato all’antica, o con uno più ricco
ancora ma da tempo diventato un ricamo da cineseria.
Chi pensa astrattamente? L’uomo incolto, non quello colto.
La buona società perciò non pensa astrattamente, perché ciò è troppo facile,
troppo basso (basso, non secondo l’esteriore condizione sociale); non per una
vuota affettazione di tenersi lontani da ciò che non si può fare, ma proprio a
causa dell’intrinseca miseria della cosa. Il pregiudizio e l’attenzione per il
pensare astratto è così grande che i fiuti sottili annuseranno qui in
precedenza una satira o un’ironia. Ma, da lettori della pagina del mattino,
sanno che su una satira è posto un premio, e che io preferirei concorrervi e
vincerlo piuttosto che presentare già qui senz’altro i miei argomenti. Per il
mio asserto mi serve addurre soltanto esempi; e ognuno converrà che lo
contengono. Dunque: un assassino è condotto al patibolo: per la gente comune è
nulla più che un assassino. Forse delle signore osserveranno che è un uomo
forte, bello, interessante. Quella gente trova quest’osservazione orribile:
cosa? Un assassino bello? Come si può essere così mal pensanti e dire bello un
assassino? Anche voi non siete proprio niente di meglio. E il sacerdote che
conosce il fondo delle cose e dei cuori forse aggiunge: questa è la
depravazione che domina tra le persone distinte! Un conoscitore di uomini
ricerca il processo in cui si è svolta la formazione del delinquente, trova
nella sua storia, nella sua cattiva educazione, una cattiva situazione
familiare del padre e della madre, un’atroce severità per una qualunque lieve
mancanza di questo uomo, che lo irritò contro l’ordine civile, una prima
reazione contro quest’ordine che lo scacciò e gli rese possibile mantenersi
ancora soltanto con il delitto. Può ben esserci della gente che, quando udrà
tali cose, dirà:costui vuole scusare quell’assassino. Del resto ricordo, nella
mia giovinezza, di aver udito un borgomastro lamentarsi che gli scrittori si
spingono troppo in là e distruggono cristianesimo e onestà; uno aveva scritto
addirittura una difesa del suicidio: un orrore, un vero orrore! Poi da
un’ulteriore indagine, risultò che si trattava dei Dolori del giovane Werther.
Questo pensare astrattamente, nell’assassino non vedere
niente altro che questo astratto, che è un assassino, e con questa semplice
qualità cancellare in lui tutta la restante essenza umana. Ben diversamente si
comportò il fine e sensibile mondo di Lipsia: cosparse e coronò di fiori la
ruota ed il reo ad essa legato. Ma questa è di nuovo l’astrazione opposta.I
cristiani possono ben intessere croci di rose o piuttosto rose di croci,
avvolgere la croce con le rose. La croce è la forca e la ruota da gran tempo
santificata. Essa ha perduto il suo significato univoco di essere lo strumento
di una pena infamante, e dà al contrario la rappresentazione del più alto
dolore e della più profonda umiliazione insieme con la più gioiosa estasi e
divino onore. Ma la croce di Lipsia intrecciata di viole e rosolacci è una
conciliazione alla Kotzebue, una sorta di confusionario accostamento di
sentimentalità e malvagità.
Ben diversamente udii una volta una vecchia popolana
dell’ospizio uccidere l’astrazione dell’assassino e vivamente rendergli onore.
Il capo mozzo giaceva sul patibolo,c’era la luce del sole: “Eppure come è
bello, disse; il sole benefico di Dio illumina la testa di Binder!”. A un
ribaldo con il quale si è in collera si dice: tu non meriti che il sole ti
illumini.Quella donna vide che il capo dell’assassino era illuminato dal sole,
e che dunque ne era ancora meritevole. Ella lo solleva dal castigo del patibolo
alla grazia raggiante di Dio: non realizza la conciliazione mediante le sue
violette e la sua sentimentale vanità, bensì lo vede accolto nella grazia del
più alto sole.
“Vecchia, le vostre uova sono marce” dice l’acquirente alla
bottegaia. “Cosa, replica costei, le mie uova marce? Marcia sarà lei! Lei dirmi
questo delle mie uova, lei? I pidocchi non hanno divorato suo padre in mezzo
alla strada? E sua madre non è scappata con i francesi? E sua nonna non è morta
all’ospizio? Ma si compri una camicia per la sua sciarpa di lustrini! Si sa, si
sa da chi ha avuto questa sciarpa e questo cappello: se non ci fossero gli
ufficiali, ora qualcuna non sarebbe così agghindata, e se le signore per bene
vegliassero sulla loro casa qualcuna sarebbe in prigione. Almeno si rattoppi i
buchi delle calze!”. In breve, non le lascia più nulla di buono. Pensa
astrattamente: la classifica per la sciarpa, il cappello, la camicia eccetera,
per le dita e le altre parti del corpo, o ancora per il padre e l’intero
parentado, e tutto per la colpa di aver trovato marce le uova; tutto in lei,
senza eccezione, è dipinto a partire da queste uova marce, mentre quegli
ufficiali di cui la bottegaia ha parlato – posto che c’entrino, ma c’è da
dubitarne – avrebbero potuto vedere ben altre cose.
E per venire dalla domestica al servitore, nessun servitore
sta peggio che presso un uomo di basso ceto sociale e di poca sostanza; tanto
meglio invece sta quanto più aristocratico è il suo signore. L’uomo comune, di
nuovo, pensa astrattamente: verso il servitore fa l’aristocratico e si comporta
con lui solo come un servitore, e insiste perfino in questo unico modo di
chiamarlo. Ottimamente il servitore si trova presso i francesi.L’uomo di
elevata condizione è familiare con il servitore, il francese gli è perfino buon
amico; quando sono soli, è addirittura il servitore che comanda: si veda
Jacques le fataliste et son maiître di Diderot; il signore non fa altro che
fiutare tabacco e guardare l’orologio;in tutto il resto lascia fare il
servitore. L’aristocratico sa che il servitore non è soltanto un servitore,
bensì conosce anche le novità della città, le ragazze, ha in capo buone idee;
egli lo interroga su ciò, e il servitore può dire quel che sa di ciò che il
principale domanda. Presso un padrone francese il servitore non soltanto può
far questo, ma anche porre temi sul tappeto, avere e sostenere la propria opinione,
e quando il padrone vuole qualcosa non comanda, bensì deve anzitutto ragionare
con il servitore della sua idea e dirgli una buona parola perché la sua
opinione abbia il sopravvento.
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