mercoledì 10 agosto 2016

Il proletariato non è il soggetto della storia*- Moishe Postone**

*(Estratto dal libro di Moishe Postone, « Temps, travail et domination sociale. Une réinterprétation de la théorie critique de Marx », pp. 519-524, Mille et une nuits, 2009)        Da:     http://francosenia.blogspot.it/ 
** Moishe Postone è uno storico canadese, professore di storia all'Università di Chicago. Dal 1972 al 1982 ha vissuto a Francoforte sul Meno dove è stato collaboratore dell'Istituto di Ricerche Sociali.
Ora, possiamo tornare alla questione del ruolo storico della classe operaia e della contraddizione fondamentale del capitalismo, così come viene trattata implicitamente da Marx nella sua critica della maturità. Nel concentrarmi sulle forme strutturanti la mediazione sociale, costitutive del capitalismo, ho mostrato che la lotta di classe non genera, in sé e per sé, la dinamica storica del capitalismo; in realtà, essa è un elemento motore di questo sviluppo solo perché è strutturata da delle forme sociali intrinsecamente dinamiche. Come si è già detto, l'analisi di Marx respinge l'idea che la lotta fra la classe capitalista ed il proletariato sia una lotta fra la classe dominante nella società capitalista e la classe che reca in sé il socialismo e che, di conseguenza, il socialismo rappresenti l'auto-realizzazione del proletariato. Quest'ultima idea è strettamente legata alla comprensione tradizionale della contraddizione fondamentale del capitalismo in quanto contraddizione fra la produzione industriale ed il mercato e la proprietà privata. Ciascuna delle due grandi classi del capitalismo viene identificata come uno dei termini di questa "contraddizione"; l'antagonismo fra lavoratori e capitalisti viene perciò visto come l'espressione sociale della contraddizione strutturale fra le forze produttive ed i rapporti di produzione. Tutta questa concezione si basa sul concetto di "lavoro" visto come fonte trans-storica della ricchezza sociale e come elemento costitutivo della vita                                                                                                         sociale.

Ho criticato i postulati che stanno alla base di questa concezione, spiegando nel dettaglio le distinzioni operate da Marx fra il lavoro astratto ed il lavoro concreto, fra il valore e la ricchezza materiale, e mostrando la centralità che tali distinzioni hanno nella sua teoria critica. A partire da queste distinzioni, ho sviluppato la dialettica del lavoro e del tempo che si trova al cuore dell'analisi marxiana del modello di crescita e della traiettoria di produzione che caratterizzano il capitalismo. Secondo Marx, lungi dall'essere la materializzazione delle sole forze produttive, che sono strutturalmente in contraddizione con il capitale, la produzione industriale fondata sul proletariato è completamente modellata dal capitale; essa è la materializzazione delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Non può quindi essere assunto come un modo di produzione che, immutato, potrebbe servire da base al socialismo. In Marx, la negazione storica del capitalismo non può essere intesa come una trasformazione che renderebbe adeguato il modo di distribuzione al modo di produzione industriale sviluppato sotto il capitalismo.

lunedì 8 agosto 2016

Il lungo XX secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo - Vladimiro Giacché


 "Raccontare la storia del lungo XX secolo consiste in gran parte nel mostrare come e perché il regime di accumulazione statunitense: 1) emerse dai limiti, dalle contraddizioni e dalla crisi del capitalismo del libero scambio della Gran Bretagna come struttura regionale dominante dell'economia-mondo capitalistica; 2) ricostituì l'economia-mondo su basi che resero possibile un'altra tornata di espansione materiale; 3) ha raggiunto la propria maturità e sta forse preparando il terreno per l'emergere di un nuovo regime dominante"   (Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, 1994, p: 313)


Nella storia del capitalismo il Novecento - il cui inizio Giacché data nel 1896, quando finisce la Grande Depressione iniziata nel 1873 - è stato il secolo USA. L'ultima crisi, esplosa in forme acute dal 2007, ne segna il declino e apre nuovi orizzonti.


E' possibile e auspicabile che la crisi che segna la fine del lungo XX secolo ci riconsegni la consapevolezza della possibilità di un "livello superiore di produzione sociale", rilanciando l'idea di una regolazione dell'economia da parte dei produttori associati.

La tendenza, intrinseca al capitale, ad oltrepassare ogni limite nella sua espansione diviene un fattore esplosivo qualora ad essa si pretenda di informare la politica estera.
Già dal 1913 gli USA sono la prima potenza industriale del mondo, esprimendo il 33% della produzione industriale mondiale: poco meno di Gran Bretagna, Germania e Francia messi insieme; nel 1929 il rapporto salirà a 42% contro 28%.

Un'eccezione, nel panorama della crisi mondiale è rappresentata dall'URSS dei piani quinquennali: dal 1929 al 1940 la produzione industriale triplica, salendo dal 5% della produzione manifatturiera mondiale (quota del 1929) al 18% (quota del 1938).

Fu solo grazie all'ingresso nella seconda guerra mondiale e alla messa in opera della macchina bellica relativa, e non grazie agli investimenti  di Roosevelt in opere pubbliche a carattere civile, che gli USA riuscirono a risollevarsi dalla Grande Crisi degli anni trenta.

Il "miracolo economico" del periodo postbellico fu favorito anche dall'enorme distruzione di capitale in eccesso avvenuta con la guerra che eliminò la sovrapproduzione, come pure la popolazione lavoratrice eccedente.

Nel 1971 (fine del  gold-exchange standart) il dollaro diviene una moneta assolutamente fiduciaria, senza riferimento alle riserve in oro della Federal Reserve, ma resta il perno del sistema monetario internazionale, inondato di dollari: da 30mrd nel 1958 ad oltre 11.000 nel 2004.

La fine dell'Urss marca uno spartiacque nella storia del XX secolo, e conferisce al capitalismo conteporaneo l'aura, più ancora che della superiorità, della definitività: "Non esiste altra società all'infuori di me", grida ogni giorno da ogni mezzo di informazione il capitalismo contemporaneo. Bisogna però distinguere tra ideologia e concreto processo storico, in punto di vista economico. A quest'ultimo riguardo, infatti, l'esultanza per la fine dell'Urss lasciò presto il campo a nuove preoccupazioni. E il venir meno del "Nemico" esterno accentuò i conflitti intercapitalistici.

L'eccesso di credito e di finanza non era né una viziosa deviazione dal corso sano e ordinato dell'economia, né una malattia, semmai il sintomo e al contempo la droga che ha permesso di non avvertirla. La malattia era un'altra: la stentata valorizzazione del capitale.

Nella crisi attuale confluiscono due diversi processi: la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi a capitalismo maturo, e la più specifica crisi del regime di accumulazione statunitense, che ha dominato il secolo passato ma non dominerà il nostro.

Ora la possibilità del passaggio ad un modo superiore e meno primitivo di produzione sociale è proprio ciò che nei nostri anni è stato violentemente rimosso, appiattendo il futuro sulla semplice continuazione del presente. La possibilità di un "livello superiore di produzione sociale" è stata accantonata come un'utopia totalitaria, facendo dell'attuale il migliore dei mondi possibili - anzi, l'unico. E' da anni ormai, che l'accettazione di questa limitazione del nostro orizzonte storico-sociale è divenuta un fenomeno di massa. E' tempo di intendere che il prezzo di questa accettazione sta diventando decisamente troppo alto. E' possibile e auspicabile che la crisi che segna la fine - ritardata di qualche anno rispetto al calendario - del lungo XX secolo ci riconsegni questa consapevolezza, rilanciando l'idea di una regolazione dell'economia da parte dei produttori associati: il progetto marxiano di 
"fare della proprietà privata individuale una verità trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, ora principalmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di un lavoro libero e associato" (Marx 1871: 300).



domenica 7 agosto 2016

L'imperialismo oggigiorno: che cos'è e dove va*- Guglielmo Carchedi



Intervento di Guglielmo Carchedi, dell’Università di Amsterdam, realizzato alla Tavola Rotonda su: “Natura imperialista dell’Unione Europea e forme della lotta di classe” organizzata, sabato 9 gennaio 2016, a Napoli dalla Rete dei Comunisti, dai compagni della Mensa Occupata - Noi Saremo Tutto e dai compagni del Laboratorio ISKRA di Bagnoli.


I. Con la disfatta storica del movimento operaio, la parola ‘imperialismo’ è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed è stata rimpiazzata da ‘globalizzazione’. Tuttavia, se la parola è scomparsa, la realtà persiste.

Vediamo prima di tutto cosa non è l’imperialismo. Prendiamo ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare una valutazione anche minimamente completa .

Nell’Impero di Negri, mentre l’imperialismo era un’estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini nazionali, ora l’Impero è un network globale di potere e contro potere senza un centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti intervengono militarmente nel nome della pace e dell’ordine (p.181).

Ma è ovvio

(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti

(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate

(3) che l’imperialismo, lungi dallo scomparire si sta trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso

(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere la pace, è un’affermazione che glorifica e giustifica quell’imperialismo di cui Negri nega l’esistenza.

Consideriamo allora una persona più seria, Lenin. Posso solo soffermarmi solo su alcuni aspetti economici. Il suo testo sull’Imperialismo, anche se vecchio di un secolo, per alcuni versi è ancora attuale, anche se ovviamente deve essere aggiornato.

venerdì 5 agosto 2016

LA QUESTIONE DEL SALARIO*- Riccardo Bellofiore


Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano. Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta la sua vita, all’infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per mangiare e così via, è preso dal suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia da soma. Egli non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri, è fisicamente spezzato e spiritualmente abbrutito. Eppure, tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione. 
Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865


1. Introduzione

Tutti ormai parlano di una ‘questione salariale’. I modi, certo, sono diversi: ma che il il potere
d’acquisto dei lavoratori sia stato compresso, e compresso al punto tale che una qualche reazione
che contrasti questa deriva economicamente e socialmente pericolosa sia ormai necessaria, è ormai
senso comune. Si ripete quello che è già avvenuto qualche anno fa con la denuncia del ‘declino’
italiano. Una denuncia nata, dapprincipio, ‘a sinistra’, che poi diviene generale, e per ciò stesso ne
viene non poco snaturata.

La destra ha, come sempre, una ricetta elementare: lasciate ripartire lo sviluppo, magari
grazie alla massima deregolazione del mercato del lavoro, e se possibile grazie all’abbattimento più
generale possibile delle garanzie. La disuguaglianza che eventualmente si producesse di
conseguenza verrebbe automaticamente corretta dal meccanismo di mercato, e lo stesso benessere
reale dei lavoratori ne guadagnerebbe. Il contributo dello Stato a questa prospettiva sta puramente e
semplicemente nel farsi da parte: magari riducendo le tasse su lavoro e capitale, visto che proprio
non le si può cancellare.

Se ci muoviamo verso il centrosinistra – tanto più ‘compassionevoli’ siano i neoliberisti,
tanto più orientati alla riregolamentazione e redistribuzione siano i social-liberisti – i toni cambiano
un po’. Lo sviluppo non basta da sé, né il ‘lasciar fare’ è la panacea universale. E’ vero, la
globalizzazione e i rischi di derive inflazionistiche (provenienti peraltro dalle materie prime e dai
beni alimentari) sconsigliano aumenti del salario monetario, che darebbero vita a una minore
competitività. Gli effetti di miglioramento sul tenore di vita sarebbero presto azzerati. Ma proprio le
‘liberalizzazioni’, la lotta alle ‘rendite’, ovunque esse si annidino, possono determinare una
modificazione dei prezzi relativi che valga a calmierare i prezzi dei beni acquistati dai lavoratori
(aumentando, perciò, il salario reale a parità di salario monetario), e allo stesso tempo consenta di
ridurre (direttamente o indirettamente) i costi per le imprese. L’equivalente odierno delle riforme-
grano di Ricardo.

giovedì 4 agosto 2016

IL SANDALO E IL MANTELLO*- Gianfranco Pala

*[in Saggi in onore di Federico Caffè, vol. II] Angeli, Milano 1992     http://www.gianfrancopala.tk/ 

Quando Empedocle di Agrigento

si fu procurata la reverenza dei suoi concittadini insieme
agli acciacchi della vecchiaia,
decise di morire. Ma siccome
amava alcuni pochi, che lui riamavano,
non volle dinanzi a costoro annullarsi ma piuttosto
entrar nel Nulla.
Li invitò ad una gita. Non tutti:
questo o quello dimenticò, sì che nella scelta
e in tutta l’iniziativa
il caso sembrasse commisto.
Ascesero l’Etna.
Lo sforzo della salita
consigliava il silenzio. Nessuno ebbe a dire
parole di sapienza. Lassù
                                                                                                         ripresero fiato per tornare al ritmo consueto del sangue,
                                                                                                        intenti al panorama, lieti di essere alla meta.

Li abbandonò, inosservato, il maestro.
Quando ripresero a parlare, non si avvidero
ancora di nulla: soltanto più tardi
qua e là mancò una parola, e si volsero a cercarlo.
Ma già da tempo egli era oltre il dosso del monte,
pur senza troppo affrettarsi. Una volta soltanto
sostò e allora udì
come remota, da dietro la vetta,
riprendeva la conversazione. Le parole
non si potevano distinguere più: incominciava il morire.
Quando fu presso al cratere,
volto il capo, non volendo conoscere il seguito,
che non lo riguardava più, il vecchio si curvò lentamente,
sciolse con cura il sandalo dal suo piede, lo gettò sorridendo
di fianco, a pochi passi, sì che non troppo presto
lo si potesse trovare, ma pure in tempo; e cioè
prima che fosse marcito. Soltanto allora
venne al cratere. Quando gli amici suoi
furono senza di lui ritornati cercandolo,
cominciò a grado a grado per settimane e mesi
la sua scomparsa, com’egli aveva voluto. C’era
chi l’aspettava ancora mentre già altri
cercavano da soli le soluzioni. Lentamente, come nuvole
nel cielo si allontanano, immutate, appena più piccole,
e più si fanno, quando non le si guardino, più lontane,
e, se le cerchi di nuovo, già forse confuse con altre, così
s’allontanava egli dalla loro consuetudine, in modo consueto.
Poi sorse una diceria:
che morto non fosse, perché non mortale, si disse.
Il mistero lo avvolse. Si riteneva possibile
che oltre la sfera terrestre altro ci fosse: che il corso
delle cose umane potesse per un solo uomo mutarsi; e simili chiacchiere.
Ma fu trovato in quel tempo il sandalo suo, di cuoio,
palpabile, consunto, terrestre! Lasciato per quelli
che, se non vedono, subito cominciano col credere.
La fine dei suoi giorni
ritornò naturale. Come chiunque altro era morto.

Altri descrivono invece l’accaduto
altrimenti: quell’Empedocle
avrebbe davvero tentato di garantirsi onori divini
e con un’evasione misteriosa, un’astuta
caduta nell’Etna, senza testimoni, fondar la leggenda
che egli non fosse di natura umana né sottoposto
alle leggi della decadenza. Ma che allora
il sandalo gli avesse giocato il tiro di cader nelle mani degli uomini.
(Altri dicono persino che sia stato il cratere, irato,
per una simile iniziativa, a sputar via semplicemente
il sandalo di quel degenerato). Ma noi qui preferiamo credere
che se realmente non si fosse tolto il sandalo, avrebbe piuttosto
dimenticato soltanto la nostra stoltezza, senza pensare che noi
precipitosamente vogliamo far più buio quel che è buio, preferendo
credere a cose insulse, invece di cercare un motivo plausibile. E il monte
- ma non sdegnato però per tanta trascuratezza o nemmeno persuaso
che colui avesse voluto ingannarci per scroccare onori celesti
(ché nulla crede il monte e di noi non si cura)
ma anzi vomitando fuoco come sempre - avrebbe allora sputato
il sandalo e i discepoli così
- già occupati a fiutar qualche grande mistero,
a svolgere profonda metafisica; fin troppo occupati! -
afflitti dovettero a un tratto fra le mani tenersi quel sandalo
del maestro, fatto di palpabile cuoio, terrestre.

 Alla storia di Empedocle e del suo sandalo - narrata da Bertolt Brecht, nella scrittura italiana dovuta a Franco Fortini - è affidato qui un ruolo molto più rilevante di quello che potrebbe avere una semplice parabola introduttiva. La lezione integrale della poesia non è un vezzoso “occhiello”, ma è parte essenziale, da meditare profondamente, di quanto si espone. Se non fosse per la bisogna di una certa convenzione accademica, così potrebbe iniziare e terminare nel miglior modo il pensiero, e l’omaggio, che si vuole esprimere. Ma la scienza economica, tristemente, non lo consente.

Il sandalo del maestro, fatto di palpabile cuoio terrestre, mal si ac­compagna al mantello degli “affarucci” keynesiani. Quel mantello, già buca­to e coperto di fango - secondo la metafora di Abba Lerner, ricordata da Caffè stesso - fu l’oggetto di penosi tafferugli, tra i molti che vollero spar­tirselo, tirandolo e strappandolo a destra e a manca. Quello è lo stesso man­tello cui costantemente guardò Caffè, ma senza la pretesa di appropriarsene, consapevole forse del diverso stile di portamento che avrebbe imposto.

Se le dichiarazioni di intenti e gli strumenti keynesiani furono l’os­satura dell’intera opera di Caffè, ben più amari di quelli visitati da lord Key­nes dovettero alfine risultare i suoi presupposti e i suoi obiettivi. Proprio costì - nell’illusorietà, protrattasi oltre ogni credibile riscontro, di una sperata adeguatezza di quegli strumenti al perseguimento degli intenti di­chiarati di giustizia sociale - ha proliferato la solitudine del riformista. Tradendo consapevolmente quel riferimento keynesiano, che Caffè stesso voleva, per considerare i “punti fermi” di una economia sociale progressista, qui si desidera mostrare sommariamente, invece, proprio l’incompatibilità di ultima istanza tra quei punti e l’impianto teorico politico di lord Keynes.

mercoledì 3 agosto 2016

Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte* - Karl Marx (1852)


Hegel [1] nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. Caussidière [2] invece di Danton [3], Louis Blanc [4] invece di Robespierre [5], la Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-1795, il nipote invece dello zio. È la stessa caricatura nelle circostanze che accompagnano la seconda edizione del 18 brumaio [6]

Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo [7]; la rivoluzione del 1789-1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell’Impero romano [8]; e la rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789, ora della tradizione. rivoluzionaria del 1793-1795. Così il principiante che ha imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna ma non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando si muove in essa senza reminiscenze, e dimenticando in essa la propria lingua d’origine.

Al solo considerare queste evocazioni storiche di morti, si palesa tosto una spiccata differenza. Camille Desmoulins [9], Danton, Robespierre, Saint-Just [10], Napoleone, tanto gli eroi quanto i partiti e la massa della vecchia Rivoluzione francese adempirono, in costume romano e con frasi romane, il compito dei tempi loro, quello di liberare dalle catene e di instaurare la moderna società borghese. Gli uni spezzarono le terre feudali, e falciarono le teste feudali cresciute sopra di esse. L’altro creò nell’interno della Francia le condizioni per cui poté cominciare a svilupparsi la libera concorrenza, poté essere sfruttata la proprietà fondiaria suddivisa, e poté essere impiegata la forza produttiva industriale, della nazione liberata dalle sue catene; e al di là dei confini della Francia spazzò dappertutto le istituzioni feudali, nella misura in cui ciò era necessario per creare alla società borghese in Francia un ambiente corrispondente sul continente europeo [11]. Una volta instaurata la nuova formazione sociale disparvero i mostri antidiluviani; e con essi disparve la romanità risuscitata: i Bruti, i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo stesso Cesare [12].

domenica 31 luglio 2016

IL RUOLO IDEOLOGICO-POLITICO DI TELESUR*- Alessandra Ciattini


Nello squallido e mistificante panorama dei mass media internazionali risalta il lavoro informativo di Telesur, la catena televisiva voluta dal presidente Hugo Chávez, e che impiega schemi interpretativi utili a stimolare la riflessione critica degli spettatori. Una metodologia che si contrappone all'approccio puramente emotivo e individualista tipico dei media nostrani.

La catena televisiva Telesur è operativa ormai da più di dieci anni, sette giorni su sette e ventiquattro ore su ventiquattro, diffonde notizie e propone approfondimenti degli avvenimenti più rilevanti, che invadono spesso con la loro violenza incomprensibile la nostra vita quotidiana, utilizzando numerosi corrispondenti in varie parti del mondo. I suoi programmi, in spagnolo e recentemente anche in inglese, possono essere recepiti in forma gratuita via cavo, via satellite, in digitale terrestre e in streaming. Il suo motto è “el nuestro Norte es el Sur”, parole con cui si indica la prospettiva dalla quale si vuole guardare alla società contemporanea con le sue contraddizioni laceranti, osservata appunto con gli occhi dei popoli del sud del mondo, oggetto della depredazione secolare portata avanti dalle potenze del nord. In questo senso, dunque, nord e sud costituiscono delle entità geopolitiche che sembrerebbero muoversi secondo linee difformi, in particolare là dove i paesi “meridionali” acquisiscono quegli spazi di agibilità politica, che garantiscono loro una certa indipendenza; sia pure essendo questa sempre limitata dagli interventi diretti e indiretti della superpotenza statunitense, sostenuti dagli stessi organismi internazionali, sul cui statuto super partes è sempre più legittimo dubitare.

Telesur nasce per contrastare il dominio dei pochi gruppi che controllano la comunicazione televisiva e a mezzo stampa in America Latina, e soprattutto la CNN, che trasmette in spagnolo e che quindi può fornire ai latinoamericani, anche quelli residenti negli Stati Uniti, la sua visione del mondo, attraverso la lettura politicamente orientata di quegli eventi, che opportunamente selezionati, vengono presentati al pubblico [1].

sabato 30 luglio 2016

MARX E LA PENA*

Testo tratto da: Friedrich Engels - Karl Marx Critica della critica critica Contro Bruno Bauer e soci. Editori Riuniti, Roma 1967. Titolo originale: "Die heilige Familie oder Kritik der kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer und Consorten". Traduzione e cura di Aldo Zanardo.




"Il mistero svelato del «punto di vista»"

«Rodolfo non rimane fermo al suo elevato» (!) «punto di vista... egli non teme la fatica di occupare con libera scelta i punti di vista che stanno a destra e a sinistra, in alto e in basso». Szeliga.

Uno dei misteri principali della critica critica è il «punto di vista» e la valutazione del punto di vista del punto di vista. Per lei, ogni uomo, così come ogni prodotto spirituale, si trasforma in un punto di vista. Niente è più facile che scoprire il mistero del punto di vista, se si è penetrato il mistero generale della critica critica, consistente nel riscaldare nuovamente il vecchio cavolo speculativo.

Sia anzitutto la critica stessa a esprimersi per bocca del patriarca, del signor Bruno Bauer, sulla sua teoria del «punto di vista». «La scienza... non ha mai a che fare con questo individuo singolo o con questo punto di vista determinato... Indubbiamente, essa non mancherà di fare ciò, e supererà il limite di un punto di vista, se ne vale la pena e se questo limite ha realmente un significato umano universale; ma essa considera questo limite come pura categoria e determinatezza dell'autocoscienza e parla quindi solo per coloro che hanno l'ardire di elevarsi all'universalità dell'autocoscienza, cioè per coloro che con tutte le loro forze non vogliono rimanere in quel limite» («Anekdota», vol. 2, p. 127)

Il mistero di questo ardire baueriano è la "Fenomenologia" di Hegel. Poiché, qui, Hegel pone al posto dell'uomo l'autocoscienza, la realtà umana più diversa appare solo come una forma determinata come una determinatezza dell'autocoscienza. Una semplice determinatezza dell'autocoscienza è, però, una «pura categoria», un semplice «pensiero», che io quindi posso sopprimere anche nel «puro» pensare e posso superare mediante il pure pensare.

Nella "Fenomenologia" di Hegel i fondamenti materiali, sensibili, oggettivi, delle diverse figure alienate dell'autocoscienza umana sono lasciati sussistere e tutta quanta l'opera distruttiva ha avuto come risultato la filosofia più conservatrice, dato che si crede di avere superato il mondo oggettivo, il mondo sensibilmente reale, appena lo si è trasformato in una «cosa del pensiero», in una semplice determinatezza dell'autocoscienza e appena si può quindi dissolvere l'avversario, diventato etereo, nell'«etere del pensiero puro».

La "Fenomenologia", quindi, si conclude conseguentemente con il porre, al posto di tutta la realtà umana, il «sapere assoluto»: il sapere, perché questo è l'unico modo di esistere dell'autocoscienza e perché l'autocoscienza rappresenta l'unico modo di esistere dell'uomo; sapere assoluto, appunto perché l'autocoscienza sa soltanto se stessa e non è più disturbata da un mondo oggettivo. Hegel fa dell'uomo l'uomo dell'autocoscienza, anziché fare dell'autocoscienza l'autocoscienza dell'uomo, dell'uomo reale, vivente quindi in un inondo reale, oggettivo, dell'uomo condizionato da questo mondo.

Hegel pone il mondo sulla testa e quindi può anche risolvere nella testa tutti i limiti, con il che naturalmente essi continuano a sussistere per la cattiva sensibilità, per l'uomo reale. Inoltre, egli considera necessariamente come limite tutto ciò che rivela la limitatezza dell'autocoscienza universale, tutta la sensibilità, tutta la realtà, tutta l'individualità, degli uomini e del loro mondo. Tutta la "Fenomenologia" vuole dimostrare che l'autocoscienza è la sola realtà e tutta la realtà.

Negli ultimi tempi il signor Bauer ha ribattezzato il sapere assoluto chiamandolo critica, e la determinatezza dell'autocoscienza chiamandola "punto di vista", che è parola dal suono più profano. Negli «Anekdota», i due nomi rimangono ancora insieme, e il punto di vista è ancora spiegato mediante la determinatezza dell'autocoscienza. Poiché il «mondo religioso in quanto mondo religioso» esiste solo come il mondo dell'autocoscienza, il critico critico - teologo ex professo - non può affatto arrivare al pensiero che ci sia un mondo in cui coscienza ed essere sono distinti, un mondo che continua a sussistere, se io sopprimo semplicemente la sua esistenza pensata, la sua esistenza come categoria, come punto di vista, cioè se io modifico la mia propria coscienza soggettiva senza mutare la mia propria realtà oggettiva, la mia propria e quella degli altri uomini. L'identità mistica, speculativa, di essere e pensiero, si ripete, perciò, nella critica, come l'identità egualmente mistica di prassi e teoria. Di qui la rabbia della critica contro la prassi, che vuole essere anche qualcosa di diverso dalla teoria e contro la teoria che vuole anche essere qualcosa di diverso dalla dissoluzione di una categoria determinata nell'«universalità illimitata dell'autocoscienza».

La teoria della critica si limita a dichiarare che tutto ciò che è determinato è un'opposizione rispetto all'universalità illimitata dell'autocoscienza, e che quindi è un nulla; così per esempio lo Stato, la proprietà privata, eccetera. E' necessario all'opposto dimostrare che Stato, proprietà privata, eccetera, trasformano gli uomini in astrazioni, o che sono prodotti dell'uomo astratto, anziché essere la realtà degli uomini individuali, concreti. E' chiaro di per sé infine che, se la "Fenomenologia" di Hegel, nonostante il suo peccato originale speculativo, dà in molti punti gli elementi per una reale caratterizzazione dei rapporti umani, il signor Bruno e soci forniscono invece solo la caricatura priva di contenuto, una caricatura che si accontenta di estrarre da un prodotto spirituale, o anche da rapporti e movimenti reali, una qualsiasi determinatezza, di trasformare questa determinatezza in una determinatezza del pensiero, in una categoria, e di far passare questa categoria come il punto di vista del prodotto, del rapporto e del movimento, per potere quindi, con sapienza presuntuosa, dal punto di vista dell'astrazione, della categoria universale, dell'autocoscienza universale, guardare giù trionfalmente verso questa determinatezza.

Come per Rodolfo tutti gli uomini si collocano nel punto di vista del bene o in quello del male e sono giudicati secondo queste due rappresentazioni fisse, così, per il signor Bauer e soci, tutti gli uomini si collocano nel punto di vista della critica o in quello della massa. L'uno e gli altri trasformano però gli uomini reali in punti di vista astratti.

venerdì 29 luglio 2016

Il senso della Politica - Francesco Valentini



                                                                                                       http://www.raiscuola.rai.it/articoli/francesco-valentini-stato-e-democrazia-la-politica/4636/default.aspx

- Le procedure democratiche senza fortune livellate sono vuote;

le fortune livellate senza procedure democratiche sono cieche. - 

mercoledì 27 luglio 2016

Un mondo senza guerre*- Domenico Losurdo



Una replica ad Antonio Carioti
Estratto da: Pace. Una storia tormentata tra idee e realt
                                                                          Intervista di Emiliano Alessandroni, su marx21.it

... Su «La Lettura» del «Corriere della Sera» (03/07/2016), Antonio Carioti sembra implicitamente riabilitare una logica argomentativa cara ad Ernst Nolte, sia pure aggiornata ai giorni nostri: l'Occidente e gli Stati Uniti hanno commesso crimini atroci, ma si tratta di congiunture, effetti collaterali sopportabili pur di scongiurare quella che costituisce la più grande minaccia per la pace: il superamento del sistema capitalistico. Questo, qualora si verificasse, trasformerebbe invero il pianeta in un cumulo di "formicai" o di "cimiteri". Sì che le guerre di Wilson o Bush jr sarebbero ben poca cosa in confronto alla spietatezza di Lenin o Mao, campioni, assieme al socialismo, non già dell’ideale di pace, ma dell'intolleranza e della violenza di classe. Che cosa risponderesti a queste accuse? Il sistema capitalistico resta pur sempre, come il Corriere vuole indurre a pensare, il più pacifista, il meno violento, dei sistemi realmente possibili?

Nel tracciare il bilancio degli ultimi due secoli di storia, l’ideologia dominante, assunta da Carioti come un dogma indiscutibile, fa astrazione dalle colonie. Se invece superiamo questa astrazione arbitraria e falsificante, ecco che il quadro cambia in modo radicale. A metà dell’Ottocento, a proposito dell’Irlanda, colonia della Gran Bretagna, Beaumont, il compagno di Tocqueville nel corso del viaggio in America, parla di «un'oppressione religiosa che supera ogni immaginazione»; le angherie, le umiliazioni, le sofferenze imposte dal «tiranno» inglese a questo «popolo schiavo» dimostrano che «nelle istituzioni umane è presente un grado d'egoismo e di follia, di cui è impossibile definire il confine». In quello stesso periodo di tempo, Herbert Spencer, filosofo liberale e neoliberista, descrive in che modo procede l’espansionismo coloniale (portato avanti in primo luogo da paesi di consolidata tradizione liberale): all'espropriazione degli sconfitti fa seguito il loro «sterminio»: a farne le spese non sono solo gli «indiani del nord-America» e i «nativi dell'Australia». Il ricorso a pratiche genocide in ogni angolo dell’Impero coloniale britannico: in India «è stata inflitta la morte a interi reggimenti», colpevoli di «aver osato disobbedire ai comandi tirannici dei loro oppressori». 

martedì 26 luglio 2016

Michel Foucault: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione*- by fernirosso

*Da:   https://cartesensibili.wordpress.com      http://www.controappuntoblog.org/   
Ascolta anche:     https://www.youtube.com/watch?v=9Bm3dd0D4KA 
                               https://www.youtube.com/watch?v=JB49i2qazTY 

Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993. 


 Ritornando alla riflessione sull’architettura, se la tana di Kafka è esemplificativa di un’architettura di difesa dall’altro, il testo seguente riguarda invece un’architettura del controllo dell’altro, ossia uno spazio che diviene disciplinare, sezionato e parcellizzato per controllare l’altro: lo spazio diventa disciplina.

 Nel capitolo tratto dal testo sopraccitato e intitolato Panoptismo, Foucault inizia dalla storia. Foucault infatti racconta storie in cui importanti ricerche storiografiche vanno ad intrecciarsi a mirabili riflessioni teoriche.

 Durante il XVII secolo, quando la peste si manifestava in una città, venivano immediatamente prese delle misure di sicurezza. Per cominciare, veniva fatta una rigorosa divisione spaziale in settori della città; di seguito, città e terreno agricolo circostante venivano chiusi con l’interdizione di uscirne, pena la vita; infine venivano uccisi tutti gli animali randagi. Ogni strada era posta sotto l’autorità di un sindaco che aveva il compito di sorvegliarla; se per qualsiasi motivo l’avesse lasciata, sarebbe stato punito, senza deroghe, con la morte. Un determinato giorno, designato precedentemente, si ordinava che ciascuno si rinchiudesse entro la propria casa; dopo di che, il sindaco andava personalmente a chiudere a chiave le case e quindi rimetteva la chiave nelle mani dell’intendente di quartiere che la conservava fino alla fine della quarantena. Ogni famiglia aveva delle sue provviste e per fare transitare il vino e il pane venivano preparate delle piccole condutture in legno tra strada e case; per il resto delle cibarie venivano usate delle carrucole e delle ceste. In città non circolavano che gli intendenti, i sindaci, i soldati della guardia e i “corvi”, miserabili che trasportavano i cadaveri e li seppellivano.

 A questo punto, è chiaro che l’architettura rappresenta il fil rouge della nostra riflessione. Quale è il tipo di architettura che riscontriamo in questo preciso momento storico? Troviamo un’architettura in cui lo spazio è recintato, chiuso, delimitato; un’architettura in cui ciascuno è stivato al suo posto e se si muove ne va della sua vita, causa la possibilità di contagio o di punizione.

domenica 24 luglio 2016

CORPO E CITTA’: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese. 15 years later* - Paolo F. Peloso


Parte I.                                       Genova non ha scordato. Perché è difficile dimenticare.  F. Guccini, Piazza Alimonda, 2004 (https://www.youtube.com/watch?v=KbfIscqYKOE

2001-2016. 15 anni dopo: another word was possible?

Sono passati 15 anni da quelle tumultuose giornate del luglio 2001 e una domanda mi pare che oggi s’imponga: un altro mondo è stato possibile? Credo di no, o se sì, è decisamente un mondo peggiore. Credo che questo dimostri come la domanda di un altro mondo, migliore, che la moltitudine scesa in piazza a Genova rivolgeva agli otto grandi fosse una domanda colma di urgenza e di significato. La scelta di non prenderla neppure in considerazione ha avuto le conseguenze devastanti che ci sono ogni giorno sotto gli occhi.
Nei giorni del G8 sono accadute a Genova cose che, ragionandoci a 15 anni di distanza, paiono surreali, incredibili. Appare incredibile, ripercorrendo oggi quelle strade dove “viaggia il traffico solito, scorrendo rapido e irregolare” (Guccini), che esse - automobili, bancomat, vetrine - siano state per due giornate abbandonate al saccheggio della (piccola) parte più adolescenziale, superomista e irresponsabile del movimento, in un’ubriacante illusione di anarchia. Mentre “un pensionato ed un vecchio cane” magari passeggiavano lì accanto, senza timore. Ancora più surreale e angosciante si avverte la carica di ferocia che dal seno delle forze dell’ordine di una Repubblica europea nata dalla Resistenza ha potuto sprigionarsi per le strade, alla scuola Diaz-Pertini e a Bolzaneto. La foga, la rabbia e la passione con le quali si vedono nei video alcuni poliziotti, carabinieri, finanzieri accanirsi a picchiare persone intrappolate, inermi, spesso già sanguinanti lasciano allibiti. Come pure il fatto che l’accertamento dei fatti e delle responsabilità sia stato ostacolato in modo così pervicace e arrogante e reso solo in minima parte possibile, nonostante il nobile e ostinato impegno della Procura genovese, e ricordo il PM Enrico Zucca in particolare.
Questa impudente impunità, che ha riguardato anche il personale medico al cui coinvolgimento abbiamo già fatto riferimento, oltre a dimostrare un’incapacità dello Stato a criticare se stesso (che in democrazia non è mai buona cosa), costituisce una grave insidia in primo luogo proprio per chi apparentemente se ne è avvantaggiato, e poi per la società nel suo complesso; la straordinaria capacità di approfondire aspetti psicologici e ricadute sociali di questo fenomeno, che Dostoëvskij dimostrava scrivendone nelle Memorie di una casa di morti del 1862, dovrebbero essere di monito:

«Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro uomo come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l'immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di essere padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un'abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell'abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia.  Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all'intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali.  L'uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, alla rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l'esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce in modo contagioso anche su tutta la società: un simile potere è tentatore. La società che assiste con indifferenza a un simile fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto della punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, e uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo».

venerdì 22 luglio 2016

Critica della società e critica dell'economia. Domande e appunti su una assenza negli scritti sul "sessantotto", vent'anni dopo* - Riccardo Bellofiore

*scritto nel marzo 1989, e pubblicato nel 1990 in Il Sessantotto: l’evento, la storia (Annali della Fondazione Luigi Micheletti, vol. 4, a cura di Pier Paolo Poggio, Brescia, pp. 155-169)                 https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts 

          "la lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del processo produttivo [...] la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni '60, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento"  (Claudio Napoleoni)

"Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia". (da Lettera a una professoressa)


Un non protagonista  

Del "sessantotto" sono stato uno spettatore, e pure ha segnato in qualche misura quello che sono diventato. Ne sono stato uno spettatore, innanzitutto, per ragioni di spazio e di tempo. Tra la fine del sessantasette e l'estate del sessantotto - l'arco di tempo in cui il "sessantotto" più vero si sviluppa a Torino come a Trento, a Pisa come a Roma - ero difatti molto giovane, e vivevo altrove: del "sessantotto" mi giungeva un' eco un po' vaga, e ricordo che mi dava un certo fastidio, come di una moda tra le tante dei ruggenti anni sessanta. Ero piccolo, ma tremendamente moralista già allora.

domenica 17 luglio 2016

Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: tre epoche di una dominazione* - Saïd Bouamama

*Da:     Le blog de Saïd Bouamama        https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ 




Iraq, Libia, Sudan, Somalia ecc. , la lista di nazioni ridotte in pezzi a seguito di una guerra e di un intervento militare statunitense e/o europeo continua a allungarsi. Al colonialismo diretto di una «prima fase» del capitalismo e al neocolonialismo di una «seconda fase» sembrerebbe succedere la «terza fase», quella della balcanizzazione. Contemporaneamente, si può constatare una mutazione nelle forme del razzismo. A quello biologico ha fatto seguito, dopo la Seconda guerra mondiale, un razzismo culturalista, quest’ultimo da alcuni decenni tende a declinarsi, a partire dal fattore religioso, sotto la forma dominante, al momento, dell’islamofobia. Ci troviamo, a nostro modo di vedere, in presenza di tre storicità strettamente articolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.


Ancora su Cristoforo Colombo

La visione eurocentrica dominante spiega l’emergere e il diffondersi del capitalismo a partire da fattori interni alle società europee. Ne deriva la nota tesi che vorrebbe alcune società (alcune culture, religioni ecc.) dotate di una storicità, laddove altre ne sarebbero prive. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 «il dramma dell’Africa è che l’uomo africano non è realmente entrato nella storia» (1), non fa che riprendere un ritornello delle ideologie di giustificazione dello schiavismo e della colonizzazione:

«La «destoricizzazione» gioca un ruolo decisivo nelle strategie di colonizzazione. Essa legittima la presenza dei colonizzatori e certifica l’inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali, poi le «scienze coloniali» hanno imposto un postulato sul quale si è costruita la storiografia coloniale: l’Europa è «storica» mentre «l’astoricità» caratterizza le società colonizzate definite come tradizionali e immobili. […] L’Europa, guidata dai suoi valori intellettuali e spirituali compie, attraverso l’espansione coloniale, una missione storica, portando nella Storia popoli che ne erano stati privati o rimasti fissi a uno staio di evoluzione della storia superato dagli europei (stato di natura, medioevo, ecc.).» (2)

Carla Maria Fabiani: Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel* - Georgia Zeami


Rileggere la filosofia politico-giuridica di Hegel alla luce di una categoria strettamente teoretica e logica, qual è quella del riconoscimento (die Anerkerkennung), se per un verso significa muovere dal formalismo della ragione alla concretezza della fattualità, per l’altro coincide con l’ambizioso tentativo di rintracciare delle «aperture nella sistemica hegeliana» (p. 19), una sistemica apparentemente chiusa. Chiave di volta per compiere un simile percorso è la categoria della plebe (die Pöbel), ben distinta da Hegel dalla semplice povertà – ovvero dalla nullatenenza di beni che accompagna le società precapitalistiche – e intesa dall’autrice come giuntura strategica delle analisi economico-politiche hegeliane. Il saggio della Fabiani, articolato in due macrosezioni, dedicate l’una all’analisi della genesi dello stato nelle lezioni jenesi (1803-1806) e l’altra all’emersione della specificità della categoria di plebe nella Filosofia del diritto, propone un’indagine volta all’individuazione di un carattere intrinsecamente problematico del pensiero hegeliano che, lungi dal poter essere ridotto a un sistema filosoficamente compiuto e perciò speculativamente sterile, si rivela quale controverso e complesso snodo aporetico della modernità. L’insorgenza di una sostanziale dinamicità nel ragionamento politico hegeliano mostra poi, per contrasto, l’insufficienza di certa lettura marxista e neomarxista che, attestandosi miopemente sull’immagine inveterata di una filosofia reazionaria e statalista, non è riuscita a rendere conto della complessità di un sistema che piuttosto che fuggire le aporie le contempla, invece, al proprio interno come nodi  inestricabili di una realtà eccedente, ad ogni passo, il formalismo della ragione. Da qui l’originalità della lettura della Fabiani – seppure in linea con le posizioni di Weil e con il versante italiano costituito da Salvucci e Valentini  – che, contrariamente a molti eccellenti tentativi, teoreticamente ineccepibili ma storicamente discutibili, rende ragione del profondo radicamento delle riflessioni hegeliane nella temperie politico-culturale del suo tempo, una lettura attuata non tanto forzando arbitrariamente i contenuti, quanto rivelandone una vitalità interna quasi insospettabile. Al fianco di una puntuale analisi dei testi, il saggio della Fabiani contiene infine un interessante compendio dedicato alla disamina delle posizioni critiche (pp. 161-192), un compendio che a mio avviso potrebbe fungere da guida alla lettura dell’intero volume.

Il saggio si apre con un attento esame del termine plebe nell’alveo delle riflessioni hegeliane. Determinato come status sì economico, ma anche sociale e politico – contrariamente alla povertà che invece indica una condizione strettamente finanziaria –, la plebe sorge con il sorgere della modernità: per un verso essa è il frutto compiuto del liberismo economico, ovvero dell’imporsi dell’idea del lavoro come autosussistenza, per l’altro è la deriva incontrollata del liberalismo politico, e cioè il luogo sociale in cui domina un certo sentimento dell’ingiustizia subita (p. 16). Dalle analisi politiche emerge, tuttavia, un’ulteriore accezione che inerisce tanto alla sfera etica quanto, o forse proprio perciò, a quella teoretica. Hegel, ci dice Fabiani, usa il termine sia nell’accezione di volgo o senso comune, sia in quella di intelletto negativo astratto (p. 17). Così intesa, la categoria di plebe richiama immediatamente – pur sottraendosi, come vedremo, ad essa – la dialettica del riconoscimento. Il filosofo di Jena sembra insomma, fin da subito, connotare la plebe come un che di destabilizzante. Comprendendone la perniciosa natura rispetto alla stabilità dello Stato – inteso sia come organismo politico-giuridico sia come espressione dello Spirito –, ne ignora quasi l’esistenza, come giustamente sottolinea Marx, nella logica sistematica. Allo stesso tempo, però, dissemina i suoi scritti di riferimenti strategici che, se correttamente intesi, possono svelare l’intrinseco paradosso che mina la logica ferrea del riconoscimento. È necessario perciò, avverte l’autrice, non solo tornare a rilevare analiticamente un legame, non proprio esplicitato da Hegel (cfr. p. 19), ma addirittura accentuare l’intreccio tra plebe e riconoscimento.

sabato 16 luglio 2016

L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”* - Nadia Garbellini**



La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.

In due studi realizzati con Emiliano Brancaccio e pubblicati sulla Rivista di Politica Economica e sullo European Journal of Economics and Economic Policies, abbiamo cercato di affrontare il tema dei possibili effetti di un’uscita dall’euro alla luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su una statistica descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28 episodi di uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di recente, da una applicazione di quella metodologia è scaturito il contributo di Realfonzo e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi ad altre variabili macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la crescita del Pil e l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione è la seguente: “ […] a meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle politiche europee, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno dato avvio a un interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche a Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due autori, che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi riferimenti analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse di assecondare una retorica di tipo “oracolistico”. A valle della discussione può dunque essere utile tornare sul terreno della ricerca, approfondendo ulteriormente alcuni aspetti salienti dei due studi la cui metodologia ha ispirato il recente contributo di Realfonzo e Viscione.

L’opinione pubblica mercificata* - Giovanna Cracco


 È difficile avere oggi un’idea della dimensione di quella che possiamo genericamente chiamare ‘area antagonista’, inserendo nella definizione ogni realtà culturale o movimentista della società civile che si muove in senso critico rispetto al pensiero dominante neoliberista; da quella più ‘radicale’, che si oppone al capitalismo, di cui il neoliberismo è solo l’attuale fase, a quella ‘socialdemocratica’, che non mette in discussione il sistema economico ma mira semplicemente a mitigarne le caratteristiche di sfruttamento dell’uomo e delle risorse ambientali, attraverso la difesa di uno stato sociale in fase di smantellamento e dei cosiddetti beni comuni. Difficile perché le lotte sono frammentate, ciascuna chiusa nella propria singola identità – per la casa, per l’acqua pubblica, contro l’Expo, la riforma della scuola, la Tav... – e non fa eccezione nemmeno la battaglia per il lavoro, che pur avendo un unico tema si divide in tanti terreni di scontro quante sono le aziende che licenziano, delocalizzano, impongono ricatti ai lavoratori in termini di retribuzione e orario per non chiudere gli stabilimenti.

La debolezza delle lotte, intesa come incapacità di incidere sull’esistente, modificandolo, è evidente. Sconta sicuramente la frammentazione, l’incapacità di comprendere che la lotta è una, sebbene articolata su più campi, perché dietro le singole tematiche vi è un ‘nemico’ comune, ossia il sistema capitalistico: privatizzazioni e riduzione del welfare rispondono alla necessità del Capitale di espandersi in nuovi ambiti, il maggior sfruttamento, ossia bassi salari e lavoro precario a uso e consumo delle oscillazioni della domanda del mercato, risponde al bisogno di recuperare maggiori margini di profitto, ed entrambe le operazioni servono al capitalismo per salvarsi dall’attuale crisi – fino alla prossima, ovviamente.

Ma l’area antagonista sconta anche l’esclusione dal dibattito pubblico, che si muove sui canali mainstream, televisione su tutti e poi grandi giornali, e quando riesce a esservi presente fa i conti con la difficoltà di spostare l’opinione pubblica dalla propria parte.

Non è una questione che possa essere elusa, perché i mezzi a disposizione per cambiare l’esistente sono ben pochi; non è più il tempo di rivoluzioni, e non si vede all’orizzonte un partito che possa dare rappresentanza concreta al pensiero critico, ancor meno a quello radicale. Non resta quindi che la pubblica opinione, in teoria un potere ‘dal basso’ in grado di imporre cambiamenti alla politica. O almeno questo era quando è nata.