mercoledì 13 aprile 2016

Dispotismo* (di ieri, di oggi...) - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 



Marx rimproverò che “Hegel osserva in un punto delle sue opere che tutti i grandi fatti della storia del mondo e i loro personaggi compaiono, per così, a due riprese. Egli ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa”. Il dispotismo che si ripresenta puntualmente nel­l’involuzione della società borghese capitalistica è storia vecchia, che con lo scorrere del tempo sarà sempre più evidente e dura, ma anche drammaticamente ridicola – se si tiene conto che ormai si è giunti alla terza, quarta volta o più. Le gesta di Berlusconi hanno precedenti illustri, nella finzione letteraria e nell’analisi scien­tifica. Da Brecht a Benjamin, da Marx a Engels (per limitarsi agli autori qui parafrasati), ma senza dimenticare altri nomi del calibro di Vico, Lafargue, Lu Hsün, Kraus, han­no visitato ampiamente il tema, di cui qui si vuole offrire un sintetico campionario [repetita juvant].

L’ordinamento giuridico borghe­se e il delitto, secondo le regole del romanzo poliziesco, sono tra loro antagonisti. Nel romanzo poliziesco Il partito di Mackie Messer, il rapporto fra ordinamento giuridico bor­ghese e delitto è rappresentato in modo conforme alla realtà. L’ultimo si rivela come un caso particolare dello sfruttamento che è sancito dal primo. Nei manuali di criminologia i de­linquenti sono indicati come ele­menti asociali. Ma per alcuni la storia contemporanea ha confu­tato questa definizione. Facen­dosi delinquenti, secondo la nuova scuola, molti sono di­ventati modelli sociali. Chi segue tale scuola ha la na­tura di un capo. Le sue parole hanno un tono statale, le sue azioni un tono commerciale. I compiti di un capo non sono mai stati più difficili di oggi. Non basta usare la forza per la con­servazione dei rapporti di pro­prietà. Non basta obbligare gli stessi espropriati al proprio sfruttamento. Questi compiti pratici esigono di essere risolti. Ma come da una ballerina non si pretende solo che sappia danzare, ma anche che sia graziosa, così il fascismo non esige solo un salvatore del capi­tale, ma anche che egli “appaia” come un gentiluomo. È questo il motivo per cui un tipo così, in questi tempi, ha un valore inesti­mabile. Egli è capace di osten­tare ciò che il piccolo borghese intristito ritiene tipico di una per­sonalità. Nessuno vuole dargli spiegazioni, uno deve farlo. Ed egli lo può. Poiché questa è la dialettica della cosa: dato che egli vuole assumersi la respon­sabilità, i piccoli borghesi lo rin­graziano con la promessa di non chiedergli conto di nulla.

martedì 12 aprile 2016

Le lacrime di Confindustria* - Antonella Stirati


Anche se la quota salari presenta delle fluttuazioni legate al ciclo economico, è evidente una tendenza di lungo periodo negativa: dalla fine degli anni 1970 sino al 2007 vi è una riduzione della quota tra i 5 e i 10 punti di PIL. Solo dopo la crisi del 2007 la quota del lavoro aumenta. Le cause vanno dunque ricercate nella crisi stessa – che nata come crisi finanziaria è poi diventata, grazie in larga misura alle politiche di austerità, una crisi da caduta della domanda interna. 

La crisi genera un andamento sfavorevole della produttività, che dopo una forte caduta nel 2008 e 2009 torna a crescere nei due anni successivi, per poi declinare nuovamente rimanendo intorno ai livelli raggiunti nel 2007, e provoca anche una riduzione dei prezzi nel settore manifatturiero, sia in assoluto che relativamente all’indice dei prezzi al consumo. 

Conseguenza di questo è che i redditi da lavoro del settore manifatturiero diminuiscono in termini di prezzi al consumo dopo il 2010, ma aumentano in termini del valore della produzione manifatturiera. Tanto l’andamento della produttività che la divergenza tra prezzi al consumo e prezzi della produzione manifatturiera sono le cause della crescita della quota dei salari sul PIL

Diversamente dall’analisi proposta da Confindustria, che data l’inizio della crescita della quota salari al 1998, i dati qui presentati mostrano che l’aumento della quota dei salari sul Pil è strettamente legato alla crisi economica successiva al 2008; che i redditi medi da lavoro in termini di potere d’acquisto sono stagnanti dal 2010, e che all’origine dell’aumento della quota dei salari nell’industria manifatturiera e nel settore privato vi sono fenomeni – la caduta/stagnazione della produttività e dei prezzi, in particolare nel settore manifatturiero – strettamente legati all’andamento negativo della domanda e del PIL.

Conclusioni

La richiesta da parte di Confindustria di rimediare alla caduta della quota dei profitti e alla caduta degli investimenti attraverso una compressione dei salari rischia di aggravare la situazione, come già segnalato recentemente da numerosi economisti con l’appello Un contratto per il futuro. Ormai numerosissimi studi applicati mostrano che una diminuzione della quota dei salari riduce la domanda interna per consumi senza stimolare gli investimenti (cfr ad esempio Stockhammer, 2011) e quindi una caduta del potere d’acquisto dei salari approfondirebbe la crisi da domanda interna della economia italiana, determinando, a livello macroeconomico, sia il proseguimento della contrazione degli investimenti e con essi del sistema produttivo, sia effetti negativi sulla crescita della produttività, che come abbiamo visto dipende in misura rilevante dall’andamento della domanda aggregata e del PIL.

lunedì 11 aprile 2016

Le classi nel mondo moderno II. La complessità del conflitto* - Alessandro Mazzone

*Da:    http://www.proteo.rdbcub.it/
Prima parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/le-classi-nel-mondo-moderno-alessandro.html
Terza parte:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-iii-nuove.html 


Chi edificò Tebe dalle sette porte?

Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi    
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge. 


Supponiamo per prima cosa di avere: da una parte il lavoro vivo, valore d’uso della forza lavoro, acquistata come ogni altra merce (e, per clausola di astrazione, al suo valore pieno, che varia naturalmente secondo le condizioni storico-sociali della sua riproduzione, compreso dunque il costo della sua formazione e il mantenimento della prole, senza di che il lavoro vivo cesserebbe presto di esistere). Dall’altra parte, i mezzi di produzione, separati dal lavoratore, che perciò non ha altro da alienare che la sua forza lavoro. Questa separazione - risultato, nel mondo moderno, di un lungo e doloroso processo di espropriazione dei produttori diretti, contadini e artigiani - è il primo elemento concettuale che permette di costruire la nozione di “classi” [1]. Infatti, abbiamo con ciò dall’altra parte i detentori dei mezzi di produzione [di qui innanzi: MP]: i quali dunque disporranno di un potere di comando sulla forza-lavoro [di qui innanzi: fl], poiché essa potrà operare, essere effettivamente lavoro vivo, soltanto se e in quanto essi la vogliano utilizzare.

Ma possiamo noi, con questo solo elemento, dire: ecco le “classi”, da una parte i lavoratori, dall’altra i detentori dei MP? No. La clausola di astrazione, introdotta da Marx in 1,5,2, importa per ora soltanto la continuità nel tempo del RP attraverso le diverse condizioni date, e solo dal lato dei lavoratori. Essa vuol dire che essi potranno sussistere, formarsi e riprodursi - ecco tutto. Ma ancora non sappiamo né come il RP funzioni, né come esso si produca [2], né come il suo contenuto si modifichi nello sviluppo del processo di produzione - che peraltro, come sappiamo, è in definitiva processo di produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro nella natura. Abbiamo dunque finora soltanto, per così dire, una linea divisoria ideale, che separa due spazi. E dai due lati di questa ideale linea divisoria non abbiamo ancora (come molti, invece, hanno creduto) “capitale” e “lavoro” nel loro divenire, modificarsi, svilupparsi secondo leggi interne, ma soltanto il dato ogni volta immediatamente presente, e che non possiamo ricondurre al processo complessivo in cui le classi effettivamente si formano e operano. Non lo possiamo, perché non abbiamo gli elementi per collegare il “dato” al “processo”. Non abbiamo, in altre parole, una forma di movimento.

La forma di movimento è quella del capitale stesso. Esso non è soltanto rapporto di capitale tra capitalisti e salariatima processo del capitale.

domenica 10 aprile 2016

Finanza perversa ed economia reale altrettanto perversa. Alle origini della crisi* - Riccardo Bellofiore (2009)

*Da:    http://www.alternativeperilsocialismo.it/

 Affronterò essenzialmente due questioni: la natura della crisi e i tempi, l’Europa. 

 Il quesito che cerco di pormi da qualche anno, in riflessione congiunta con Joseph Halevi, è quale crisi di quale capitalismo stiamo vivendo. L’ultima nasce come crisi finanziaria il 9 luglio 2007, istantaneamente è anche crisi bancaria tradotta da settembre-ottobre scorsi in maniera del tutto evidente in crisi reale. 

 Molti i luoghi comuni per affrontarla, che hanno sempre un aspetto di verità ma anche un altro distorcente. Si tratta di una crisi finanziaria che uccide un’economia reale? Questa mi sembra una posizione discutibile perché quello che cercherò di sottolineare è l’intreccio tra una finanza perversa e una economia reale altrettanto perversa.

 L’altra tesi è che sia la crisi di un mondo di bassi salari, in cui c’è stata una redistribuzione a danno del lavoro che alla fine si traduce in una crisi da domanda.
Di nuovo questo - come la perversione della finanza - è un fatto reale ma spiega molto poco perché è esistente da molto tempo. 

 Terzo luogo comune: è una crisi del neoliberismo - e anche qui c’è una verità - ma il neoliberismo viene inteso come sostanzialmente il ritorno dopo il 1980 a politiche di “lasciar fare”, mentre a mio parere siamo vissuti in un pieno di politiche economiche e si tratta di capirle. 

La tendenza alla stagnazione

 Come riportato dal Financial Times il 2 marzo 2009, si tratta di una crisi più grave di quella del 1973 e della new economy - simile a quella arrivata a metà della crisi del 1929 - dopo c’è stata una ripresa azionistica e borsistica che si tratterebbe di commentare. Se ci collochiamo in un’ottica di lungo periodo vediamo che questa nuova grande crisi dopo quella del Trenta, in cui la crescita del Pil fu solo dell’1.3, sta dentro un rallentamento dei tassi di crescita dagli anni Settanta in poi e sostanzialmente il periodo dagli anni Ottanta a oggi vede prevalere una tendenza alla stagnazione.

sabato 9 aprile 2016

BREVI NOTE SU IDEALISMO E MATERIALISMO* - Aristide Bellacicco**

*Da:   http://www.lacittafutura.it/
**Collettivo di Formazione marxista Stefano Garroni


La polarità idealismo-materialismo ha caratterizzato a lungo, e fino ai nostri giorni, il dibattito sulla relazione fra il pensiero di Hegel e quello di Marx. Ma si potrebbe tentare, come d'altra parte già è stato fatto, una lettura dei due filosofi che superi questa secca contrapposizione e lo schematismo che, a partire da Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, ha segnato uno dei nodi teorici più importanti in seno al movimento comunista. 



Prendo le mosse da un'arcinota definizione di Hegel, che si trova nella prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, riguardante l'essenza della filosofia. "La filosofia" scrive Hegel in quel testo "è il proprio tempo appreso in pensieri." Scrutando bene in questa definizione si possono mettere in evidenza due cose: 

  1. esiste qualcosa come "il proprio tempo"
  2. questo "qualcosa" non coincide con il pensiero ma è da quest'ultimo fatto proprio attraverso un processo di apprendimento
Il "proprio tempo" è dunque "esterno" al pensiero: fra le due istanze esiste una relazione ma non un'identità.

Un'analoga relazione si può rintracciare nel Marx dellaIntroduzione alla critica dell'economia politica (1857). Scrive Marx in questo frequentatissimo testo: "Il concreto è concreto perché è la sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice... il metodo di risalire dall’astratto al concreto è il solo modo per il pensiero di appropriarsi del concreto, di riprodurlo come concreto nello spirito. Mai però il processo di genesi del concreto stesso."

È possibile sostenere che fra l'hegeliano "proprio tempo" e il marxiano "concreto" esista un'omologia di significato? 

Dialoghi di profughi VII.* - Bertolt Brecht



LE MEMORIE DI ZIFFEL, PARTE III. – DELL’ISTRUZIONE.


Ziffel stava tirando fuori di tasca alcune pagine delle sue memorie, quando Kalle gli rivolse in fretta una domanda.

KALLE     E’ forse stato un incidente particolare, che la indusse a tagliare la corda? Nelle sue memorie non dice niente. Vi è espressa soltanto una gran voglia di andarsene.

ZIFFEL     Non ne ho fatto parola, perché non può essere di interesse generale. Avevamo un assistente, all’istituto di fisica, che non distingueva un protone da un nucleo. Era convinto che il sistema democratico, infeudato agli ebrei, gli impedisse di emergere, e perciò si iscrisse al partito. Un giorno dovetti correggere un suo lavoro, e lui trovò che non m’inserivo nello spirito della rivoluzione nazionalsocialista e che l’odiavo perché era per il Comediavolosichiama. Questo bastava a rendere problematica la mia permanenza nel paese quando il Comediavolosichiama prese il potere. Io sono per natura incapace di abbandonarmi fiduciosamente ai grandi entusiasmi collettivi e non sono degno di essere guidato da capi energici. Nelle grandi epoche gente come me disturba l’armonia del quadro. Sentii parlare di certi campi dove si voleva proteggere dal’ira del popolo gente come me, ma non mi attiravano proprio per niente. Ora continuerò a leggere.

KALLE     Lei vuol dire che non si riteneva abbastanza preparato per quel paese?

ZIFFEL     Di gran lunga meno preparato per poter continuare a vivere da uomo in mezzo a tutto quel sudiciume. La chiamo pure debolezza, ma io non sono così umano da poter restare uomo alla vista di tanta disumanità

KALLE     Conoscevo una tale che era chimico e fabbricava gas velenosi. In privato era un pacifista e aveva tenuto conferenze alla gioventù pacifista contro la follia della guerra. Diventava molto violento nei suoi discorsi, tanto che dovevamo sempre ammonirlo a moderarsi nelle espressioni.

ZIFFEL     Perché lo lasciavate parlare?

giovedì 7 aprile 2016

Indirizzo inaugurale dell'Associazione internazionale degli operai (Prima Internazionale)* - Karl Marx

*Da:   www.resistenze.org
Marx - Engels, Opere Complete, vol. 20. settembre 1864-luglio 1868, Editori Riuniti, Roma, 1987, pp. 5-13 trascrizione a cura del CCDP a 190 anni dalla nascita di Karl Marx (5 maggio 1818). 
Leggi anche sulla "miseria" dei nostri tempi:   http://www.oxfamitalia.org/il-boom-delle-disuguaglianze/


"Ma si aveva di riserva una vittoria ben più grande dell'economia politica del lavoro sull'economia politica della proprietà. Intendiamo parlare del movimento cooperativo e, specialmente, delle manifatture cooperative erette attraverso gli sforzi spontanei di alcuni uomini audaci. Il valore di queste grandi esperienze sociali non può essere esaltato al di sopra della realtà. Non attraverso argomenti, ma attraverso azioni, esse hanno provato che la produzione su larga scala e in accordo con le esigenze della scienza moderna può venir esercitata senza l'esistenza di una classe di padroni che impieghi quella dei manovali; che i mezzi del lavoro, per rendere, non hanno bisogno d'essere monopolizzati né d'essere piegati a mezzi di predominio e di sfruttamento contro il lavoratore; e che il lavoro salariato, cosi come il lavoro degli schiavi, il lavoro dei servi, non è che una forma transitoria e inferiore, destinata a sparire di fronte al lavoro associato, che espleta il proprio assunto in modo vivace, con spirito alacre e con animo felice. I primi semi del sistema cooperativo sono stati gettati in Inghilterra da Robert Owen: le esperienze tentate sul continente dalla classe operaia erano infatti un'applicazione pratica delle teorie non inventate, ma soltanto proclamate a piena voce nel 1848."



Indirizzo inaugurale dell'Associazione internazionale degli operai (Prima Internazionale)
Fondata il 28 settembre 1864 nell'assemblea pubblica al St. Martin's Hall Long Acre, Londra (1)

Operai!

È un fatto innegabile che la miseria della massa dei lavoratori non è affatto diminuita dal 1848 al 1864, in un periodo che pure può essere considerato straordinario per uno sviluppo senza esempi (i) dell'industria e per l'aumento del commercio. Un organo moderato della classe media inglese, con un giudizio certamente comune, prediceva nel 1850 che, se in Inghilterra l'esportazione e l'importazione fossero aumentate del 50%, il pauperismo sarebbe caduto a zero! Ahimè, il 7 aprile 1864 il cancelliere dello scacchiere (ii) proclamava in pieno parlamento, felice per questa rivelazione, che il totale delle esportazioni e delle importazioni inglesi è ammontato nel 1863 «alla somma sorprendente [...] di 443.995.000 lire sterline! che supera di circa tre volte il commercio dell'epoca [...] relativamente recente del 1843». Tuttavia, con la medesima eloquenza, egli parlava della «miseria». «Pensate,» esclamava, «a coloro che sono ai limiti della miseria... ai salari... che non sono elevati, alla vita umana che, in nove casi su dieci, non è che una lotta per l'esistenza!» (2) Il cancelliere non parlava degli irlandesi, che nel settentrione sono gradualmente sostituiti dalle macchine, nel meridione dai greggi di montoni: anche i montoni muoiono in questo infelice paese, ma, è pur vero, meno rapidamente degli esseri umani. Egli non ha affatto ripetuto quanto era stato ingenuamente rivelato dai rappresentanti più insigni di 10.000 signori in un violento accesso di terrore. Allorché il panico della garrotta (3) raggiunse un certo livello, la Camera dei lords fece fare un'inchiesta sulla deportazione e il lavoro forzato dei prigionieri. L'assassinio fece la sua apparizione nel voluminoso Libro azzurro del 1863 (4), che, attraverso fatti e cifre ufficiali, ha provato che perfino i peggiori criminali condannati, i forzati dell'Inghilterra e della Scozia, lavorano molto meno duramente e sono molto meglio nutriti degli operai di tutta l'Inghilterra e della Scozia. Ma non basta. Quando, come conseguenza della guerra civile americana, gli operai delle contee di Lancaster e di Chester sono stati gettati sulla strada, la medesima Camera dei lords ha delegato un medico nei distretti industriali, con l'incarico di esaminare quale sia in media la minima quantità di carbonio e di azoto che debba venir somministrata nella forma più semplice e a miglior mercato, «nulla piú che per prevenire la morte per inedia». Il dottor Smith, il medico delegato, s'accertò che per un adulto sono necessari 28.000 grani di carbonio e 1.330 grani (iii) d'azoto, in media, per garantirlo almeno dalla morte per inedia. Egli ha scoperto inoltre che tale quantità non s'allontanava troppo dal magro nutrimento, cui l'estrema miseria di quei tempi aveva ridotto gli operai dei cotonifici (*). Ma udite ancora. Lo stesso saggio medico fu in seguito delegato dalla direzione medica del consiglio segreto (iv) a esaminare gli alimenti della classe operaia piú povera. Il «Sesto rapporto sullo stato della salute pubblica» (5), edito per ordine del parlamento nel corrente anno, contiene i risultati delle sue ricerche. Che mai ha scoperto il medico? Che i tessitori, i cotonieri, i guantai, i calzettai ecc. in media non sempre ricevono nemmeno il misero cibo degli operai cotonieri, neanche la quantità di carboidrati e azotati «appena sufficienti a prevenire la morte per inedia».

martedì 5 aprile 2016

Wittgenstein e la filosofia del linguaggio – Piergiorgio Odifreddi



Zettel presenta: Wittgenstein e la filosofia del linguaggio – Piergiorgio Odifreddi:

Ludwig Wittgenstein nasce a Vienna il 26 aprile del 1889 in una famiglia alto-borghese di origini ebraiche.

All’età di diciassette anni si iscrive alla facoltà di ingegneria dell’Università di Berlino.
Durante gli anni universitari si avvicina alla logica e alla filosofia della matematica, grazie alla lettura delle opere di Gottlob Frege; nel 1912 si iscrive al Trinity College di Cambridge per seguire le lezioni di Bertrand Russell.

Tra il 1913 e il 1914 trascorre alcuni mesi in Norvegia e lì inizia a comporre la sua opera principale, il Tractatus logico-philosophicus, che darà alle stampe nel 1921, con l’introduzione di Bertrand Russell. Il Tractatus diventa presto un testo di riferimento per i filosofi del Circolo di Vienna, che Wittgenstein frequenta, pur non aderendovi ufficialmente.

Nel 1929 il filosofo fa ritorno a Cambridge, dove inizia la sua carriera accademica. Tiene diversi cicli di lezioni e i suoi allievi raccolgono gli appunti in quelli che saranno conosciuti, postumi, come il Libro blu e il Libro marrone.
Negli stessi anni inizia a lavorare alle opere più significative del suo cosiddetto “secondo periodo”: le Ricerche filosofiche e le Osservazioni sui fondamenti della matematica, entrambe pubblicate postume.

Nel 1939 è nominato Professor of Philosophy all’università di Cambridge, ma allo scoppio della Seconda guerra mondiale si allontana dall’ambiente universitario per prestare servizio volontario in un ospedale londinese.

Wittgenstein si spegne a Cambridge il 29 aprile del 1951.

Leggi anche:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/05/temi-wittgensteiniani-stefano-garroni.html

lunedì 4 aprile 2016

Il capitale fisso e l’intelligenza generale della società. Su “general intellect” e dintorni.* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.antiper.org/       http://www.gianfrancopala.tk/     https://rivistacontraddizione.wordpress.com/ 
Il frammento:     http://www.doppiozero.com/materiali/marxiana/frammento-sulle-macchine  




Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione ai lavoratori, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero, e si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale. L’arricchimento di forza produttiva sociale da parte del lavoratore collettivo, e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze produttive individuali di ciascun lavoratore” [K.Marx, Il Capitale, I.12,5]. 






“Le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che l’officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini”, scriveva il maestro di Smith, Adam Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, già nel 1767. E quelle parti “umane” della macchina non contengono più neppure un briciolo di “intelligenza generale” del processo. Tutt’al più conservano, per poco tempo ancora, alcuni segreti e astuzie. La separazione del lavoro dal sapere, anziché essere superata col cosiddetto postfordismo (come alcuni vorrebbero far credere), e tuttavia neppure creata da esso, rimanda alla divisione del lavoro storicamente rilevante nelle società classiste, ai fini dell’affermazione del dominio di una classe (casta, ordine, ecc.), che è quella tra lavoro mentale e lavoro fisico. Con lo sviluppo della grande industria, il lavoro mentale e quello intellettuale (o meramente fisico cerebrale) vengono sottomessi realmente al capitale per la sua autovalorizzazione, nella produzione di plusvalore e poi nella sua circolazione. Non solo, ma i loro stessi risultati, derivanti dalla combinazione del lavoro sociale, sono continuamente incorporati come scienza e tecnica nel corpo materiale delle macchine del capitale.

venerdì 1 aprile 2016

Politiche espansive e crescita debole. Siamo in una stagnazione secolare?* - Vittorio Daniele


1. Una lunga convalescenza

Da qualche anno, le Banche centrali delle principali economie mondiali (Stati Uniti, Eurozona e Giappone) stanno attuando politiche fortemente espansive. La base monetaria, sotto forma di liquidità o di riserve detenute dalle banche commerciali, è aumentata enormemente: negli Stati Uniti, all’inizio del 2016, era quattro volte quella del 2008. La BCE ha adottato una serie di misure espansive, finanziando a basso costo il sistema bancario e attuando un programma di acquisto di attività (quantitative easing) di 80 miliardi di euro mensili per una durata prevista di due anni.

Si tratta di un’iniezione di liquidità senza precedenti, che ha fatto scendere i tassi d’interesse a breve e a lungo termine a valori prossimi allo zero (e, in alcuni casi, negativi, come in Giappone o in Europa). Ciò avrebbe dovuto stimolare gli investimenti e, dunque, i consumi e il reddito. I risultati sono, però, largamente inferiori alle attese. Nell’Eurozona, i dati sul Pil e sull’inflazione mostrano, infatti, come la ripresa sia molto debole. Anche negli Stati Uniti, dove la crescita è più elevata di quella europea, il Pil rimane al di sotto del potenziale (Fig. 1). 

mercoledì 30 marzo 2016

Dialoghi di profughi VI.* - Bertolt Brecht




TRISTE DESTINO DELLE GRANDI IDEE. – IL PROBLEMA DELLA POPOLAZIONE CIVILE.

Ziffel osservava malinconicamente i giardinetti polverosi davanti al ministero degli Esteri, dove dovevano farsi rinnovare il permesso di soggiorno. In una vetrina aveva visto esposto un giornale svedese con le notizie dell’avanzata dei tedeschi in Francia. 

ZIFFEL     Tutte le grandi idee falliscono per colpa degli uomini.

KALLE     Mio cognato le darebbe ragione. Perso un braccio, che era finito negli organi di trasmissione di una macchina, gli era venuta l’idea di aprire un negozio di sigarette con annessa vendita dell’occorrente per cucire, aghi, filo e cotone da rammendo, perché le donne fumano, sì, volentieri, ma non entrano volentieri in una tabaccheria; ma l’idea fallì, perché non gli diedero la licenza. Non che importasse molto, tanto non sarebbe comunque riuscito a mettere insieme i soldi necessari.

ZIFFEL     Non è questo che io chiamo una grande idea. Una grande idea è la guerra totale. Ha letto che in Francia la popolazione civile ha messo i bastoni fra le ruote alla guerra totale? Ha mandato a monte tutti i piani degli stati maggiori, si dice. Ha ostacolato le operazioni militari, perché le fiumane di profughi hanno ingorgato le strade e impedito i movimenti delle truppe. I carri armati si sono impantanati nella massa umana – dopo che finalmente si era riusciti a inventare delle macchine, appunto i carri armati, che non si impantanano nemmeno nel fango altro fino al ginocchio e possono abbattere boschi interi. La gente affamata ha divorato le provviste delle truppe, cosicché la popolazione civile si è rivelata una vera piaga delle cavallette. Un esperto militare scrive con preoccupazione sui  giornali che la popolazione civile è diventata un problema serio per i militari.

KALLE     Per i tedeschi?

lunedì 28 marzo 2016

UNA RILETTURA TEORICA E POLITICA DEL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA - Riccardo Bellofiore

  «Si dissolvono tutti i rapporti stabili ed irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti». 
(Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, p. 87)


LE CONDIZIONI DELLA LIBERTÀ DINAMICA CAPITALISTICA E QUESTIONE DEL SOGGETTO NELL’EPOCA DELLA “GLOBALIZZAZIONE”: UNA RILETTURA TEORICA E POLITICA DEL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA.

Introduzione.

«Lo spettro del comunismo ha cessato di inquietare l’Europa, ma il Manifesto non ha cessato di inquietare i rivoluzionari». 
Wal Suchting, What is Living and What is Dead in the Communist Manifesto?, p. 163.

Riprendere in mano, a centocinquant’anni dalla sua comparsa, il Manifesto del partito comunista può essere fatto con metodi e obiettivi diversi (1). E’ possibile, evidentemente, collocare l’opuscolo nella temperie politica e culturale degli anni in cui vide la luce; come è possibile soggiacere alla tentazione di un confronto immediato tra il testo e la realtà che abbiamo di fronte. Un approccio “storico”, il primo; un approccio “attualizzante”, il secondo.

Esemplare, in un certo senso, del primo è la riedizione della Einaudi, con la lunga e utile postfazione di Bruno Bongiovanni, mentre esemplare del secondo, è l’introduzione che Eric Hobsbawm ha premesso alla ristampa inglese della Verso, uscita anch’essa quest’anno. Entrambe, però, mettono bene in rilievo i rischi di operazioni del genere. Da una parte, la riduzione del Manifesto a “classico”, quando non a documento di un’altra epoca, con una nascosta, ma non meno efficace, sterilizzazione dell’impatto presente di quelle pagine. Dall’altra parte, all’opposto, la rivendicazione al Manifesto di una dimensione profetica, sia pure dimezzata: dove la profezia sta nell’avere anticipato - con la sola colpa di averlo fatto con troppo grande anticipo - i caratteri del capitalismo mondializzato dei nostri giorni; e il suo essere dimezzata sta nella spiacevole circostanza che, giusto quando le previsioni “analitiche” di Marx si sarebbero concretizzate, esse avrebbero al contempo distrutto il soggetto sociale che doveva farsi messaggero di una società futura, meno disumana e portatrice di una libertà più autentica nell’eguaglianza2 . Vi è qui, a me pare, un difetto dovuto a un eccesso di “empirismo”. Si ragiona quasi come se i “fatti” fossero lì, neutri, a consentire di saggiare la validità del costrutto teorico; dal che consegue un ammirato stupore nel verificare quanto lo sviluppo delle forze produttive tratteggiato da Marx nel Manifesto assomigli al nostro presente. E’ evidente, peraltro, che, visto che i fatti neutri non lo sono mai, in questo modo ci si ritrova pressoché sempre a spacciare come non problematica la ricostruzione dominante della realtà attuale, e ci si limita a rivestire l’interpretazione di senso comune di una retorica radicale - tanto più radicale, in effetti, quanto più la descrizione prevalente di come stanno le cose nega qualsiasi possibilità di intervento alle classi dominate.

Hegel e la sua Fenomenologia - Fulvio Papi

domenica 27 marzo 2016

Complessità comuniste, intervista a Stefano Garroni

Per una migliore fruizione audio/video si consiglia di modificare le impostazioni del video (velocità 1,25)



LA FILOSOFIA NON E' VANILOQUIO:    https://www.youtube.com/watch?v=E7B7JHIZuJE


sabato 26 marzo 2016

Migranti e keynesismo militare* - Guglielmo Carchedi

*Da:    http://www.sinistrainrete.info/

I. Nella discussione attuale sugli immigrati si fa una distinzione tra migranti economici e rifugiati politici. Solo i rifugiati politici dovrebbero essere accolti per ragioni umanitarie. I migranti economici dovrebbero essere messi in prigione (come proposto dal partito razzista olandese) o accolti a fucilate (come proposto dal partito razzista tedesco). La distinzione tra rifugiati politici ed economici è falsa, ipocrita e cinica. Se le guerre creano povertà, i rifugiati politici sono anche migranti economici. E se i migranti economici scappano dalla disoccupazione e dalla povertà creata dalle guerre, i migranti economici sono anche rifugiati politici. Tutti devono essere accolti per ragioni umanitarie.
Gli xenofobi e razzisti nostrani se ne fregano delle ragioni umanitarie. Per loro i migranti economici dovrebbero essere respinti perché essi ruberebbero il lavoro agli Italiani. Falso. L'Italia è un paese a forte decrescita. La presenza degli immigrati è tale che se improvvisamente domani partissero, il paese andrebbe a rotoli. Senza gli immigrati, interi settori fallirebbero e molti italiani perderebbero il loro lavoro.
Ma, proseguono i beceri difensori del patrio suolo, se non ci fossero stati gli immigrati, quei lavori sarebbero andati ai lavoratori Italiani. Questo è il tipico esempio in cui si dà la colpa alla vittima. La questione è: chi ruba il lavoro agli Italiani? Non certo gli immigrati. Sono certi imprenditori che, approfittandosi della debolezza contrattuale degli immigrati, possono assumerli illegalmente o comunque a salari inferiori a quelli che dovrebbero pagare ai lavoratori Italiani. Gli immigrati sono le vittime, non i colpevoli. I colpevoli della disoccupazione degli Italiani sono quegli imprenditori Italiani che assumono immigrati invece di Italiani. Sono gli imprenditori che rubano il lavoro agli Italiani per darlo agli immigrati, non sono gli immigrati che rubano lavoro ai lavoratori italiani. E sono gli imprenditori che rubano una parte del salario agli immigrati pagandoli salari inferiori se non infimi.

II. Queste e altre menzogne sono facilmente contestabili. Più difficile da confutare è un'altra menzogna, tanto subdola quanto insidiosa. Essa riguarda il Keynesismo militare e cioè i supposti effetti benefici, sia per il capitale che per il lavoro, delle spese militari indotte dallo stato e del loro effetto a cascata in tutta l'economia. Questo effetto a cascata è chiamato il moltiplicatore keynesiano. Quando applicato alle spese militari esso serve a razionalizzare le guerre (sul suolo altrui, ovviamente). È quindi necessario esaminare la logica della teoria del Keynesismo militare e rivelarne sia gli errori concettuali che il contenuto di classe.
È chiaro che è il capitale che ha generato l'attuale ondata migratoria creando e fomentando le guerre che sono alla sua origine. Le guerre fomentate dai paesi imperialisti richiedono armi che i suddetti paesi sono ben lieti di produrre e esportare. 

venerdì 25 marzo 2016

La nuova frontiera del precariato: i buoni lavoro* - Marta Fana

*Da:    http://www.econopoly.ilsole24ore.com/ 
Leggi la scheda:      http://www.eticaeconomia.it/la-nuova-frontiera-del-precariato-i-buoni-lavoro/ 
Leggi anche:     http://www.wikilabour.it/voucher.ashx



Marta Fana descrive l'evoluzione normativa e le evidenze disponibili sul sistema dei buoni lavoro (i voucher). Fana sottolinea che le riforme del mercato del lavoro hanno costantemente liberalizzato il lavoro accessorio fino ad estenderlo a tutti i settori e ricorda che il Jobs Act ha aumentato i massimali di reddito percepibili. Esaminando i dati Fana documenta la crescita esplosiva dell’uso dei voucher: soltanto nel 2015 ne sono stati venduti più di 71 milioni e i lavoratori, soprattutto giovani, interessati da questa nuova forma di lavoro precario, sono oltre un milione. 



Il rapporto del ministero del Lavoro e dell’Inps sull’uso dei voucher pubblicato oggi approfondisce parzialmente alcuni temi e questioni sollevate nel corso dei mesi sulla progressiva, e inarrestabile, diffusione di questo strumento di regolazione delle prestazioni di lavoro occasionali.

Eravamo rimasti al numero di voucher venduti nel 2015: 114.921.574. Oggi sappiamo che i lavoratori che hanno ricevuto almeno un voucher sono 1.392.906, erano 24.437 nel 2008, anno di introduzione dei voucher per alcune attività legate al settore dell’agricoltura. Poco più della metà sono donne, mentre nella distribuzione anagrafica continua l’ascesa degli under 25 interessati dal lavoro accessorio: rappresentavano poco più del 15% nel 2008, mentre a fine 2015 costituiscono il 31% dei percettori di voucher. Inoltre, l’importo medio percepito nell’anno dai più giovani voucheristi è di 554 euro contro i 700 degli over 65, che rappresentano solo il 3,9 percento dei percettori. Da questo primo dettaglio non è tuttavia possibile capire se il minor reddito dei giovani dipenda da un minore ammontare di ore lavorate per prestazioni occasionali oppure perché soggetti più frequentemente a lavoro irregolare.

Un dettaglio necessario, che purtroppo manca e rende difficile non soltanto la comprensione del fenomeno ma in un certo senso indebolisce “l’intenzione e la volontà del Governo e del ministero di combattere ogni forma di illegalità e di precarietà nel mercato del lavoro e di colpire tutti i comportamenti che sfruttano il lavoro ed alterano una corretta concorrenza tra le imprese”. Scorrendo gli ulteriori approfondimenti presenti nel breve rapporto, è evidente che lo sforzo sin qui fatto da Lavoro e Inps è solo parziale.