domenica 30 novembre 2014

Brevi considerazioni sul proletariato, la crisi e il riformismo oggi - Celso Beltrami

Tra il 2007 e il 2013, i disoccupati (in Italia) sono più che raddoppiati, passando da 1.529.000 a tre milioni e mezzo, il 13,8% della forza lavoro e, per i giovani tra i 15-24 anni, si arriva a toccare il 46% (primo trimestre 2014). L’area della “sofferenza e del disagio occupazionale”, che comprende disoccupati, scoraggiati, cassaintegrati e part-time involontario, tocca oltre nove milioni di persone, ma «probabilmente sono di più»; rispetto al 2012 c’è stato un aumento del 10,1% e rispetto al 2007 del 60,9%, equivalente a oltre tre milioni di individui. Il calo della massa salariale che ne deriva si riflette, ovviamente, sui consumi, diminuiti in percentuali significative, anche e non da ultimo per il settore primario, quello alimentare. Uno studio della CGIL del settembre scorso diceva che c’erano 3 milioni di famiglie (12,3% della popolazione) [che] non riescono a permettersi un pasto proteico ogni due giorni. (il manifesto, 06/09/’13)                                                                                     Un rapporto della Coldiretti rileva, per il 2013, un aumento del 10% – rispetto al 2012 – di coloro che hanno dovuto far ricorso alle mense pubbliche o ai pacchi alimentari, vale a dire 400.000 persone in più, il che porta la cifra complessiva al numero di 4.068.250 (il manifesto, 29/05/’14).                                                                                                                                                                 Ultima annotazione, giusto per sottolineare, oltre che l’infamia, l’assurdità di una formazione sociale in cui il giovanilismo esteriore imperversa nella rappresentazione ideologica del mondo. I giovani sono sempre meno presenti nel mercato del lavoro, come testimoniano immancabilmente i rapporti periodici dell’Istat, mentre è in costante aumento l’occupazione nella fascia d’età tra i 55 – 64 anni, visto che in Italia, come in tanti altri paesi, è stata innalzata la soglia dell’età pensionabile. E’ evidente che un lavoratore anziano non avrà mai l’energia fisica e “morale” di uno giovane, con le ovvie ricadute sulla famigerata produttività, il che conferma, una volta ancora, che, oggi, l’estorsione del plusvalore è perseguita più attraverso l’aumento della torchiatura della forza-lavoro, prevalentemente sotto la forma del plusvalore assoluto, che dell’investimento e della razionalizzazione dei processi produttivi (prevalentemente plusvalore relativo), che comunque non vengono mai meno in assoluto. L’allungamento della “pena del lavoro” riduce la quota di salario differito (la pensione), anche perché accelera il logoramento delle persone e, forse, la loro “dipartita” da questo mondo o dalla “vita attiva”, a costo di subire riduzioni notevoli dell’assegno pensionistico. Anche questo aspetto rientra nell’abbassamento tendenziale del salario al di sotto del valore della forza-lavoro che caratterizza la fase odierna del capitale.

"tra il 1998 […] e il 2004 […] non sono stati meno di trenta milioni i lavoratori che contro la loro volontà hanno perso il lavoro a tempo pieno e il reddito conseguente. Altri milioni sono stati spinti al prepensionamento o hanno subito forme mascherate di licenziamento […]: probabilmente in media il 7-8 per cento dei lavoratori a tempo pieno ha perso il lavoro ogni anno. Con ciò dando quasi sempre l'addio alla propria appartenenza ai ranghi della middle class. Non è stata una catastrofe repentina e di massa, come era successo con la Grande depressione degli anni Trenta. Uno shock che allora sollecitò risposte collettive e altrettanto di massa"( Bruno Cartosio, La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e disuguaglianze negli Stati Uniti, Ombre corte, 2013, pag. 58.)

venerdì 21 novembre 2014

TTIP: la storia si ripete - Alberto Bagnai

E allora chiediamoci perché? Perché i nostri governanti ci stanno consegnando a questo progetto che ha benefici irrisori, costi potenzialmente elevati, ed è contraddittorio con la retorica dell'integrazione europea.
 E la risposta è semplice: perché l'Unione Economica e Monetaria, che ci viene venduta come il momento più alto di realizzazione della nostra identità europea, di un nostro comune progetto europeo, in realtà è il momento più infimo del nostro asservimento all'ideologia e agli interessi statunitensi. Ne ho parlato tante volte, non ci ritorno, ma quello che va capito è il senso complessivo dell'operazione, che secondo me è questo: gli Usa hanno bisogno di un mercato di sbocco perché, da potenza declinante, stanno perdendo potere di signoraggio sui mercati internazionali. Gli sviluppi delle relazioni bilaterali fra i BRICS, e in particolare la dedollarizzazione degli scambi fra Cina e Russia, se dovessero generalizzarsi, significherebbero per gli Stati Uniti la fine del periodo dello "stampa (dollari) e compra (ovunque nel mondo)". Il "privilegio esorbitante", come lo chiamava Valery Giscard d'Estaing, verrebbe meno in un mondo nel quale il dollaro non fosse l'unico e solo strumento di regolazione delle transazioni sui mercati internazionali. A questo punto gli Stati Uniti non potrebbero permettersi più di essere in deficit strutturale netto verso l'estero. Puoi essere "acquirente di ultima istanza" se stampi a casa tua la moneta nella quale acquisti. Quando le cose non vanno più esattamente così, ti conviene avere una posizione equilibrata negli scambi con l'estero, altrimenti le cose si mettono male. Il +1% di esportazioni nette che il TTIP potrebbe arrecare agli Stati Uniti andrebbe proprio nel senso di ridurre il loro deficit (a costo di un aumento del nostro). L'Europa diventerebbe la periferia, in una nuova edizione del romanzo di centro e periferia, da voi tanto amato, dove gli Usa, chiedendoci l'Ani, ci inonderebbero della loro liquidità (con la quale il resto del mondo progressivamente avrebbe iniziato a nettarsi le terga), allo scopo di farci acquistare i loro simpatici bistecconi transgenici.
 Sappiamo tutti quali siano gli incentivi che le élite periferiche traggono dal vendere i propri subalterni alle élite del centro, quindi di cosa ci stupiamo? Direi di nulla: BAU! Non è un cane: vuol dire business as usual.
 E naturalmente qui sento i ragli dei piddini renziani (ormai tocca distinguere): "eh, ma l'euro ci aiuterebbe a difenderci!".

No!
 Noooo!
  Nooooooooooooo!

lunedì 17 novembre 2014

A quali condizioni può sopravvivere l'Euro? - Vladimiro Giachè

...l’argomento solitamente più usato dai sostenitori dello status quo monetario non è economico, ma politico: la fine dell’euro, si dice, sarebbe una catastrofe politica dalle implicazioni imprevedibili, in quanto segnerebbe una battuta d’arresto del processo d’integrazione europeo. Al riguardo sarebbe fin troppo facile osservare che, se questo argomento fosse preso veramente sul serio da chi lo propugna, esso implicherebbe la messa in campo di ogni sforzo e compromesso possibile da parte di tutti al fine di evitare l’accentuarsi di quella divergenza tra le economie che rappresenta il vero solco (non più soltanto economico) che si sta scavando in Europa e che – come ho provato ad argomentare – costituisce un pericolo mortale per la stessa sopravvivenza della moneta unica. Implicherebbe insomma uno sforzo comune (di creditori e debitori) per il riaggiustamento all’interno dell’Eurozona. Ma non vediamo nulla di questo, e vediamo invece il sempre più chiaro prevalere di dinamiche legate ai rapporti di forza. Il punto più importante è però un altro: è proprio questa configurazione dell’Unione Economica e Monetaria, imperniata su un’area valutaria ben lontana dall’essere ottimale (e che quindi accentua e non riduce le distanze tra i paesi che ne fanno parte), ciò che sta distruggendo la solidarietà intraeuropea e pone a rischio la possibilità stessa di una civile convivenza: innescando un blame game distruttivo e inconcludente sulle cause della crisi, accompagnato da un vero e proprio trionfo di politiche beggar thy neighbor. Chi voglia davvero l’integrazione europea non può pensare che essa si possa conseguire proseguendo su questa strada, di fatto limitandosi a mettere un cappello politico-istituzionale (estremamente pericoloso stanti gli attuali rapporti di forze all’interno dell’unione) a un’unione monetaria così mal congegnata e implementata come l’attuale. L’attuale costituzione economica dell’Europa non deve essere “completata”, deve essere cambiata radicalmente. O abbandonata.

lunedì 10 novembre 2014

La caduta del Muro di Berlino. Intervista a Vladimiro Giacché





http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/storia/24734-la-caduta-del-muro-di-berlino-intervista-a-vladimiro-giacche--mizar-09-11-2014.html

morti - Aristide Bellacicco




I  reduci dal Vietnam (non tutti, però) si svegliavano la notte con  la sensazione precisa di essere diventati qualcun altro. Capitava soprattutto ai più giovani.  Si mettevano a  urlare e cercavano uno specchio per guardarsi, ma ecco, anche così non si capacitavano di essere ancora se stessi.
I genitori o le mogli si alzavano,  gli stavano attorno per rincuorarli.
 “Sono i nervi” dicevano “solo i nervi, tesoro, ora finisce”, e in effetti quella sofferenza  terribile si calmava presto,  come se non fosse che un brutto sogno, ma poi,  durante un’altra notte,  ricompariva nello stesso modo e con la stessa forza.
I medici non ci capivano molto, gli psichiatri sparavano diagnosi fantasiose, e forse il solo che aveva le idee chiare in proposito era  l’anziano barman di Whish, il quale sosteneva che l’omicidio è  una malattia grave che colpisce prima la vittima e poi l’uccisore. 
“Quei ragazzi” diceva “ hanno ammazzato un sacco di gente, laggiù. E’ per questo che ora stanno male.”
La maggior parte di quelli che andavano a bere da Whish sentivano fastidio per l’opinione del barman. La giudicavano sciocca e offensiva. Alcuni  reduci, di quelli che  non avevano disturbi né angosce, una sera gli misero quasi le mani addosso.
“Come ti permetti, stronzo” gli urlarono sul viso “quelli erano lì a difendere il paese, che cazzo c’entra l’omicidio,  ringrazia che sei vecchio.”

venerdì 7 novembre 2014

Corso sul "Capitale" (2) - Riccardo Bellofiore

                                         
 Video del secondo incontro del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).

Primo incontro:
    http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/corso-sul-capitale-1-riccardo-bellofiore.html

Intervista a György Lukács - Rossana Rossanda (1965)

Che cosa è il reale? Domanda inesorabile d’un vecchio moscovita

il manifesto, 28 luglio 1991


Ho incontrato György Lukács a Budapest nel 1965. In quegli anni il Partito comunista ungherese era ancora sotto lo choc del ’56 e si presentava come molto più aperto di altri partiti dell’Europa dell’Est. Potei incontrare Lukács senza grandi difficoltà, ma forse perché ero un membro «autorevole» di un partito fratello. Viveva da solo in un appartamentino a un piano elevato davanti all’hotel Gellert, perché la moglie era morta da poco ed egli si apprestava a pubblicare la sua opera completa e una fondamentale «ontologia».

La conversazione ha preso spunto nelle recenti posizioni critiche ed estetiche di Ernst Fischer.

giovedì 30 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - L’ambivalenza di Lenin - Stefano Garroni


 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.


In una lettera a M. Gorki del 13 novembre 1908, così Lenin si esprime: “La Neue Zeit (il giornale ufficiale del partito socialdemocratico tedesco, SPD) … è indifferente alla filosofia, ( il giornale) non è mai stato un accanito sostenitore del materialismo filosofico, e negli ultimi tempi ha pubblicato, senza fare alcuna riserva, gli empiriocriticisti … Tutte le correnti piccolo-borghesi della socialdemocrazia combattono soprattutto il materialismo filosofico, tendono a Kant, al neokantismo, alla filosofia critica. No, la piccola borghesia non ammette neppure sulla soglia di casa sua la filosofia di cui Engels ha gettato le basi nel suo Antidϋhring[-1] .
In una lettera, di poco precedente e sempre indirizzata a Gorki, si legge: “Il terzo argomento (di grande interesse per il giornale bolscevico Proletari) è la filosofia. So bene che la mia impreparazione in questo campo non mi permette di intervenire pubblicamente. Ma come semplice marxista leggo attentamente l’empiriomonista Bogdanov e gli empiriocritici Bazarov, Lunaciarski, ecc., ed essi spingono tutte le mie simpatie verso Plechanov! … In filosofia egli sostiene una causa giusta. Io sono per il materialismo, contro l’<empirio- …> ecc[-2] .”
Dunque, al termine del 1908 Lenin riconosceva l’improponibilità di un suo pubblico intervento in ambito filosofico a causa della sua impreparazione in materia; tuttavia –e con ‘apparente’ contraddizione- poco dopo lo stesso Lenin pubblicava Materialismo ed empiriocriticismo, dunque, non solo un testo dalle pretese filosofiche, ma addirittura con intenti di messa a punto in ambito di filosofia della scienza !

martedì 28 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - Materialismo dialettico, materialismo non dialettico - Aristide Bellacicco


Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro


“Non abbiamo alcuna prova assolutamente conclusiva né della realtà del mondo esterno né dell’esistenza di noi stessi, ma abbiamo buone prove induttive per entrambe le  assunzioni” 
(Hans Reichenbach, La nascita delle filosofia scientifica)

“Lo spazio assoluto, vale a dire il paletto al quale sarebbe necessario che la terra faccia riferimento per sapere se si muove davvero, non ha esistenza oggettiva” (Henri Poincaré).

“L’unica proprietà della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di essere una realtà obiettiva, di esistere fuori della nostra coscienza” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo.)


Ecco tre affermazioni fatte a varia distanza di tempo l’una dall’altra ma soprattutto, ciò che più ci interessa, a partire da visioni del mondo completamente diverse e forse opposte.
Le prime due sono da ricondursi al progressivo venire alla luce del punto di vista della scienza contemporanea, di cui Poincarè e Reichenbach – quest’ultimo, almeno per un certo periodo, vicino al neopositivismo e al Circolo di Vienna – costituiscono due importanti punti di riferimento; la terza, di Lenin, è contenuta in un suo famoso scritto filosofico: Materialismo ed empiriocriticismo, edito in Russia nel 1908.

Questo libro, scritto nel vivo di una polemica che opponeva Lenin ad importanti esponenti del Partito (in particolare Bogdanov e Lunatcharsky) acquistò nel tempo una decisiva importanza fino a rappresentare, nell’ambito della Terza Internazionale, la principale fonte di ortodossia ideologica, per i Partiti comunisti europei, riguardo al giudizio sulla scienza “borghese” che, in quegli anni, si apriva a teorie come quella della relatività di Einstein e alle nuove vedute sulle particelle atomiche e subatomiche. 

RICERCHE MARXISTE - Momenti del dibattito sulla Nep - Stefano Garroni

Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste-materialismo.html 
                       https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste-lambivalenza-di-lenin.html 
                       https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste.html 

 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.


Dopo la presa del potere e conclusasi la conquista politica dello Stato da parte del proletariato guidato dai comunisti, comincia il compito più difficile: la costruzione della nuova economia. Questa è l’esplicita opinione di Lenin e di Trockij.

Ma Trockij non si limita a ciò, infatti, elenca, anche, quali sono – e in quale ordine – gli ostacoli fondamentali, che nel corso della costruzione economica il proletariato incontra, ovvero: a) il livello di sviluppo delle forze produttive; b) il livello di sviluppo culturale del proletariato; c) la situazione politico-militare, in cui il proletariato si trova, dopo la conquista del potere. Come si vede chiaramente, gli ostacoli indicati da Trockij – per quanto ciò possa dispiacere lo scolasticismo ‘materialistico’ marxista – chiamano in causa, quello che la tradizione hegeliana significava con spirito oggettivo (vale a dire, lo sviluppo culturale, ovvero la capacità che la mente e il corpo umano hanno di svilupparsi nella storia, e di ricavare da ciò una crescente capacità di modificare il patrimonio delle proprie facoltà psico-fisiche e di conseguenza di produrre tecnologie adeguate a trasformare l’ambiente).

sabato 25 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - Lenin: teoria, ideologia, burocrazia - Aristide Bellacicco

 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.

“E’ il peggio che possa capitare al capo di un partito il venir costretto ad assumere il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe che esso rappresenta…quel che esso può fare contrasta con tutta la sua condotta precedente…ciò che esso deve fare non è attuabile.”
F.Engels, “La guerra dei contadini”.

1.
“Con le sue sole forze” scriveva Lenin nella “Lettera di commiato agli operai svizzeri” (26 marzo 1917) “ il proletariato russo non può condurre vittoriosamente a termine la rivoluzione socialista”.
Poco prima, nel medesimo testo, troviamo quest’altra affermazione: “un particolare concorso di circostanze storiche ha fatto del proletariato russo per un certo tempo, forse brevissimo, il combattente d’avanguardia del proletariato rivoluzionario di tutto il mondo…la Russia è un paese contadino. Il socialismo non vi può vincere direttamente ed immediatamente.”
Nonostante questa acuta consapevolezza delle condizioni specifiche della Russia all’indomani della caduta dello zarismo, non più di sei mesi dopo, nell’ottobre, Lenin, in disaccordo con importanti dirigenti del Partito operaio socialdemocratico russo (Kamenev e Zinoviev fra gli altri), spinse risolutamente perché i bolscevichi prendessero senza indugio nelle loro mani il potere statale. 

martedì 21 ottobre 2014

SUL POSTMODERNISMO 21-01-1999 - Stefano Garroni

                                                 
Introduzione. Passaggio dalla dissoluzione dal sistema hegeliano ai due sbocchi: marxista ed esistenzialista. Su un testo di Karl Lowith: da Hegel a Nietzsche. La filosofia oggi che è salutarmente inattuale. Significato del termine ideologia. Perchè parlare di memoria storica è una falsificazione? Viviamo in una nuova epoca o nello stanco prolungarsi di una epoca cominciata nell'800? Umanesimo e rinascimento. Quando nasce l'interesse per l'astrologia, per la magia, la critica contro la ragione scientifica e la concezione della filosofia legata all'intuizione e al sentimento? Quando questi aspetti irrazionalistici divento la componente più forte? Quando e perché questi elementi si rafforzano? Cosa è l'epoca moderna? E su cosa è incentrata?


lunedì 20 ottobre 2014

Corso sul "Il Capitale" di Karl Marx (1) - Riccardo Bellofiore

Da:  Noi Restiamo   -Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-

Video del Primo incontro del ciclo di letture del I libro de"Il Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo):


Tutti gli incontri:  https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL

sabato 18 ottobre 2014

I marxisti e la Grande Guerra - Giorgio Gattei*

*Il Professor Giorgio Gattei insegna Economia all’Università di Bologna.


... la brutta parola “nazione” era già stata pronunciata dal vecchio amico di Marx (Engels) e fu così che nell’agosto del 1914 l’“amor di patrie” (da declinarsi doverosamente al plurale) fece aggio sull’internazionalismo di classe, mentre i confini di Stato si alzarono a delimitare non soltanto l’ambito dei territori in guerra, ma i singoli distaccamenti di lavoratori che si riconoscevano più affini ai propri capitalisti che agli operai stranieri. Era su questa fallimento drammatico dello spirito internazionalista che interveniva Trotskij denunciando, oltre la “nazionalizzazione” degli interessi capitalistici, la nazionalizzazione della stessa coscienza di classe. Sebbene «la politica dell’imperialismo dimostri innanzi tutto che i vecchi Stati nazionali creatisi in Europa in seguito alle rivoluzioni e alle guerre… sono superati e si sono trasformati in catene insopportabili per lo sviluppo ulteriore della forze produttive,… il nazionalismo può continuare a sussistere come fattore culturale, ideologico e psicologico» infettando anche il movimento operaio. A dispetto del fatto che la guerra appena scoppiata avesse subito messo in luce «il suo reale contenuto di una lotta a morte tra Germania ed Inghilterra… per una nuova divisione imperialistica dei popoli della terra» , i partiti socialisti, che «erano partiti nazionali,… sono accorsi in aiuto delle strutture statali conservatrici» trascinando con sé le masse proletarie delle singole nazioni in guerra in un conflitto che per loro era fratricida. Da qui la necessità politica urgente di fargli ritrovare una unità di coscienza che superasse le frontiere statali, il che per Trotskij si poteva guadagnare dando loro «una nuova patria, assai più potente e assai più stabile: gli Stati Uniti d’Europa come fase transitoria verso gli Stati Uniti del Mondo» .
La proposta, portata alla Conferenza delle Sezioni all’Estero del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, venne presa in considerazione, ma solo dopo che anche «il lato economico della questione» fosse stato considerato. A ciò provvide Lenin in una nota dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, stroncandola però senza remissione. «Assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica», gli Stati Uniti d’Europa, quando esaminati dal punto di vista di classe, «dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”», in mancanza di una preventiva rivoluzione socialista non potevano che essere giudicati «o impossibili o reazionari» .

Perché impossibili? Perché in Europa gli Stati in grado di contendersi gli spazi d’esportazione del capitale (Gran Bretagna, Francia, Germania e Russia), finita ormai la “coesistenza pacifica” per l’esaurimento delle “terre libere”, non potevano avere «altro principio di spartizione che la forza… e per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalista non c’è altro mezzo che la guerra» . Per questo, a guerra terminata, sarebbero risorte comunque le rivalità, e non solo tra vincitori e vinti, ma pure tra i vincitori. Questa volta però avrebbe potuto esserci una limitazione alla violenza reciproca provocata dall’entrata in scena del “terzo incomodo” degli Stati Uniti d’America. Per fargli fronte le grandi potenze europee avrebbero potuto convenire di darsi una forma statale comune, ma «sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, questi Stati Uniti d’Europa significherebbero soltanto l’organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell’America» . Per questa ragione, se mai venissero realizzati, essi sarebbero stati reazionari e rispetto ad essi i lavoratori avrebbero dovuto mantenere tutta la propria autonomia di classe. Ma come che fosse, erano queste le ragioni per cui Lenin ne poteva concludere che «la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata» .

Ma, se mai fossero diventati possibili, come muoversi nei loro confronti? Se Lenin nulla ha detto al riguardo, lo si può però arguire per analogia con quanto indicato a proposito del comportamento da tenere verso la guerra,ma rispetto alla quale «una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo» . E quindi altrettanto avrebbe dovuto valere davanti agli Stati Uniti d’Europa, così che «l’unica politica di rottura – non a parole – e di riconoscimento della lotta di classe è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a questo senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta» .

venerdì 17 ottobre 2014

La civiltà coloniale europea tra dialettica e frammenti* - Alessandra Ciattini**

*Articolo già pubblicato in Aperture n° 28/2012 
**Docente di Antropologia religiosa, Università di Roma1, La Sapienza



 
Introduzione

In questo scritto, avvalendomi della riflessione di Aimé Césaire, cerco di delineare in maniera necessariamente non esaustiva il carattere dialettico della civiltà europea moderna e contemporanea, in particolare nella sua fase coloniale, tentando al contempo di individuare alcuni punti deboli del pensiero postmoderno, i quali a mio parere non consentono agli antropologi di cogliere che tale aspetto lacerante fa parte della sua stessa dinamica. Scendendo nel dettaglio, mi sembra che muovendosi sostanzialmente nella dimensione puramente culturalista, i postmoderni (in questa sede mi limito a menzionare James Clifford) non colgano due aspetti: 1) le differenze culturali sono l'altra faccia della diversa collocazione nell'ordine sociale capitalistico, anche se non sono riducibili alla mera dimensione economica; 2) l'accento posto sulle differenze spinge il postmodernismo a negare la validità di un punto di raccordo, che consenta di unificare in una visione d'insieme la dinamica della società capitalistica, nella quale i diversi segmenti trovino ciò che effettivamente li accomuna. Da ciò deriva la visione della realtà sociale come un coacervo eterogeneo di frammenti irrelati che è impossibile ricomporre in una visione d'insieme.

venerdì 10 ottobre 2014

David Harvey e l’accumulazione per espropriazione


Se si comincia a guardare alle pratiche di appropriazione di valore, si vede che entrano in gioco metodi extra-economici (violenza, esercizio del potere ecc.) che Marx ha analizzato nel I libro del Capitale parlando dell’accumulazione originaria. L’analisi marxiana dell’accumulazione originaria è quella della nascita della mano d’opera salariata, oggi l’analisi riguarda maggiormente il modo in cui il capitalismo recupera valore nella circolazione del flusso.
le modalità stesse attraverso cui si svolge l’esercizio dell’accumulazione: la “spoliazione”, ovvero un atto di mera “forza” o “violenza” reso possibile dal potere di cui dispone nuovamente la classe capitalista dominante. Questo primo significato della nozione ci dà una chiave importante per comprendere il tipo di lettura che ci propone Harvey delle dinamiche dell’attuale capitale globale: il ritorno dei processi di “accumulazione per spoliazione” al centro della riproduzione del capitale sta qui a indicare il ritorno della “violenza” (della coercizione extra-economica, ma si può anche dire di una “logica estrattiva”) nei dispositivi di sfruttamento capitalistici.

il capitalismo non si espande più attraverso un “dominio mediante egemonia”, un’espressione gramsciana ricorrente nei testi di Harvey e che avvicina la sua prospettiva a quella di Giovanni Arrighi, bensì anche e soprattutto, visto il divenire sempre più finanziario e improntato alla rendita del capitale, un “dominio mediante coercizione”.
Harvey propone la sua espressione come un necessario aggiornamento di quella di “accumulazione originaria” di Marx. A suo parere, l’espressione di Marx è troppo connotata da un’impronta, per così dire, storica. Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel considerare “l’accumulazione fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo modalità extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di appartenente al passato o agli albori del capitalismo,

poiché i processi di accumulazione originaria sono stati una costante della geografia storica del capitale”.
Dal suo punto di vista, dunque, è irragionevole definire dei processi economici tuttora in atto come “originari” o “primitivi”, ed è proprio per questo che egli propone l’idea di “accumulazione per spoliazione” al posto di “accumulazione originaria”.

l’espressione “accumulazione per spoliazione”, come anticipato, sembra enfatizzare più i “mezzi” dell’accumulazione originaria che non quello che per Marx era il suo fine essenziale. E’ l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di produzione, di riduzione (o di assoggettamento) del lavoro vivo in forza lavoro, ciò di cui deve assicurarsi ogni giorno il capitale, ed è qui che risiede la sua violenza costante e costitutiva. Se, come sostiene Harvey, i processi di accumulazione originaria non sono qualcosa che appartiene unicamente al passato del capitale è proprio perché il capitale deve ripetere questa “separazione originaria” ogni giorno e attraverso ogni mezzo necessario. Questa violenza – l’addomesticamento o imbrigliamento della forza lavoro – è stato da sempre il motore stesso della sua espansione e riproduzione: tanto dentro come fuori il mondo della “riproduzione allargata”. Si tratta di una dimensione del discorso marxiano lasciata piuttosto in ombra dalla prospettiva di Harvey: e questa marginalizzazione finisce per indebolire alla base le potenzialità di “accumulazione per spoliazione” in quanto significante chiave per la comprensione delle dinamiche dell’attuale comando capitalistico. (G. Giudici)                                    
http://gabriellagiudici.it/david-harvey-a-passignano-perugia/

 "Har­vey sostiene che le con­trad­di­zioni siano imma­nenti al capi­ta­li­smo, ne hanno pun­teg­giato lo svi­luppo, rap­pre­sen­tan­done un fat­tore dina­mico. Per affron­tare le con­trad­di­zioni il capi­tale, cioè un pre­ciso rap­porto sociale di pro­du­zione, ha fatto leva sia su fat­tori interni che esterni. Ha cioè modi­fi­cato ognuno dei tre grandi momenti di rea­liz­za­zione del pro­fitto: la pro­du­zione, il con­sumo e la cir­co­la­zione delle merci. Ha poi fatto leva sulla finanza lad­dove si pre­sen­tava un pro­blema di rea­liz­za­zione del pro­fitto per sovrap­pro­du­zione di merci, oppure ha favo­rito il cre­dito al con­sumo, met­tendo così in conto l’indebitamento sia delle imprese che dei sin­goli. La finanza ha inol­tre pro­dotto denaro a mezzo denaro. E se que­sti sono sto­ri­ca­mente i fat­tori interni, quelli esterni sono da cer­care nella tra­sfor­ma­zione per via poli­tica di aspetti del vivere in società in set­tori capi­ta­li­stici." (B. Vecchi)
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/4152-benedetto-vecchi-le-contraddizioni-di-david-harvey.html

mercoledì 8 ottobre 2014

La rivincita del capitale: 40 anni di RDT, 25 anni dopo - Vladimiro Giacché



"Negli anni Ottanta la produzione industriale per abitante era superiore a quella di tutti gli altri Paesi dell'Est (quasi doppia di quella dell'Ungheria e più che doppia di quella polacca). Prestazioni e servizi sociali, d'altra parte, erano molto più estesi che ad Ovest. Gli asili ospitavano più di 9 bambini in età prescolare su 10. C'era la piena occupazione, anche femminile: lavorava il 92 % delle donne in età da lavoro. La scuola era gratuita e garantita a tutti.

Il 7 ottobre 1989 la RDT era il paese economicamente più avanzato tra i paesi dell'Europa Orientale. Aveva 20 miliardi di marchi di debiti con l'estero, ma era tutt'altro che "in bancarotta” (“pleite”), come invece si continua a sostenere (20 miliardi di marchi sono una cifra ridicola se confrontata con i debiti pubblici odierni degli Stati europei, Germania inclusa).

Dalla fine dell'89 alla primavera 1992 furono distrutti 3,7 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato. E tra il 1992 e il 2009 è andato perduto un altro milione e mezzo di posti di lavoro a tempo pieno, il 27% del totale. Una parte di essi si è trasformata in posti di lavoro a part-time e sottopagati. Un’altra parte è andata a infoltire le schiere dei disoccupati. Oggi nella ex Germania Est vive un sesto della popolazione della Germania, ma la metà dei disoccupati. Nelle famiglie dell’Est c’è una percentuale di disoccupati doppia rispetto all’Ovest. E secondo uno studio della società di consulenza PricewaterhouseCoopers riportato il 27 agosto di quest'anno dalla "Thüringer Allgemeine" il numero degli occupati ad Est diminuirà di un altro 10 per cento entro il 2030.

La verità l'ha detta Joachim Ragnitz, dell'Ifo-Institut di Dresda, il 4 maggio scorso, in una sede insospettabile come il quotidiano "Welt am Sonntag": “L’Est non riuscirà in tempi prevedibili ad agganciare l’Ovest”. In tedesco la formulazione per “mancare l’aggancio” è “den Anschluss nicht schaffen”. Ma “Anschluss” è anche il termine che indica l’“annessione”. Il mancato “Anschluss” economico è il prezzo pagato dai cittadini dell’Est per il rapido “Anschluss” politico della RDT alla RFT."

martedì 7 ottobre 2014

Postdemocrazia e responsabilità della sinistra italiana - Stefano G. Azzarà



"...abbiamo finito per pensare il mondo con i pensieri che le classi dominanti ci hanno messo in testa, e a nominarlo con le loro parole."

"...sembra che Bertinotti ignori completamente il dibattito tra Togliatti, Della Volpe e Bobbio, nel corso del quale il segretario comunista aveva ribadito come per i comunisti le libertà individuali fossero altrettanto importanti dei diritti economico-sociali. Aggiungerei che sembra ignorare lo stesso Marx, il quale considera le conquiste del liberalismo come un presupposto, come un punto di partenza del quale denunciare e oltrepassare i limiti, ovvero le clausole d'esclusione nei confronti dei lavoratori manuali o dei sottouomini delle colonie, in direzione di una universalizzazione della libertà. Infine, sembra ignorare anche Gramsci, il quale sosteneva che il programma liberale integrale è diventato il programma minimo dei socialisti."


"La mia impressione è che il ciclo 1968-77 abbia molto a che fare con tutto ciò. È in quegli anni che si diffonde l'atteggiamento postmoderno nei confronti della storia. Perché la catastrofe del Novecento? Non era forse il progetto emancipativo moderno, per via della sua presunzione universalistica, intrinsecamente sbagliato? Non è il primato della ragione inevitabilmente totalitario, visto che si tratta di mettere le braghe al mondo e di imporre alla realtà un decorso artificiale anche a costo di prenderla a martellate se si ribella? Non è meglio concentrarsi sulle libertà individuali, sganciando la libertà di ciascuno da quella di tutti e spostandola dal terreno politico a quello della vita privata? Da qui la denuncia dell'idea di progresso e del prometeismo moderno, del quale il marxismo e il capitalismo sono solo due varianti intercambiabili (un'idea del vecchio Heidegger, a guardar bene). Se questo o quello pari sono, però, in fondo meglio vivere sotto il capitalismo, perché almeno ci si diverte di più."

http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/4130-stefano-g-azzara-postdemocrazia-e-responsabilita-della-sinistra-italiana.html

http://nblo.gs/10tviF
 

venerdì 19 settembre 2014

CRITICA ALLA FILOSOFIA DEL DIRITTO DI HEGEL - Stefano Garroni - 10-6-98

 si può ascoltare l'originale intervento audio qui:
                                                                                              
E' un testo giovanile ma un'impalcatura fondamentale del suo pensiero resta e in questo senso è uno scritto che sicuramente può essere letto avendo in mente il Marx maturo. Però è un testo difficile fondamentalmente per due ragioni:

non è in dubbio che si va determinando un cambiamento culturale di estrema importanza a partire dalla metà dell'ottocento verso il novecento e questo cambiamento si intreccia proprio con quello che viene chiamato "la dissoluzione del sistema hegeliano", cioè quello che progressivamente viene emergendo è una prospettiva culturale di tipo irrazionalistico. E l'irrazionalismo che nasce dalla dissoluzione del pensiero hegeliano, si intreccia, diciamo così, con il suo contrario, cioè con quello che comunemente viene chiamato lo scientismo. Per cui in realtà un aspetto della cultura contemporanea, il coesistere di scientismo da un lato e irrazionalismo dall’altro, questo fenomeno così chiarissimamente tipico del nostro novecento, in realtà già comincia dalla metà dell'ottocento con la dissoluzione del sistema hegeliano. Marx scrive, in particolare questo scritto, dentro un clima che non conosce ancora questo emergere forte dell'irrazionalismo, ma che è ancora caratterizzato in un senso ottocentesco. E allora a noi risulta difficile focalizzare il tipo di problema che Marx affronta. Quando io dico "ottocentesco" non intendo né nulla di negativo ne qualcosa di vecchio; intendo un punto di vista in cui la ragione, il problema della funzione dell'uomo nella storia, sono questioni centrali. Quindi un'epoca che ha quest'aspetto forte, vigoroso, che consiste nel porre il problema della funzione dell'uomo nella storia, quindi affrontare la storia come un problema complessivo di fronte a cui l'uomo deve prendere posizione, e mettere al centro dell'impegno culturale, il motivo della ragione, della critica. Queste sono caratteristiche ottocentesche. Come vedete bene non si tratta ne di nulla di negativo ne di nulla di necessariamente vecchio. Ovviamente noi non possiamo che auspicare che un atteggiamento del genere ritorni, si riproponga. E' interessante che con la dissoluzione del sistema hegeliano e quindi verso la seconda parte dell'ottocento si va sempre di più impostando un clima culturale, che è basato da un lato sulle scienze particolari - le singole scienze –, e dall'altro lato una visione generale del mondo fondamentalmente di tipo irrazionalistico. Ed è interessante che i due eroi, se volete, principali di questa svolta irrazionalistica – Schopenhauer e Nietzsche –, sono due autori che tornano direttamente nel clima culturale del 68'. 

Attraverso la scuola di Francoforte torna questa impostazione irrazionalistica da un lato, e dall'altro torna questa concezione della scienza come un qualcosa di strumentale, per scienza si intende la singola determinata scienza che risolve certi problemi, ma che non ha più la funzione di dare una valutazione del mondo, un giudizio del mondo, una immagine del mondo. E' una serie di strumenti – le varie singole scienze – che servono a risolvere determinati problemi. E allora pensate a Popper, altro autore che mano a mano nel nostro tempo diventerà sempre più un punto di riferimento addirittura della sinistra. Popper con l'espressione "ingegneria sociale" per intendere l'azione politica e l'ingegneria sociale è proprio il senso di dire contro quelle filosofie che affrontano la società come un insieme, una totalità da cambiare, quello che si propone è l'intervento particolare, proprio come fa l'ingegnere che interviene su quest'aspetto, su quell'altro aspetto, ecc...

Ecco questa visione delle singole scienze accanto a una visione generale del mondo di tipo irrazionalistico. Marx scrive ancora in una situazione in cui questo clima non è dominante, ma qui è dominante un altro problema. Ora, prima di vedere questo problema mi pare che sia necessario soffermarsi su un aspetto abbastanza delicato che potrebbe essere detto in questa maniera: per esempio io ho dei problemi pratici da risolvere. Mi rivolgo a delle teorie, perché queste teorie mi diano gli strumenti per risolvere questi problemi pratici. Allora a questo punto c'è un livello dato dai problemi che ho, e un altro livello - le teorie -; inforcando gli occhiali che le teorie mi danno io posso vedere meglio i problemi e trovare i modi per risolverli. In realtà questa concezione è una concezione di senso comune che però non ha nulla a che vedere con la realtà delle teorie, del rapporto teorie, problemi, esperienza.

Anche perché è una teoria molto ingenua. Infatti è troppo evidente che se gli occhiali - cioè le teorie – servissero a guardar meglio i problemi e quindi i modi per risolverli, nascerebbe la domanda: "ma le teorie come sono venute fuori?" Si potrebbe rispondere: son venute fuori ragionando sui problemi. Ma se io per vedere i problemi ho bisogno delle teorie, senza le teorie non li vedo. Quindi se non li vedo senza le teorie, come possono nascere le teorie? Perché prima delle teorie non vedo i fatti, non ho gli occhiali per vederli e quindi come posso ragionar sui fatti per ricavar le teorie. In realtà ragionare sui fatti implica già l'esistenza delle teorie. Allora resta questo mistero di teorie che servono funzionalmente per l'analisi dei fatti ma che non si sa spiegare come diavolo vengano fuori!Il ragionamento è molto semplice: se io sono sicuro che ogni effetto ha una causa, ho di fronte un evento, succede qualche cosa e vado a cercare la causa. Ma come mai io già so che ogni effetto ha una causa? Perché ho una teoria causale. Ma come ce l'ho avuta? Come è nata? Non posso dire è nata dall'esperienza perché io devo aver analizzato le esperienze sulla base del presupposto che c'è un rapporto di causa-effetto. Se non ragiono sulla base di questo presupposto non potrò mai avere un'esperienza del rapporto di causa-effetto. Come faccio a riconoscere l'effetto e la causa se non ho in testa l’idea di causa e di effetto e del loro rapporto. Mi spiego? Mi spiego o no? Allora resta questo mistero: se la teoria è quel paio di occhiali che serve per inquadrare i fatti e trovare i modi di risolverli, allora resta il mistero delle teorie che non si sa da dove diavolo vengono fuori.

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Cioè quello che traballa, è questa concezione per cui ho di fronte i fatti, poi ci sono io, non posso vederli bene se non metto tra me e loro le teorie, con tutte le difficoltà che vedevamo prima. Ed è proprio questa impostazione che traballa, i fatti da una parte io dall'altra parte e in mezzo la teoria. E' questo che non sta in piedi per un argomento molto semplice. Per esempio gli antropologi quando studiano popolazioni primitive, studiano il modo in cui queste popolazioni concepiscono lo spazio. Possono scoprire che il modo di organizzare e concepire lo spazio fisico da parte di questi, è ricalcato sul modo in cui è organizzato il loro gruppo sociale. Che voglio dire? Voglio dire che in realtà, io non ho mai esperienze di nudo e crudo. Io faccio parte di un mondo in cui ci sono le cose, me stesso, l'organizzazione sociale, e l'esperienza è il precipitato di tutto questo. Quindi non ci sono questi momenti staccati. 

Ora, se su questo ci siamo intesi, possiamo dire che due tesi potrebbero essere indicate come caratterizzanti un ragionamento, un'impostazione dialettica. La prima tesi potrebbe essere detta così: il reale è contraddittorio. La seconda tesi potrebbe essere detto in questa maniera: la storia, quindi il reale, produce gli strumenti per la soluzione dei problemi che la stessa storia ha creato. O, in altri termini, se il reale è contraddittorio, il reale ha anche la capacità di trovare il superamento della contraddizione. Entrambe queste proposizioni vanno prese con una notevole cautela nel senso che possono essere equivocate molto facilmente e cercheremo di vederlo. Quello che conta adesso, è notare come nel linguaggio della dialettica, quel termine unico "contraddizione" in realtà si dice in vari modi. Ovviamente devo far riferimento al vocabolario tedesco e a una approssimativa traduzione italiana. Per esempio gegensatz, che potrebbe essere detto contraddizione, widerspruche che potrebbe essere detto opposizione Entgegengesetzt che potrebbe essere detto contrapposizione e poi dissonancecollision. Mentre invece il termine per indicare il processo di superamento di queste contraddizioni è sempre uno: Aufhebung, cioè superamento. La cosa interessante è appunto che per indicare contraddizione si usano molti termini, perché? Evidentemente perché all'interno della concezione dialettica è centrale la consapevolezza che non esiste un solo tipo di contraddizione, ma ne esistono vari tipi. E quindi tornando alla frase di prima "il reale è contraddittorio", però in quale senso? Nel senso di gegensatz di widerspruche ecc. 

E allora comprendiamo anche perché i pensatori dialettici più rilevanti hanno sempre insistito nel dire che la dialettica è "analisi determinata" perché appunto io non posso genericamente dire che il reale è contraddittorio, devo capire di che tipo di contraddizione sto parlando e questo lo posso fare solo analizzando il determinato esempio di contraddizione: quindi non posso dire genericamente il reale è contraddittorio, se non nel senso molto generico il reale presenta delle dissonanze, un tormento, il reale non è qualcosa di tranquillo, ma qualcosa di tormentato. Ma come tormentato? E allora vado all'analisi determinata e tiro fuori il tipo di contraddizione, da un lato. Dall'altro lato è molto interessante questo discorso per cui il reale, cioè la storia, costruisce essa stessa, i modi per uscire da questo tormento che la storia stessa ha prodotto. Perché è interessante? Perché fa comprendere che cosa veramente significa quella frase sul materialismo, che vuol dire? Vuol dire che dal punto di vista dialettico "problema" e "soluzione del problema" stanno sullo stesso terreno. Non c'è bisogno di uscire dalla storia per trovare la soluzione del problema della storia. Non debbo uscire dal mondo dell'uomo per trovare la soluzione al mondo dell'uomo. Questo senso immanentistico per cui il problema, che è un problema determinato, circostanziato, specificato, trova però svolgendosi questo problema, produce esso stesso la possibilità della soluzione. Cioè problema e sua soluzione giacciono nello stesso termine. 

Quindi è l'analisi di una situazione storica che mi mette in luce le contraddizioni e le possibilità di fuoriuscita. Non ho bisogno di far riferimento a qualcosa che stia fuori dalla storia. Voi capite bene che questo qualcosa che sta fuori dalla storia potremmo per semplicità chiamarlo dio, però non converrebbe, nel senso che nella storia delle religioni il concetto di dio è cambiato moltissimo. Ci conviene sostituirlo con il termine religione, per intendere che cosa? Per intendere quel certo punto di vista che fa sempre, in un modo o nell'altro – perché poi le religioni son diverse ovviamente – riferimento a qualche potere eccezionale, non normale ma eccezionale, che risolve le difficoltà. Cioè è un punto di vista opposto a quello dialettico proprio perché in qualche modo è sempre un potere eccezionale, non normale. Quindi non è la storia stessa che produce i problemi e le sue soluzioni possibili. La storia produce i problemi e c'è un qualche potere eccezionale che può risolverli. Ecco questo senso dell'eccezionalità, e quindi dell'esteriorità rispetto alla storia, del luogo e della soluzione del problema. La dialettica nella sua costruzione intima è contro questa eccezionalità, perché trova nella storia la possibilità di soluzione del problema posto dalla storia stessa, tutto sta sullo stesso livello. Allora comprendete perché Marx in quest'opera dica: "Il presupposto della critica della politica è la critica della religione". Certo! Perché siccome per religione si intende: quella certa impostazione che in qualche modo vede in un potere eccezionale la possibilità di soluzione di … , criticare questa impostazione e distruggere questa idea di un potere eccezionale e quindi esteriore rispetto alla storia significa re-immergere l'uomo dentro la storia. E allora è evidente che la critica alla religione cesserà perché sarà diventata critica della politica, cioè della situazione di fatto. Non me la prenderò più con il papa che ha tradito dio ma analizzerò la politica del papa.

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Ora questo passaggio dalla critica della religione alla critica della politica, è quel discorso che facevo io prima. Il passaggio da immaginare un che di eccezionale, un che di esteriore rispetto alla storia; il passaggio da questo, alla storia stessa come luogo del problema sia della possibile soluzione.

Quando si dice "il reale contraddittorio" si incorre nella difficoltà di oscurare il fatto che contraddizione si dice in vari sensi, cioè che vari sono i tipi di contraddizione e che quindi dire "il reale è contraddittorio" significa dire cosa troppo generica. Ma si rischia di dire anche il contrario di qualche cosa di dialettico. Perché? Il discorso è semplice: immaginate una proposizione stupidissima come "tutti gli uomini sono mortali, i greci sono uomini, quindi i greci sono mortali". Questa conclusione "i greci sono mortali" è assolutamente rigorosa, non ci stanno cristi. Posso dire che questa affermazione è necessaria, perché ha un fondamento logico assolutamente irrefutabile. Se io dicessi: "i greci sono mortali e sono non mortali" direi qualche cosa 1) di difficile da capire e 2) evidentemente instabile. Perché sono mortali ma appena ho detto questo dico che sono immortali e viceversa. Quindi un'affermazione instabile che non ha un terreno solido, non ha un fondamento, qualche cosa che nel linguaggio tecnico si dice qualcosa di contingente. E qualcosa di contingente, di instabile, di inafferrabile perché ora è così e domani è colà, sfugge continuamente e non è riconducibile a una regola precisa; questo contingente per diventar comprensibile ha bisogno che io lo riporti a qualcosa di necessario, di stabile e di sicuro. Se usiamo il termine "religioso" nel senso precedente – quindi sempre l'individuazione di un qualcosa di eccezionale, che sta fuori, che è esterno e che da fondamento e solidità -, allora io posso per esempio immaginare un piano logico, di principi, di enti superiori, assolutamente necessario, il quale da senso e fondamento al contingente. Quindi la mia vita, che è la vita contingente – delle vicende quotidiane, di ciò che c’è ma potrebbe non esserci, di ciò che adesso è così e che domani è in un'altra maniera ecc... -, tutto questo ha però un suo fondamento in un mondo di principi esterno, superiore. Per esempio si potrebbe dire: questo è lo stato di diritto, questo è l'ordinamento giuridico giusto. I singoli stati possono, con le loro pratiche, procedere in un modo diverso. Ma il diritto è questo, espresso dalla dottrina dello stato di diritto. E quindi per esempio: gli Stati Uniti sono uno stato di diritto eppure succedono delle cose mostruose. Come si giustifica questo "eppure"? Altro esempio, questo clamorosissimo della televisione: gli israeliani avevano fatto una delle loro solite stragi. Uno stato di diritto come Israele, eppure succedono queste cose. Vedete la logica qui è molto precisa: la realtà vera non è Israele ma lo stato di diritto, il mondo dei principi. Poi accanto al mondo di principi ci sono le esperienze che possono essere appunto contingenti, casuali. Ma quello che conta veramente è il mondo dei principi, lo stato di diritto. E le esperienze non potranno mai smentire lo stato di diritto perché sono il mondo del contingente, del casuale, di quello che adesso è così e che domani è in un'altra maniera ma quello che veramente conta è lo stato dei principi, lo stato di diritto. E' già ma chi ragiona in questo modo che cosa dice? Dice che il reale è contraddittorio, cioè contingente. Quindi se io dico semplicemente che il reale è contraddittorio, in realtà posso concludere il mio discorso indicando un piano diverso da quello dei fatti, che è il piano dei principi, delle regole, dell'idea. Questo esempio l'ho scelto non a caso perché ho in mente proprio l'opuscoletto di Mao Tse Tung: la realtà si spacca sempre in due ecc... Attenti! Ovviamente è un manuale, però ecco se una buona volta noi prendessimo la decisione di bruciare tutti i manuali e cominciassimo a ragionare con la nostra testa allora dovremmo dire che "il reale è contraddittorio" è una proposizione 1) troppo vaga – perché essere approvata e non approvata. 2) equivoca perché potrebbe portare alla fondazione di un mondo di principi che è quello del necessario di contro a questo contingente che si smentisce continuamente e che non si può afferrare.

Il punto di vista della dialettica invece qual è? Se il punto di vista della dialettica è quello di chi dice "la storia è contraddittoria" cioè produce problemi, dissonanze, tormenti, disarmonie, che assumono varie forme, ma anche gli strumenti per poter risolvere, vedete che è successa questa cosa fondamentale: il distacco tra il contingente e il necessario, tra gli eventi e i principi, è stato tolto. I principi sono stati messi dentro al mondo degli eventi e gli eventi sono stati portati al livello di principio, nel senso che le contraddizioni sono leggibili. Proprio perché si specificano. Quindi non si dirà più "il reale è contraddittorio" ma si dirà il rapporto di capitale è costruito in maniera tale per cui crea questo tipo di contraddizione. Oppure un'altra situazione è costruita in questa maniera così produce questo tipo di contraddizione. Ma allora vedete che a questo punto, contestualizzando l'analisi, dando al termine "contraddizione" significati specifici, si trova il meccanismo che crea quella contraddizione, e si trova nello svolgersi stesso di questo meccanismo, la possibilità di uscire dalla contraddizione. Quello che conta è appunto che il mondo dei principi – dell'ideale, della norma, regola, dell'idea –, è stato portato dentro il mondo dei fatti, del contingente, del casuale, e dall'altro lato però questo mondo dei fatti è diventato qualche cosa che va letto per cogliervi la logica che ci sta dietro. Quindi la separazione è stata tolta.

INTERVENTO POCO COMPRENSIBILE

Ci intendiamo su questo?

Per esempio, Marx scrive qua una cosa curiosa. Marx dice: "Il fondamento della critica alla religione è questo: è l'uomo che crea la religione e non la religione l'uomo". Vedete che la frase è bizzarra. E che cosa uno si aspetterebbe. E' l'uomo che crea dio non dio l'uomo.

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Perché Marx dice "la religione". Perché in realtà quello che Marx ha in testa, non è in senso letterale la critica a questa o quella religione, ma per religione lui sta intendendo tutte quelle situazioni in cui da un lato c'è il mondo dei fatti, e dall'altro quello dei principi. E' questa spaccatura che Marx indica con il termine religione. E, dice, questa stessa spaccatura è creata dall'uomo cioè dalla storia. Allora è chiaro in questo senso la critica della religione, vale a dire trovare nella storia dell'uomo il motivo che ha prodotto questa spaccatura, significa passare dalla critica della religione alla critica della politica, perché ha individuato quel meccanismo reale che ha prodotto la spaccatura e quindi anche la religione. E' chiaro? Allora è evidente che il discorso di Marx non può essere immediatamente trasferito nella valutazione di singole determinate tradizioni religiose. Qui il discorso è più di fondo. Qui il discorso è su questo meccanismo di scissione del mondo dell'uomo e Marx sta dicendo questa scissione è prodotta dalla stessa storia dell'uomo, e quindi nella storia può trovare i modi della sua risoluzione. Ed è appunto fondamentale il fatto che questo comporti il passaggio dalla critica alla religione alla critica della politica. Cioè non mi occupo […]

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[…] di ogni riferimento. Quindi io afferrando quello, esco dall'ambito delle parti scisse e vado nel meccanismo di fondo. Allora appunto il modo reale di far critica della religione non è bestemmiare, ma è modificare quel mondo che crea la religione, ovviamente. In questo senso è chiaro che i comunisti in linea di principio non sono mai impegnati in una campagna atea, perché significherebbe che prendono sul serio il tema della religione, si mettono sul terreno della religione, dicono che dio esiste che dio non esiste ecc.. no!

Vanno a quel meccanismo che produce la scissione, e quindi intervengono lì, per togliere le basi alla scissione. La vera critica alla religione è un certo tipo di politica. Ma allora, voi vedete che una difficoltà del discorso che sto facendo, chiarissimamente è questa - io posso fare esempi che in qualche modo richiamano a situazioni politiche e storiche ecc.. - però è chiaro che il discorso si sostiene su un tipo di argomento, di riflessione che non è solo una riflessione sulla storia o sulla situazione politica, economica. Voglio dire che dietro questo modo di concepire la storia – e quindi il mondo che crea decisioni ecc.. - c'è un discorso sul mondo, non è solo il mondo storico sociale. E' un discorso sulla realtà in generale. E allora la difficoltà che viene fuori è questa. Certo sicuramente Marx è un personaggio che si è occupato fondamentalmente di problemi storici, economici e politici. Però abbiamo qua e la alcuni segnali, che Marx non sta tutto qua. Voi vi ricordate quella paginetta in cui Marx in sostanza dice: "Non è difficile, partendo dalle basi economiche sociali di una certa società, riuscire a ricavare come mai abbia prodotto quel certo tipo di arte. Il problema è un altro: perché la tragedia greca ci piace ancora?" Perché nonostante questo collegamento che io posso stabilire tra il modo in cui è fatto un certo rapporto sociale di base e la cultura che produce, perché certi prodotti - per esempio la tragedia greca – acquistano un senso, un peso, un'importanza al di la della loro epoca storica. Voi capite che questo problema è un problema di enorme importanza perché significa che Marx si rende perfettamente conto che un'impostazione storicistica - cioè che dica: "I prodotti della cultura sono tutti da ricondursi alle caratteristiche di una certa società data" - Marx non è convinto di questo. Marx si rende conto che esistono livelli di realtà che hanno dimensioni storiche diverse, che pesano diversamente. Questo spiega anche perché, poniamo, una certa maniera di concepire le procedure scientifiche, può essere pensata nell'antica Grecia e tornare di estrema importanza nella scienza moderna. E questo risulterebbe inspiegabile se data la base sociale allora questa è la sovrastruttura, perche cambiata la base sociale la struttura dovrebbe saltare, ma invece non è così! A me piacerebbe fare questo esempio, proprio stamattina sono andato a questo sit in di ricercatori universitari. A me è venuta in mente un'osservazione che aveva fatto Mauro nella riunione precedente, e cioè la scena è questa: c'è un gruppetto di questi ricercatori che si fionda su un senatore di rifondazione per parlare con lui, per fare proposte ecc... Poi esce uno di Forza Italia, Meluzzi, e i ricercatori si sono fiondati la. E Mauro diceva: "Come è possibile che i disoccupati si facciano egemonizzare dai fascisti?". Ma in realtà tu vedevi, parlando con questi ricercatori per lo più votanti o iscritti al Pds, che la sinistra negli ultimi decenni si è fatta essa stessa direttamente responsabile del togliere spessore culturale alla lotta politica. Quel discorso "Noi siamo laici e pragmatici, basta con le ideologie" non l'ha fatto solo la destra, l'ha fatto anche la sinistra. Ma allora se noi siamo pragmatici, ovviamente se quel parlamentare mi può risolvere il problema ma che mi importa di che gruppo sia. E' giusto. Ho preso sul serio l'indicazione che mi ha dato la sinistra. E' chiaro che se noi recuperiamo, invece, uno spessore culturale, morale, filosofico della teoria, allora comprendiamo anche tutte queste complessità, per cui per esempio il problema dell'arte non è valutabile con gli stessi criteri con cui posso valutare i problemi giuridici, i tempi dei fenomeni storici sono diversi, la realtà è molto più varia della semplice lotta politica, e Marx questo lo sa. Marx lo sa perché viene da Hegel. E allora succede che spesso nelle riunioni politiche un compagno parli di "teoria". Noi lo sappiamo tutti che il 90% delle volte per "teoria" sta dicendo semplicemente un ragionamento che dia un qualche fondamento a una mossa politica. Questa non è teoria, la teoria è un altra cosa. La teoria è una cosa in cui per esempio, ci si chiede "quali sono i significati del termine contraddizione e perché sono questi e non altri". E questo tipo di ragionamento non ha un immediata ricaduta politica, se non in un modo molto sottile. E cioè nell'abituare la gente a ragionare con la propria testa, a coltivare il proprio cervello e quindi quando domani da "gente" diventa qualcosa di più determinato, e quindi fa parte di una organizzazione politica, è uno che ragiona, è uno che ha una personalità, è uno che chiede all'organizzazione non solo "indicazione" ma vuol contare, e può contare perché ha acquistato la capacità di ragionare e sente la dignità del ragionare. E sa che il socialismo non è semplicemente chiedere la socializzazione degli strumenti di produzione, ma creare una società che restituisca dignità all'uomo, una cosa un po' complicata.

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Ora se voi siete in condizioni di reggere ancora un altro po', c'è un'altra piccola frasetta di Marx che credo valga la pena di commentare. Marx dice: "La religione è l'autocoscienza e il sentimento di se, di un uomo il quale o non è mai divenuto padrone di se, oppure ha perso questo controllo di se". Quindi è la coscienza e il sentimento di se di un uomo che non ha mai posseduto se stesso o ha perso questo controllo sul se. Questo è l'uomo immediato, naturale cioè l'uomo che non ha ancora colto la differenza tra il suo vivere e il suo pensare, non ha preso una distanza dal suo vivere, è quell' "immediato essere". Dal punto di vista della dialettica è fondamentale il fatto che questa situazione di immediatezza e di esistenza si rompa, e che nasca lo spirito critico, la contrapposizione, il soggetto che guarda la propria esperienza come un mondo esterno, lo giudica e lo distanzia da se. Ovviamente emergendo come coscienza di fronte a questo mondo perde anche i rapporti con questo mondo. Dove la necessità di pensare, la possibilità di riconquistare questi rapporti con il mondo ma questa volta attraverso la mediazione della coscienza, non più dell'immediatezza.

Non ci vuole tanto per capire che quando ieri Ermanno diceva: "Guardate che c'è un problema morale come problema centrale per noi" diceva una cosa sacrosanta. Perché che cosa significa questo discorso di Marx se non il fatto che nel modo di concepire la storia come qualcosa di tormentato ma che costruisce gli strumenti di risoluzione dei problemi e questa visione dell'uomo che perde quest'immediatezza, acquista la coscienza, spacca i propri rapporti con il mondo, ma li recupera attraverso la ragione. Ma è difficile capire che qui c'è una concezione dell'uomo? Una concezione della storia come processo di liberazione dell'uomo? Di riconquista da parte dell'uomo del dominio di se, attraverso la ragione, attraverso la socialità, attraverso un dominio sul mondo che sia però all'interno di questo rapporto razionale non ladronesco. Questo è un modo di concepire l'uomo. Questa è la morale. Ed è una morale che non ha nulla di pretesco perché è tutta una partita giocata all'interno della storia dell'uomo. Ora, pensate a quel compagno, Ettore, quando diceva che lui è diventato comunista perché da ragazzino solo i comunisti si mettevano attraverso la strada dei padroni. Non è in dubbio che quei comunisti li non lottavano semplicemente perché il padre potesse avere qualche centesimo in più. Facevano il gesto di dire no ai padroni, riscattavano un senso di dignità. Ecco, non è retorica dire queste cose oggi, perché noi oggi siamo in una situazione quotidiana in cui indubbiamente i compagni non hanno più nessuna capacità di indignarsi, di sentire l'obbrobrio della società capitalistica, l'infamia di questo modo di vivere. La necessità di sentirla quest'infamia è decisiva, perché il comunista non gioca, ma fa una partita dura. Quando finalmente potremmo farli sul serio i comunisti, voi lo sapete perfettamente che l'avversario se ne accorgerà e mazzolerà. E come reggi se tu non hai una forte carica morale?. E come hai la carica morale se cedi adesso a tutte le sbracataggini dell'ideologia contemporanea. Qui non è la questione scherzosa degli arcigay o non l'arcigay. Il problema qui è di fondo. Un processo di costruzione del personaggio comunista è anche un processo di costruzione di un'umanità che rivendica questa forza ottocentesca....

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Ma io classe operaia – perché poi la classe si costruisce – io rivendico il mio diritto a guidarla la storia. Guardate questa è una posizione morale, fondata sull'analisi dei processi reali. Ma se non c'è questa forza morale, i processi reali non dicono nulla. Un altro punto solamente. Voi sapete che una delle storielline più infami della tradizione dei manuali marxisti è questa. Perché in Germania fiorisce la filosofia classica – Kant, Hegel ecc..? perché li erano troppo arretrati per fare la rivoluzione e in Francia erano più sviluppati e hanno fatto la rivoluzione. Questo è un discorso infame e stupido, nel senso che la visione del processo storico che ha Marx – non solo Marx ma che ha Hegel, che ha Feuerbach in questo periodo –, è una visione complessiva in cui l'evento politico si interseca con l'evento economico, culturale, artistico, morale. Il processo di costruzione del mondo nuovo è un processo a vari livelli. Se io dico in Germania hanno fatto la filosofia classica perché erano troppo deboli per fare politica, io sto dicendo: "Siccome non potevano far di meglio hanno fatto quel poco che potevano fare", ma non è così. Perché la rivoluzione nel suo complesso è filosofica, politica, economica, psicologica ecc... Il fatto è che i vari momenti del processo rivoluzionario si sono distribuiti in vari luoghi. Ma nel suo insieme il processo rivoluzionario comprende quella filosofia e quella rivoluzione politica. E già, è per questo che Marx conclude dicendo che il proletariato deve farsi l'erede della filosofia classica tedesca. Perché appunto la rivoluzione filosofica non è qualcosa che faccio in mancanza di meglio ma è una componente essenziale del processo rivoluzionario. E solo, appunto, se il soggetto rivoluzionario è soggetto attivo politicamente, economicamente, socialmente e culturalmente, allora è il soggetto capace di proporre un'alternativa storica, perché agisce nell'insieme dei livelli. Di nuovo un discorso contro la scissione perché riorganizza la varietà degli aspetti.

INTERVENTO: a proposito dell'ultima cosa che hai detto, a me sembra che Marx sostenga che i tedeschi non hanno fatto la rivoluzione francese e quindi non hanno ottenuto i benefici della lotta, della partecipazione, mentre i tedeschi questo non l’hanno avuto, quindi si sono rivolti più alla speculazione..

Marx dice anche un'altra cosa. Che la filosofia classica tedesca ha vissuto nel pensiero tutto il processo di sviluppo dello stato moderno. Il che significa: se la rivoluzione francese ha determinato quel cambiamento politico che non c'è stato in Germania, contemporaneamente in Germania, la filosofia speculativa ha percorso tutte le fasi dello stato moderno, e a questo punto non sarà più possibile, dice Marx, contro la miseria tedesca fare appello allo stato moderno. Perché già la filosofia speculativa tedesca me ne ha mostrato i limiti.

INTERVENTO: è un po' come fare la rivoluzione della classe operaia senza classe operaia.

E quindi a questo punto il discorso sullo Stato deve partire non solo dall'esperienza della rivoluzione francese ma dalla descrizione compiuta dello stato moderno borghese che ha fatto la filosofia classica tedesca, che ne ha mostrato le contraddizioni e allora ormai dovrei ripartire su un altro terreno.

INTERVENTO: infatti una cosa mi piacerebbe aggiungere a questo. Storicamente la differenza tra Francia e Germania sta proprio nel fatto che mentre in Francia l'illuminismo ha portato alla rivoluzione francese come contrapposizione all'assolutismo, all'idealismo, alla ragione, in Germania invece abbiamo avuto dei principi, dei regnanti che hanno fondato lo stato con tutta una serie di princìpi che in Francia non c'è. Quindi due stati differenti.

Certo offrendo la possibilità per esempio di analizzare il fenomeno della burocrazia moderna in anticipo...

INTERVENTO: c'è questa frase: se io rinnego la condizione della Germania del 1843 io sto appena con il computo francese nell'anno 1789, ancor meno nel fuoco ellissoidale del presente.

Questo vuol dire che la situazione tedesca è politicamente più arretrate rispetto a quella francese.

INTERVENTO: Io ho due domande. 1) Critiche al Partito pratico tedesco e partito teorico tedesco. Rimprovera al partito pratico di eliminare la filosofia senza realizzarla e al partito teorico di realizzare la filosofia senza eliminarla.


2) La seconda riguarda la teoria. Qui ci sono due passaggi e una domanda per vedere se uno ha capito bene La teoria deve essere radicale e cogliere le cose alla radice. Cioè questo concetto della teoria radicale che poi ritorna.. La teoria si realizza in un popolo soltanto se costituisce la realizzazione dei bisogni di tale popolo. Domanda, se è giusta: Marx critica la filosofia tedesca perché introduce le teoria? Cioè Marx dice a questo punto che la filosofia non ha la forza per interpretare tutto quanto ma c'è bisogno di una teoria più completa che tenga conto della complessità della vita sociale, dello sviluppo storico...sì, parlo anche della critica delle armi che sostituisce l'arma della critica. A un certo punto la teoria è uno sviluppo ulteriore della filosofia? Perché essendo uno scritto giovanile da un punto di vista è molto bello perché è tosto, mena, e poi ce l'ha con questa Germania, incazzato nero. Cioè quando lui parla del partito pratico e il partito teorico chi individua....

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Molto concretamente si tratta di questo fatto qua e cioè che tu avevi una tendenza – quella dei liberi, una tendenza neohegeliana –, che appunto vedeva una contraddizione irrisolvibile tra il livello di coscienza di massa e il livello della coscienza filosofica. Per cui se la filosofia avesse dovuto entrare nella scena politica e quindi collegarsi con le masse, avrebbe dovuto rinunciare a quei livelli a cui era arrivata, proprio per mescolarsi con le masse. Quindi la rivoluzione non avrebbe avuto quella purezza che doveva avere, e quindi no alla politica. E questi sono i filosofi che per esempio rifiutano di collaborare alla rivista Annali franco-tedeschi. Questo è il partito teorico, cioè quel partito che non vede che la storia produce gli strumenti per la soluzione dei suoi stessi problemi. Il che significa anche che solo se io vado ad analizzare a fondo la storia trovo i modi per uscirne. La tentazione che ognuno di noi credo abbia molto forte di dire molte volte "la gente è cretina". Però in realtà non è vero. Perché è vero che se noi facciamo una riflessione attenta anche sulle manifestazioni più immediate del comportamento di massa noi scopriamo che c'è una logica molto profonda e addirittura delle lezioni da tirar via. Appunto quei ricercatori universitari che dal punto di vista della coscienza stanno al di sotto di qualunque metalmeccanico ovviamente, quando passano dal parlamentare fascista a quello di Rifondazione Comunista indifferentemente stanno tirando le conseguenze del pragmatismo della sinistra. Hanno ragione loro!

INTERVENTO: Anche per il fatto che non c'è più la sinistra

E’ ovvio, è chiaro. E quindi, per esempio tornando alla riunione che abbiamo fatto ieri, quando c'è questa sorta di contrasto tra Pala che pessimisticamente dice "La gente oggi vuole essere lasciata in pace, appena tu gli vai a proporre qualcosa loro..." e Modugno che dice "No! La gente è rabbiosa", la cosa interessante è che qui l'errore è degli intellettuali. Perché non hanno colto che i due fenomeni sono i due rovesci della stessa medaglia. Proprio perché vale quel pragmatismo, io non ho più strumenti, non avendo più strumenti sono rassegnato e la rassegnazione che cos'è? La rassegnazione è testimonianza del disastro in cui sto. E quando esplode questo disastro passa di qua e la, perché? Perché mi hai detto che sono tutti uguali. Però questo vuol dire che se la sinistra esistesse dovrebbe fare autocritica a questo punto, dovrebbe capire l'errore di aver accettato il discorso del pragmatismo contro l'ideologia.

Dall'altro lato c'era in Germania un partito più pratico, più desideroso dell'azione politica e questo è molto interessante, questo apre un discorso di grande interesse sulla composizione dell'universo democratico e socialista dell'epoca. Perché noi non dobbiamo farci illusioni. Il mondo democratico e socialista dell'epoca di Marx, e anche dell'epoca del Manifesto, è spaventosamente a destra. L'evoluzione più normale è quella del democratico radicale che poi trova la piccola fabbrichetta e si impianta. Perché si tratta generalmente di artigiani, di piccoli contadini, i quali in realtà aspirano a collocarsi nel mondo borghese. E in questa situazione di arretratezza, lo spingere verso l'azione politica in realtà è spingere verso un'evoluzione di tipo borghese. Allora è chiaro: Marx da un lato critica quelli perché non vedono a fondo la dialettica storica, e dall'altro lato coglie nel partito pragmatico e politico, questa spinta in realtà riformista.

E qui andiamo alla terza faccenda fondamentale. Quando Marx parla della realizzazione della filosofia, lui intende due cose.

1) Il fatto che la filosofia deve prendere coscienza anche dei processi storici, politici ed economici, che stanno al fondo della sua nascita. Quindi in sostanza, il filosofo deve vedere attraverso il dibattito concettuale, quelle radici sociali ed economiche da cui quei concetti derivano anche. Un'osservazione che Marx fa da qualche parte è questa: in tedesco universale si dice "allgemein" e Marx sottolinea ricordate che "allgemein" era la parte di terra che nell'organizzazione feudale, veniva coltivata insieme dalla comunità dei contadini. Per dire appunto, attenti che le categorie logiche hanno una loro storia collegata anche alle condizioni sociali, economiche, della storia stessa. Quindi da un lato la filosofia deve cogliere anche queste sue radici, il che significa collegarsi a quei processi politici, economici, e sociali, che sono in condizioni di favorire lo sviluppo della filosofia e su questo mi soffermo dopo. Dall'altro lato Marx dice: la pratica – e per pratica lui intende il movimento


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…...significa che il livello di lotta economico-politico deve riuscire anche a svolgersi fino a quei livelli ulteriori di lotta – morale, psicologico, filosofico, scientifico ecc.. Allora è chiaro che la duplice polemica contro il filosofo che disprezza la politica perché sennò gli annacqua il vino, e il politico che rifiuta la teoria perché in realtà sta spingendo per l'imborghesimento, è chiaro che contro questo, Marx prospetta questa realizzazione della filosofia che è una duplice trasformazione. La filosofia che si rende conto anche delle proprie matrici economico-sociali, ma il movimento che sale al livello dei bisogni filosofici. Banalmente dico la polemica di Lenin contro lo spontaneismo, contro l'economicismo.



 
Stefano Garroni PRIMO RICERCATORE CNR ed ex docente di filosofia a "La Sapienza" università di Roma: collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni". Per informazioni di ogni genere o anche segnalazioni per eventuali errori non esitate a contattarci.