La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
Fa un certo effetto seguire le vicende attuali relative alla guerra in Ucraina e rileggere questo breve articolo di Manlio Dinucci di tre anni fa (Manifesto del 21.05.2019).
Si resta stupiti da come in questi tre anni, in parte trascorsi immersi nella faticosa ed estenuante e totalizzante lotta al Covid 19, il corso degli eventi in Ucraina si sia completamente sviluppato e avverato nelle modalità descritte da Dinucci. L'autore, in fondo, riportava qualcosa che era già di dominio pubblico: il nuovo piano, Overextending and Unbalancing Russia , pubblicato dalla Rand (https://www.rand.org/pubs/research_briefs/RB10014.html). (il collettivo)
L’arte della guerra. Il piano elaborato dal più influente think tank Usa
Costringere l’avversario a estendersi eccessivamente per sbilanciarlo e abbatterlo: non è una mossa di judo ma il piano contro la Russia elaborato dalla Rand Corporation, il più influente think tank Usa che, con uno staff di migliaia di esperti, si presenta come la più affidabile fonte mondiale di intelligence e analisi politica per i governanti degli Stati uniti e i loro alleati. La Rand Corp. si vanta di aver contribuito a elaborare la strategia a lungo termine che permise agli Stati uniti di uscire vincitori dalla guerra fredda, costringendo l’Unione Sovietica a consumare le proprie risorse economiche nel confronto strategico. A questo modello si ispira il nuovo piano, Overextending and Unbalancing Russia, pubblicato dalla Rand.
Secondo i suoi analisti, la Russia resta un potente competitore degli Stati uniti in alcuni campi fondamentali. Per questo gli Usa devono perseguire, insieme ai loro alleati, una strategia complessiva a lungo termine che sfrutti le sue vulnerabilità. Vengono quindi analizzati vari modi per costringere la Russia a sbilanciarsi, indicando per ciascuno le probabilità di successo, i benefici, i costi e rischi per gli Usa. Gli analisti della Rand ritengono che la maggiore vulnerabilità della Russia sia quella economica, dovuta alla sua forte dipendenza dall’export di petrolio e gas, i cui introiti possono essere ridotti appesantendo le sanzioni e accrescendo l’export energetico Usa. Si deve far sì che l’Europa diminuisca l’importazione di gas naturale russo, sostituendolo con gas naturale liquefatto trasportato via mare da altri paesi. Un altro modo per danneggiare nel tempo l’economia della Russia è quello di incoraggiare l’emigrazione di personale qualificato, in particolare giovani russi con un alto grado di istruzione. In campo ideologico e informativo, occorre incoraggiare le proteste interne e allo stesso tempo minare l’immagine della Russia all’esterno, espellendola da forum internazionali e boicottando gli eventi sportivi internazionali che essa organizza.
In campo geopolitico, armare l’Ucraina permette agli Usa di sfruttare il punto di maggiore vulnerabilità esterna della Russia, ma ciò deve essere calibrato per tenere la Russia sotto pressione senza arrivare a un grande conflitto in cui essa avrebbe la meglio.
In campo militare gli Usa possono avere alti benefici, con bassi costi e rischi, dall’accrescimento delle forze terrestri dei paesi europei della Nato in funzione anti-Russia. Gli Usa possono avere alte probabilità di successo e alti benefici, con rischi moderati, soprattutto investendo maggiormente in bombardieri strategici e missili da attacco a lungo raggio diretti contro la Russia. Uscire dal Trattato Inf e schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia assicura loro alte probabilità di successo, ma comporta anche alti rischi.
Calibrando ogni opzione per ottenere l’effetto desiderato – concludono gli analisti della Rand – la Russia finirà col pagare il prezzo più alto nel confronto con gli Usa, ma anche questi dovranno investire grosse risorse sottraendole ad altri scopi. Preannunciano così un ulteriore forte aumento della spesa militare Usa/Nato a scapito delle spese sociali.
Questo è il futuro che ci prospetta la Rand Corporation, il più influente think tank dello Stato profondo, ossia del centro sotterraneo del potere reale detenuto dalle oligarchie economiche, finanziarie e militari, quello che determina le scelte strategiche non solo degli Usa ma dell’intero Occidente. Le «opzioni» previste dal piano sono in realtà solo varianti della stessa strategia di guerra, il cui prezzo in termini di sacrifici e rischi viene pagato da tutti noi.
Non diciamo Lenin, ma con lo stesso De Gaulle se lo sarebbero sognato di piazzare bombe in Francia. Ma si sa, De Gaulle era di destra (e lo era davvero): invece l'Unione Europea è democratica e progressista, e l'Italia in particolare può contare su una destra capace solo di blaterare sui vaccini. (il collettivo)
Fra quattro mesi, in maggio, inizia negli Usa la produzione su larga scala della nuova bomba nucleare B61-12: lo annuncia la U.S. Department of Energy’s National Nuclear Security Administration (L’Amministrazione per la sicurezza nucleare nazionale, NNSA, facente parte del Dipartimento Usa dell’Energia). Man mano che usciranno di fabbrica, le nuove bombe nucleari saranno consegnate alla US Air Force, che le installerà nelle basi in Italia e altri paesi europei al posto delle B61.
La B61-12 è una nuova arma nucleare polivalente che sostituisce tre delle varianti dell’attuale B61 (3, 4 e 7). Ha una testata nucleare con quattro opzioni di potenza, selezionabili a seconda dell’obiettivo da distruggere. Non viene sganciata in verticale come la B61, ma a distanza dall’obiettivo su cui si dirige guidata da un sistema satellitare. Può penetrare nel sottosuolo, esplodendo in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando così da «decapitare» il paese nemico in un first strike nucleare.
Per tale attacco la US Air Force dispone anche della quarta variante della B61, la B61-11 penetrante, ammodernata nel 2001. La B61-12, conferma la NNSA, può essere lanciata sia dal bombardiere stealth B-2A e dal futuro B-21, sia da caccia a duplice capacità convenzionale e nucleare.
Tra questi vi sono gli F-16C/D statunitensi schierati ad Aviano e i Tornado italiani PA-200 schierati a Ghedi. Ancora più idonei all’attacco nucleare con le B61-12 sono gli F-35A, già operativi anche nell’Aeronautica italiana. La NNSA comunica che «tutta la produzione necessaria di B61-12» sarà completata nell’anno fiscale 2026. Il programma prevede la costruzione di 500 bombe, con un costo di circa 10 miliardi di dollari (per cui ciascuna viene a costare il doppio di quanto costerebbe se fosse costruita interamente in oro). Il loro numero effettivo resta però segreto, come resta in gran parte segreta la loro dislocazione geografica.
Essa costituisce il fattore determinante della capacità offensiva delle bombe nucleari B61-12. Se fossero dislocate tutte in territorio statunitense, pronte ad essere trasportate con i bombardieri strategici, ciò non costituirebbe una sostanziale modifica degli attuali assetti strategici. Le B61-12 saranno invece dislocate in altri paesi a ridosso soprattutto della Russia, pronte ad essere trasportate e lanciate con gli F-35 e altri caccia.
Le basi di Aviano e Ghedi sono state ristrutturate per accogliere i caccia F-35A armati delle nuove bombe nucleari. A Ghedi possono essere schierati 30 caccia italiani F-35A, pronti all’attacco sotto comando Usa con 60 bombe nucleari B61-12. Non è escluso che esse vengano dislocate anche in altre basi sul territorio italiano. Non è escluso che, oltre ad essere dislocate in Germania, Belgio e Olanda, siano schierate anche in Polonia, le cui forze aeree partecipano da anni alle esercitazioni Nato di guerra nucleare, e in altri paesi dell’Est. I caccia Nato dislocati nelle repubbliche baltiche, a ridosso della Russia, possono essere anch’essi armati delle B61-12. Non escluso che le nuove bombe nucleari possano essere schierate anche in Asia e Medioriente contro Cina e Iran.
Nonostante siano classificate come «armi nucleari non-strategiche», le B61-12, avvicinate agli obiettivi, hanno capacità offensive analoghe a quelle delle armi strategiche (come le testate nucleari dei missili balistici intercontinentali). Sono quindi armi destabilizzanti, che provocheranno una reazione a catena accelerando la corsa agli armamenti nucleari.
Le 5 potenze nucleari membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito – affermano, in una dichiarazione congiunta (3 gennaio), che «una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta» e che «rimaniamo impegnati a portare avanti negoziati in buona fede su misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari e al disarmo nucleare». Si impegnino allora gli Usa a non schierare in altri paesi, ancora meglio a non produrre, le nuove bombe nucleari B61-12.
La «sospensione» del Trattato Inf, annunciata il 1° febbraio dal segretario di stato americano Mike Pompeo, avvia il conto alla rovescia che, entro sei mesi, porterà gli Stati Uniti a uscire definitivamente dal Trattato. Già da oggi, comunque, Washington si ritiene libera di testare e schierare armi della categoria proibita dal Trattato: missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km), con base a terra. Il Trattato sulle Forze nucleari intermedie, firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, eliminava tutti i missili di tale categoria, compresi quelli schierati a Comiso. Il Trattato Inf è stato messo in discussione da Washington quando gli Stati uniti hanno visto diminuire il loro vantaggio strategico su Russia e Cina.
Come al solito gli Stati Uniti accusano e gli fanno eco i mass media, ma sono sempre i primi a violare i trattati.
Chi
avesse voglia di leggere di tanto in tanto il Bulletin
of the Atomic Scientists,
che si può ricevere nella propria posta elettronica, potrà scoprire
che, se la Russia ha violato il Trattato sulle Forze nucleari
intermedie (INF) [1] (fatto finora non provato), è assai probabile
che gli Stati Uniti abbiano fatto altrettanto. Naturalmente il primo
aspetto è stato sottolineato con forza dai mass media occidentali
dopo la dichiarazione di Pence e poi di Trump di non voler più
rispettare tale trattato, mentre - mi pare - in Italia solo Manlio
Dinucci,
profondo esperto nell’ambito degli armamenti, ha analizzato a fondo
la questione, ma il video della sua intervista è stato ad oggi
visualizzato solo da 3.997 persone.
Per
questa ragione, pur non essendo specialista della materia, mi sembra
importante tornare su questo tema, riportando i contenuti
dell’articolo pubblicato dal su menzionato bollettino e il cui
autore ha tutti i requisiti per trattare con competenza questi
argomenti, ed inoltre, non può essere accusato di pregiudizi
anti-americani.
L’articolo
cui mi riferisco è intitolato “Russia
may have violated the INF Treaty. Here’s how the United States
appears have done the same”
(La Russia potrebbe aver violato il trattato INF. Ecco come gli Stati
Uniti avrebbero fatto lo stesso),ed è stato pubblicato
il 14 febbraio 2019.
Il suo autore è Theodore A. Postol, fisico, professore emerito al
MIT (Massachusetts Institute of Technology); il Bulletin
of the Atomic Scientists costituisce
una pubblicazione digitale, certo di non facile lettura, elaborata
all’Università di Chicago con lo scopo di “fornire informazioni
a sostegno di politiche che contrastino le minacce alla vita umana
prodotte dallo stesso uomo” (io direi dall’imperialismo) come la
guerra nucleare, il cambio climatico, lo sviluppo di tecnologie
distruttive. Minacce che ahimè si sono fatte sempre più incombenti.
Anche questo articolo di Lucio Caracciolo, uscito nell'aprile 2021, dieci mesi prima delle vicende belliche in Ucraina, come anche aveva anticipato Manlio Dinucci nel suo Rand
Corp: come abbattere la Russia - Manlio Dinucci, ci riporta a dover valutare bene le argomentazioni tanto care alla propaganda bellicista occidentale.
Una su tutte quella relativa alla causa scatenante e nello stesso tempo incontrovertibile che inchioda e zittisce brutalmente chiunque osi anche solo minimamente mettere in discussione la possibilità di una pace possibile:
"c'è un aggressore e c'è un aggredito".
Se anche si accetti questa categorica affermazione, ma cercando di argomentare qualche distinguo valido e conseguente, si viene tacciati per "filorussi" anzi peggio "filoputin", in una logica intransigente giocata su "buoni e cattivi" a prescindere da tutto.
Noi non sappiamo quale evoluzione prenderà la vicenda bellica ma non dobbiamo in nessun modo sottovalutare i rischi estremi che questa potrebbe avere in futuro per tutti noi.(il collettivo)
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Big Game - Gli Stati Uniti definiscono le priorità del decennio sullo scacchiere internazionale, rafforzando le alleanze nel Pacifico e in Europa per aver ragione delle due altre potenze mondiali -
Gli Stati Uniti hanno deciso di buttare fuori pista la Cina entro questo decennio. La Cina ha giocato la carta russa per impedirlo, stringendo una quasi inedita intesa con la Russia. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale gli americani si trovano quindi a fronteggiare due grandi potenze, la seconda e la terza del pianeta, in una partita che segue ormai la logica di guerra. Somma zero.
In questo schema triangolare, Washington ha due opzioni per evitare il possibile scontro contemporaneo con entrambe le rivali. La prima, elementare secondo la grammatica della potenza, è di giocare la più debole contro la più forte: Mosca contro Pechino. La seconda, più rischiosa, sta nel liquidare prima la Russia per poi chiudere il match con la Cina ormai isolata. Soffocandola nel suo angolo di mondo dove, senza più il vincolo con i russi, Pechino sarebbe completamente circondata: lungo i mari dalla linea India-Australia-Giappone teleguidata da Washington. Per terra da quasi tutti i vicini, India e Russia in testa.
Che cosa avverrebbe se caccia russi Sukhoi Su 35, schierati nell’aeroporto di Zurigo a una decina di minuti di volo da Milano, pattugliassero il confine con l’Italia con la motivazione di proteggere la Svizzera dall’aggressione italiana? A Roma l’intero parlamento insorgerebbe, chiedendo immediate contromisure diplomatiche e militari.
Lo stesso parlamento, invece, sostanzialmente accetta e passa sotto silenzio la decisione Nato di schierare 8 caccia italiani Eurofighter Typhoon nella base di Amari in Estonia, a una decina di minuti di volo da San Pietroburgo, per pattugliare il confine con la Russia con la motivazione di proteggere i paesi baltici dalla «aggressione russa». La fake news con la quale la Nato sotto comando Usa giustifica la sempre più pericolosa escalation miitare contro la Russia in Europa.
Per dislocare in Estonia gli 8 cacciabombardieri, con un personale di 250 uomini, si spendono (con denaro proveniente dalle casse pubbliche italiane) 12,5 milioni di euro da gennaio a settembre, cui si aggiungono le spese operative: un’ora di volo di un Eurofighter costa 40 mila euro, l’equivalente del salario lordo annuo di un lavoratore.
Questa è solo una delle 33 missioni militari internazionali in cui l’Italia è impegnata in 22 paesi. A quelle condotte da tempo nei Balcani, in Libano e Afghanistan, si aggiungono le nuove missioni che – sottolinea la Deliberazione del governo – «si concentrano in un'area geografica, l'Africa, ritenuta di prioritario interesse strategico in relazione alle esigenze di sicurezza e difesa nazionali».
In Libia, gettata nel caos dalla guerra Nato del 2011 con la partecipazione dell’Italia, l’Italia oggi «sostiene le autorità nell'azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento del controllo e contrasto dell'immigrazione illegale». L’operazione, con l’impiego di 400 uomini e 130 veicoli, comporta una spesa annua di 50 milioni di euro, compresa una indennità media di missione di 5 mila euro mensili corrisposta (oltre la paga) a ciascun partecipante alla missione.
In Tunisia l’Italia partecipa alla Missione Nato di supporto alle «forze di sicurezza» governative, impegnate a reprimere le manifestazioni popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita.
In Niger l’Italia inizia nel 2018 la missione di supporto alle «forze di sicurezza» governative, «nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area», comprendente anche Mali, Burkina Faso, Benin, Mauritania, Ciad, Nigeria e Repubblica Centrafricana (dove l’Italia partecipa a una missione Ue di «supporto»).
È una delle aree più ricche di materie prime strategiche – petrolio, gas naturale, uranio, coltan, oro, diamanti, manganese, fosfati e altre – sfruttate da multinazionali statunitensi ed europee, il cui oligopolio è però ora messo a rischio dalla crescente presenza economica cinese.
Da qui la «stabilizzazione» militare dell’area, cui partecipa l’Italia inviando in Niger 470 uomini e 130 mezzi terrestri, con una spesa annua di 50 milioni di euro.
A tali impegni si aggiunge quello che l’Italia ha assunto il 10 gennaio: il comando della componente terrestre della Nato Response Force, rapidamente proiettabile in qualsiasi parte del mondo.
Nel 2018 è agli ordini del Comando multinazionale di Solbiate Olona (Varese), di cui l’Italia è «la nazione guida». Ma – chiarisce il Ministero della difesa – tale comando è «alle dipendenze del Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa», sempre nominato dal presidente degli Stati uniti. L’Italia è quindi sì «nazione guida», ma sempre subordinata alla catena di comando del Pentagono.
Gli
eventi che preparano la nascita della NATO iniziano con la Seconda
guerra mondiale. Nel giugno 1941 la Germania nazista invade l’URSS
con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei,
concentrando in territorio sovietico 201 divisioni, equivalenti al
75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungono 37 divisioni dei
satelliti tra cui l’Italia. L’URSS chiede ripetutamente agli
Alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran
Bretagna lo ritardano, mirando a scaricare la potenza nazista
sull’URSS per indebolirla e avere così una posizione dominante al
termine della guerra. Il secondo fronte viene aperto con lo sbarco
anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai
l’Armata Rossa e i partigiani sovietici hanno sconfitto le truppe
tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista.
Il
prezzo pagato dall’Unione Sovietica è altissimo: circa 27 milioni
di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della
popolazione, in rapporto allo 0,3% degli USA in tutta la Seconda
guerra mondiale; circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre
1.700 città e grossi abitati, 70mila piccoli villaggi, 30 mila
fabbriche distrutte.
La
guerra fredda, che divide di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda
guerra mondiale, non viene provocata da un atteggiamento aggressivo
dell’URSS, uscita in gran parte distrutta dalla guerra, ma dal
piano di Washington di imporre il dominio statunitense nel
dopoguerra. Anche qui parlano i fatti storici. Il bombardamento
atomico di Hiroshima e Nagasaki viene effettuato dagli Stati Uniti
nell’agosto 1945 non tanto per sconfiggere il Giappone, ormai allo
stremo, quanto per uscire dalla Seconda guerra mondiale con il
massimo vantaggio possibile soprattutto sull’Unione Sovietica. Ciò
è reso possibile dal fatto che, in quel momento, gli Stati Uniti
sono gli unici a possedere l’arma nucleare.
Appena
un mese dopo il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, nel
settembre 1945, al Pentagono già calcolano che occorrono oltre 200
bombe nucleari per attaccare l’URSS. Nel 1946, quando il discorso
di Churchill sulla «cortina di ferro» apre ufficialmente la guerra
fredda, gli USA hanno 11 bombe nucleari, che nel 1949 salgono a 235,
mentre l’URSS ancora non ne possiede. Ma in quell’anno l’URSS
effettua la prima esplosione sperimentale, cominciando a costruire il
proprio arsenale nucleare. In quello stesso anno, il 4 aprile 1949,
gli Stati Uniti creano la NATO.
L’Alleanza
sotto comando USA comprende durante la guerra fredda 16 paesi: Stati
Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica Federale
Tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo,
Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Sei anni dopo la
NATO, il 14 maggio 1955, nasce il Patto di Varsavia, comprendente
Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica
Democratica Tedesca, Romania, Ungheria, Albania (questa dal 1955 al
1968).
Giulietto Chiesa in prima linea fino all’ultimo.
Di Manlio Dinucci - Il Manifesto, 28 aprile 2020.
Giulietto Chiesa è morto poche ore dopo aver concluso, nel 75° Anniversario della Liberazione e della fine della Seconda guerra mondiale, il Convegno internazionale del 25 Aprile «Liberiamoci dal virus della guerra». Un convegno in diretta streaming, organizzato dal Comitato No Guerra No Nato, di cui era uno dei fondatori, e da Global Research (Canada), il Centro di ricerca sulla globalizzazione diretto dal professor Michel Chossudovsky.
Diversi relatori – dall’Italia ad altri paesi europei, dagli Stati uniti alla Russia, dal Canada all’Australia – hanno esaminato le ragioni di fondo per cui dal 1945 ad oggi la guerra non è mai terminata: al Secondo conflitto mondiale ha fatto seguito la Guerra fredda, quindi una serie ininterrotta di guerre e il ritorno a una situazione analoga a quella della Guerra fredda che accresce il rischio di un conflitto nucleare.
Gli economisti Michel Chossudovsky (Canada), Peter Koenig (Svizzera) e Guido Grossi hanno spiegato come potenti forze economiche e finanziarie sfruttano la crisi del coronavirus per impadronirsi delle economie nazionali e cosa dovremmo fare per sventare tale piano.
David Swanson (direttore di World Beyond War, Usa), l’economista Tim Anderson (Australia), il fotogiornalista Giorgio Bianchi e lo storico Franco Cardini hanno parlato delle guerre passate e attuali, funzionali agli interessi delle stesse potenti forze.
L’esperto di questioni politico-militari Vladimir Kozin (Russia), la saggista Diana Johnstone (Usa), la segretaria della Campagna per il disarmo nucleare Kate Hudson (Regno Unito) hanno esaminato i meccanismi che accrescono la probabilità di un catastrofico conflitto nucleare.
John Shipton (Australia), padre di Julian Assange, e Ann Wright (Usa), già colonnello dello US Army, hanno illustrato la drammatica situazione di Julian Assange, il giornalista fondatore di WikiLeaks detenuto a Londra, col rischio di essere estradato negli Stati Uniti dove lo attende la pena dell’ergastolo o quella di morte.
Su tale tema ha incentrato il suo intervento Giulietto Chiesa. Questi, in sintesi, alcuni brani:
«Il fatto che si voglia distruggere Julian Assange vuol dire che anche noi, noi tutti, saremo imbavagliati, oscurati, minacciati, impossibilitati a capire cosa succede a casa nostra e nel mondo. Questo non è il futuro, è il presente. In Italia il governo organizza una squadra di censori ufficialmente incaricata di fare pulizia di tutte le notizie che divergono da quelle ufficiali. E' la censura di stato, come altrimenti si può chiamare? Anche la Rai, la televisione pubblica, istituisce una task force contro le “fake news” per cancellare le tracce delle loro bugie quotidiane che inondano tutti i loro teleschermi. E poi ci sono, ancor peggio, i tribunali misteriosi di gran lunga più potenti di quanto non siano questi cacciatori di fake news: sono Google, Facebook, che manipolano le notizie e, con i loro algoritmi e i loro trucchi segreti, censurano senza appello. Siamo già circondati da nuovi tribunali che cancellano i nostri diritti. Vi ricordate l'articolo 21 della Costituzione italiana? C'è scritto “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”. Ma 60 milioni di italiani sono costretti ad ascoltare un solo megafono che urla da tutti i 7 canali televisivi del potere. Ecco perché Julian Assange è un simbolo, una bandiera, un invito alla riscossa, al risveglio prima che sia troppo tardi. È indispensabile unire le forze che abbiamo, che non sono tanto piccole ma hanno un difetto fondamentale: quello di essere divise, incapaci di parlare con una voce unica. Occorre uno strumento che parli ai milioni di cittadini che vogliono sapere».
Queste le ultime parole di Giulietto Chiesa. Confermate dal fatto che, subito dopo lo streaming, il video del Convegno è stato oscurato perché «il suo contenuto è stato identificato dalla Comunità YouTube inappropriato o offensivo per alcuni tipi di pubblico».
«L’immagine è davvero apocalittica, sembra che una bomba sia caduta sopra questa importantissima arteria»: così un giornalista ha descritto il ponte Morandi appena crollato a Genova, stroncando la vita di decine di persone.
Parole che richiamano alla mente altre immagini, quelle dei circa 40 ponti serbi distrutti dai bombardamenti Nato del 1999, tra cui il ponte sulla Morava meridionale dove due missili colpirono un treno facendo strage dei passeggeri.
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane fornite dal governo D’Alema, 1100 aerei effettuarono 38 mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili. Furono sistematicamente smantellate le strutture e infrastrutture della Serbia, provocando migliaia di vittime tra i civili.
Ai bombardamenti parteciparono 54 aerei italiani, che effettuarono 1378 sortite, attaccando gli obiettivi stabiliti dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiarò D’Alema.
Nello stesso anno in cui partecipava alla demolizione finale dello Stato jugoslavo, il governo D’Alema demoliva la proprietà pubblica della Società Autostrade (gestore anche del ponte Morandi), cedendone una parte a un gruppo di azionisti privati e quotando il resto in Borsa.
Il ponte Morandi è crollato fondamentalmente per responsabilità di un sistema incentrato sul profitto, lo stesso alla base dei potenti interessi rappresentati dalla Nato.
L’accostamento tra le immagini del ponte Morandi crollato e dei ponti serbi bombardati, che a prima vista può apparire forzato, è invece fondato. Anzitutto, la scena straziante delle vittime sepolte dal crollo ci dovrebbe far riflettere sulla orrenda realtà della guerra, fatta apparire dai grandi media ai nostri occhi come una sorta di wargame, con il pilota che inquadra il ponte e la bomba teleguidata che lo fa saltare in aria.
In secondo luogo ci dovremmo ricordare che la Commissione europea ha presentato il 28 marzo un piano d’azione che prevede il potenziamento delle infrastrutture della Ue, ponti compresi, non però per renderle più sicure per la mobilità civile ma più idonee alla mobilità militare (v. il manifesto, 3 aprile 2018).
Il piano è stato deciso in realtà dal Pentagono e dalla Nato, che hanno richiesto alla Ue di «migliorare le infrastrutture civili così che siano adattate alle esigenze militari», in modo da poter muovere con la massima rapidità carri armati, cannoni semoventi e altri mezzi militari pesanti da un paese europeo all’altro per fronteggiare «l’aggressione russa».
Ad esempio, se un ponte non è in grado di reggere il peso di una colonna di carrarmati, dovrà essere rafforzato o ricostruito. Qualcuno dirà che in tal modo il ponte diverrà più sicuro anche per i mezzi civili. La questione non è però così semplice. Tali modifiche verranno effettuate solo sulle tratte più importanti per la mobilità militare e l’enorme spesa sarà a carico dei singoli paesi, che dovranno sottrarre risorse al miglioramento generale delle infrastrutture.
È previsto un contributo finanziario Ue per l’ammontare di 6,5 miliardi di euro, ma – ha precisato Federica Mogherini, responsabile della «politica di sicurezza» della Ue – solo per «assicurare che infrastrutture di importanza strategica siano adatte alle esigenze militari».
I tempi stringono: entro settembre il Consiglio europeo dovrà specificare (su indicazione Nato) quali sono le infrastrutture da potenziare per la mobilità militare. Ci sarà anche il ponte Morandi, ricostruito in modo che i carri armati Usa/Nato possano transitare sicuri sulla testa dei genovesi?
Gli Stati Uniti hanno bisogno delle basi militari per mantenere il loro dominio imperialista sul mondo. L’occupazione dei paesi che ospitano le sue basi si fonda sulla Nato. Cosa sta alla base della smodata ambizione Usa?
“La
NATO non è un’alleanza, costituisce piuttosto un’occupazione
militare di
quei paesi che furono ‘liberati’ dagli alleati nel corso della
Seconda Guerra Mondiale” (di fatto vinta dallo sforzo
immane dell’Unione Sovietica),
il cui scopo è sempre stato quello di orientare in senso
filostatunitense la politica europea e di impedire il sorgere nel
nostro continente di governi ostili alla superpotenza oggi in seria
crisi.
Questo
concetto è ben spiegato da Manlio Dinucci, il conduttore della
contro-celebrazione della NATO, il quale scrive sul Manifesto che
la “Nato è un’organizzazione sotto il comando del Pentagono… è
una macchina da guerra che opera per gli interessi degli Stati Uniti,
con la complicità dei maggiori gruppi europei di potere”, la quale
può esser giustamente accusata di essersi macchiata di crimini
contro l’umanità.
Da
qui ha preso le mosse il recente convegno internazionale sul 70°
anniversario della NATO, tenutosi a Firenze lo scorso 7 aprile [1], a
cui hanno partecipato circa 600 persone, venute da tutta Italia e
mostrando che nel nostro paese non tutti si identificano con la
politica supinamente allineata dei nostri governi (di vari colori) ai
voleri statunitensi, che – dopo il dissolvimento dell’Unione
Sovietica e dei suoi stretti alleati – hanno
scatenato sanguinose guerre e conflitti ancora in atto.
"A Princeton fanno le simulazioni al computer (naturalmente accusando la Russia di aver cominciato), ma involontariamente ci annunciano, a tutti noi europei, che saremo i primi a morire, a centinaia di milioni."
Nonostante tutti i tentativi l’Unione Europea non riesce a rendersi indipendente dalle risorse energetiche russe e tutte le conseguenze negative delle sue scelte nefaste ricadono su noi lavoratori.
Se disinformare oggi vuol dire affermare qualcosa che i media dominanti non rendono noto, stiamo facendo disinformazione, ne siamo perfettamente consapevoli e ce ne assumiamo tutte le responsabilità. Arriviamo addirittura a citare, tra le altre, fonti russe, anche se questo non significa automaticamente che apprezziamo la Russia attuale, così come si è strutturata con la dissoluzione dell’Urss, le cui straordinarie risorse hanno sollecitato gli appetiti degli imperialisti, che pensavano di potersene approfittare senza colpo ferire. E Infatti hanno guidato la mano dei cosiddetti oligarchi a far man bassa delle proprietà collettive, appropriandosene di una parte consistente, frazionata in pacchetti azionari, e controllando direttamente il rilevante apparato militare ex sovietico. Purtroppo per loro questo processo distruttivo ha avuto termine, la Russia ha ripreso nelle proprie mani il suo destino e si è riaffacciata sullo scenario internazionale facendo presenti i suoi interessi, come fanno tutte le grandi potenze, anche se li nascondono dietro la retorica dei valori e degli ideali, la cui consistenza è più fragile della neve al sole.
Naturalmente non ci richiameremo solo a fonti russe, ma faremo dei parallelismi per verificarne l’attendibilità. Invitiamo “i guardiani della verità” a rispondere con degli argomenti ai nostri argomenti, anche per evitare di fare la figura pietosa della Sarzanini, che non è stata capace di rispondere alle semplici domande postele da Giorgio Bianchi e Manlio Dinucci sulla loro “attività disinformativa”. Sappiamo bene che l’invito è inutile, ma la buona creanza e la logica ci ispirano; sappiamo anche che i suddetti guardiani hanno ragione solo perché hanno dalla loro parte la forza, ossia lo straordinario apparato mediatico, che però comincia a convincere sempre meno persone. Siamo convinti anche di avere i loro stessi diritti di esprimerci e di convincere con argomenti, ma come ci ha insegnato Marx “tra due diritti uguali vince la forza”. Non ci resta quindi che acquisire maggiore forza, portando dalla nostra parte la maggior parte di quelli che sono colpiti dalle scelte paradossali e ipocrite dei cosiddetti “padroni del vapore” e dei loro portavoce, ossia i lavoratori.
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando
nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di
cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito
per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina –
il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è
attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato,
come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a
far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della
«Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei
Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e
il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005,
sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e
dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato
a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato
sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il
summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un
accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le
forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel
2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la
cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo.
Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami
all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a
corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi
riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello
stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina,
di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata
anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per
facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle
forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato.
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul
ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati
stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di
informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di
«rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. E
poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una
rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di
quella che appare.
Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi
segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti
neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti
ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che
insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi
e attentati. Lo stesso fece la Nato durante la guerra fredda per formare la
struttura paramilitare segreta di tipo «stay-behind», col nome in codice
«Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vennero
addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo
di stato.
È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza
Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno
l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti»
cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti
che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa). Il 20 febbraio 2014 il
segretario generale della Nato si rivolge, con tono di comando, alle forze
armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze
negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e
da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è
costretto alla fuga. La direzione delle forze armate viene assunta da Andriy
Parubiy, cofondatore del partito socialnazionalista ridenominato Svoboda,
divenuto segretario del Comitato di difesa nazionale, e, in veste di ministro
della difesa, da Igor Tenjukh, legato a Svoboda.
La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro
passo nella sua espansione ad Est, inglobando l’Ucraina. Lo conferma la
riunione dei ministri Nato della difesa, che si svolge il 26-27 febbraio 2014
al quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina,
con la quale – sottolineano i ministri
nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui
quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria
«la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina).
I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella
crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che
per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia
stabilmente sotto la Nato).