*Da: http://casadellacultura.it/ Qui il link alla rivista completa: http://casadellacultura.it/viaborgogna3/viaborgogna3-n5-filosofia-e-spazio-pubblico.pdf
**Fulvio_Papi. Filosofo, politico,scrittore e giornalista
italiano
Cerchiamo di mettere in
luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel
scritta nel 1820 quando
aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino.
Gli studiosi di Hegel hanno
spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come
precedenti importanti della “Fenomenologia dello
Spirito” del 1808 come
della “Filosofia del diritto”,
anzi questi scritti giovanili
mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia
delle successive opere a
stampa.
Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista
la strada teorica che Hegel
ha poi codificato come
sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto
generale si può trovare una
linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli
inizi degli anni Cinquanta,
Mario Rossi (un amico di
grande valore perduto immaturamente), studiando
proprio gli scritti jenensi
notava che “la preminenza assoluta di valore della
determinazione politica
serve a comprendere e a
risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire
che ogni figura sociale,
l’agricoltore, l’artigiano, il
medico, il professore vanno compresi nel significato
spirituale che essi hanno
nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith,
Ricardo, e classici della
economia politica. Questa
conoscenza ha portato a
ritenere che Hegel, avendo
nozione di queste opere,
avesse anche una immagine teorica della società
“borghese” che stava nascendo su una base capitalistica. Detta così questa
proposizione non è vera. E
qui è necessaria una considerazione generale intorno a che cosa sia la conoscenza di opere e quale
senso esse possano avere
in un tessuto interpretativo.
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
venerdì 19 maggio 2017
giovedì 18 maggio 2017
Etica, progresso, marxismo*- Giuseppe Cacciatore**
*Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582,n° 1-2/2016, dal titolo"Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 12-17. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/596 **Giuseppe_Cacciatore è un filosofo italiano (Università Federico II di Napoli)
Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al progresso misurano quasi alla stregua di un certificato di assicurazione sulla vita! (LABRIOLA 1965, p.286).
Dove diminuisce il dolore dell’uomo là c’è progresso. Tutto il resto non ha senso.(BROCH 1950,p.19).
La storia universale è una storia del progresso – o forse anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei tempi nomadi e agrario-feudali alla conquista dei mari del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua differenziazione fra paesi sviluppati e non-sviluppati, per finire all’appropriazione dell’aria e dello spazio dei nostri giorni. (SCHMITT 1972, p. 311).
Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche.
Perciò
non sarebbe sbagliato sottolineare che la critica delle ideologie del
progresso può anch’essa muovere da prospettive storicistiche.
Questo presuppone però che si operi una distinzione nell’ambito
della polisemanticità degli storicismi. Se, ad esempio, si pone in
questione la prospettiva storicistica fondata non sul concetto di
legge e di generalità, ma su quello di singolarità e individualità
(anche nella sua declinazione etica), si modifica radicalmente
l’equazione progresso/storia universale. È il caso, ad esempio, di
quegli storicismi che hanno messo capo ad una filosofia speculativa
della storia, o a una teoria evolutivo-ottimistica. Tutto questo ha,
naturalmente, non secondari riflessi sul modo stesso di pensare e di
scrivere la storia del progresso (il progresso del capitalismo o il
regresso delle crisi economiche? Il progresso della società
mercantile o la decadenza dell’anarchia della produzione? Il
progresso delle masse o quello indotto dalla tecnica? Il progresso
delle ideologie liberali o quello delle ideologie socialiste?).
mercoledì 17 maggio 2017
SULLA SINISTRA TEDESCA*- Hans Heinz Holz**
*Da “L’Ernesto”,
N. 3 Settembre/Ottobre 2005
**Hans_Heinz_Holz (26 2 1927 – 11
12-2011), intellettuale
tedesco, saggista, fra i massimi pensatori marxisti europei.
Professore Emerito di Filosofia presso l’Università di Groningen,
Olanda.
Traduzione a cura di
Stefano Garroni, primo ricercatore di Filosofia del CNR di Roma,
traduttore di gran parte delle opere di H.H. Holz in Italia.
Il punto di vista
critico del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz, in merito al
progetto tedesco “di sinistra” alternativa alla SPD,
La fondazione di un
partito di sinistra (Linkspartei), che potesse raggiungere anche il
numero di suffragi per essere rappresentato al Bundestag (parlamento
federale) ha fatto nascere euforiche aspettative negli ambienti
tedeschi, critici del sistema.
Nel periodo del cancellierato di G.
Schroeder, la Spd si era comportata, in politica interna, come
esecutrice degli interessi del grande capitale e, in politica estera,
come sostenitrice di un attivo imperialismo germanico-europeo. Già
da anni, in effetti, la politica socialdemocratica si era andata
distinguendo solo per sfumature da quella della Cdu. Contro il ruolo
guida degli Usa, i quali nel periodo della “guerra fredda”
avevano operato, nell’interesse della borghesia europea, per
ricacciare indietro l’Unione Sovietica, dopo il 1990 l’Unione
Europea – dominata da Francia e Germania – aveva maturato l’idea
di una propria posizione di dominio mondiale: iniziò così la lotta
per la conquista del mercato mondiale, in cui dovunque – perfino
nel loro “cortile di casa” latino-americano – gli Usa andavano
perdendo terreno.
Gli Usa reagirono, usando il pretesto della lotta
al terrorismo, con una politica mirante all’impossessarsi delle
fonti energetiche mediorientali e dell’Asia centrale. La Germania e
la Francia, che non possono accettare il monopolio statunitense sulle
fonti energetiche – perché significherebbe accettare, anche, la
loro riduzione a potenze di secondo rango – si contrapposero
all’escalation militaristica. La guerra contro l’Iraq rese chiaro
che gli Usa erano pronti a perseguire l’obiettivo della loro
egemonia anche ricorrendo a mezzi militari, nel caso anche contro
propri alleati. La concorrenza intercapitalistica entrava in
contraddizione con il complessivo interesse capitalistico allo sfruttamento. Questa contraddizione, che nasce da una coesistenza
solidale ma anche da rivalità inter-monopolistiche, determina oggi –
anche se in modo non apparente e complesso – la situazione politica
mondiale.
Già a partire dagli
anni novanta, esistevano negli Usa e in Europa dei piani diretti non
più al solo controllo dei Paesi sfruttati, ma anche
all’intimidazione delle grandi potenze imperialistiche loro
concorrenti.
martedì 16 maggio 2017
199 anni di Karl Marx*- Roberto Fineschi**
*Da: https://www.lacittafutura.it/
**Roberto_Fineschi ist ein italienischer Philosoph, der sich mit der Dialektik der Waren- und Kapitaltheorie bei Karl Marx befasst.
(https://marxdialecticalstudies.jimdo.com/) (http://marxdialecticalstudies.blogspot.it/)
**Roberto_Fineschi ist ein italienischer Philosoph, der sich mit der Dialektik der Waren- und Kapitaltheorie bei Karl Marx befasst.
(https://marxdialecticalstudies.jimdo.com/) (http://marxdialecticalstudies.blogspot.it/)
“Ei
fu, siccome immobile, / dato il mortal sospiro”, e via dicendo.
Così inizia la celeberrima ode manzoniana, Il
cinque maggio,
che tutti gli studenti italiani, molti di essi obtorto
collo,
hanno studiato se non addirittura imparato a memoria durante gli anni
scolastici. La stessa data in cui nel 1821 a Sant’Elena morì
Napoleone era stata, tre anni prima, la data in cui un altro gigante
della storia era nato a Treviri: Carlo
Enrico Marx.
Con una qualche ironia della sorte, proprio Napoleone, insieme al
nipote Napoleone III, è il personaggio storico che Marx dichiara di
amare di meno rispondendo alle domande di un “album di famiglia”
della figlia Jenny.
Date
a parte ed in attesa delle grandi celebrazioni del prossimo anno per
i 200 anni, dedicherò un paio di riflessioni all’attualità del
pensiero del vecchio “Moro”, come lo chiamavano amici e
familiari. Sin da subito tuttavia, è bene dire chiaramente che la
teoria di Marx non ha tutt’oggi
eguali per la sua capacità di comprensione e spiegazione delle
tendenze di fondo del modo di produzione capitalistico,
quindi della struttura della società in cui viviamo. Questo non
significa ovviamente che sia perfetta, che non necessiti di essere
criticata, approfondita o continuata ove necessario, come del resto
il suo stesso autore auspicava; ma non significa neppure che essa non
funzioni più. Anzi, nessuna meglio di essa ha delle risposte - non
tutte sfortunatamente - a molti dei processi
storico-economico-sociali tutt’ora in corso.
Le
teorie mainstream di
economia e di politica ci spiegano come il mondo dovrebbe
essere:
senza conflitto sociale, senza crisi economiche, senza sopraffazione
e sfruttamento. Ci spiegano a chiare lettere in celebrati manuali
come siano illegittime le rivendicazioni sociali, errori passeggeri
le crisi e via dicendo, perché così è nel mondo armonico ed
idilliaco che i loro autori costruiscono (e che ahimè gli studenti
sono costretti a studiare). Per la teoria di Marx, invece, non è una
sorpresa che ci siano crisi, sfruttamento, conflitto, ecc. Marx non è
così banale da dire al mondo ed alle persone come dovrebbero essere,
questo già lo fanno i “preti” di tutte le parrocchie, religiose
o laiche; Marx spiega le cose per quello che sono. Insomma, la
scienza contro l’ideologia.
lunedì 15 maggio 2017
I salari e la questione irrisolta dell’euro*- Alberto Bagnai**
*Da: http://www.ilsole24ore.com/
**albertobagnai economista italiano, Department of Economics – University “Gabriele D’Annunzio” goofynomics asimmetrie
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/il-tradimento-degli-intellettuali.html
L'euro è stato il più grande successo della scienza economica, ma sta diventando la più umiliante sconfitta per la professione economica. Ringrazio il Sole 24 Ore, che mi permette, con apprezzabile spirito di apertura, di esporre e discutere nel quadro di un dibattito autorevole un paradosso che ci riguarda tutti, economisti e non.
L’euro è stato un grande successo della scienza economica: non conosco alcun altro caso in cui essa sia stata in grado di prevedere con una precisione così sconcertante le conseguenze di una decisione politica. Vi fornisco tre esempi. Partiamo dall’ultimo Bollettino economico della Bce, il quale lamenta come la crescita dei salari nell’Eurozona sia molto tenue, il che suggerisce una probabile sottostima dei dati ufficiali sulla disoccupazione. Siamo quindi nelle condizioni previste nel 1996 da Rudiger Dornbusch, quando avvertiva che l’unione monetaria avrebbe «trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività», rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere (lo mostrò Mundell nel 1961). In secondo luogo, in tutta Europa i partiti euroscettici progrediscono (nonostante le sconfitte), e mettono in causa il modello di integrazione politica europea. È esattamente quanto Nicholas Kaldor aveva previsto nel 1971, quando ammoniva che «se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali esercitano una pressione tale da portare al crollo del sistema, avrà impedito una unione politica anziché favorirla». Infine, Macron non si era nemmeno insediato, che dalla Germania il rifiuto della proposta francese di Eurobond chiariva come la potenza egemone non intenda deflettere dalla propria intransigenza. Ottimo esempio di quanto Martin Feldstein diceva nel 1997: «l’aspirazione francese all’uguaglianza e l’aspettativa tedesca di egemonia non sono coerenti».
**albertobagnai economista italiano, Department of Economics – University “Gabriele D’Annunzio” goofynomics asimmetrie
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/il-tradimento-degli-intellettuali.html
L'euro è stato il più grande successo della scienza economica, ma sta diventando la più umiliante sconfitta per la professione economica. Ringrazio il Sole 24 Ore, che mi permette, con apprezzabile spirito di apertura, di esporre e discutere nel quadro di un dibattito autorevole un paradosso che ci riguarda tutti, economisti e non.
L’euro è stato un grande successo della scienza economica: non conosco alcun altro caso in cui essa sia stata in grado di prevedere con una precisione così sconcertante le conseguenze di una decisione politica. Vi fornisco tre esempi. Partiamo dall’ultimo Bollettino economico della Bce, il quale lamenta come la crescita dei salari nell’Eurozona sia molto tenue, il che suggerisce una probabile sottostima dei dati ufficiali sulla disoccupazione. Siamo quindi nelle condizioni previste nel 1996 da Rudiger Dornbusch, quando avvertiva che l’unione monetaria avrebbe «trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività», rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere (lo mostrò Mundell nel 1961). In secondo luogo, in tutta Europa i partiti euroscettici progrediscono (nonostante le sconfitte), e mettono in causa il modello di integrazione politica europea. È esattamente quanto Nicholas Kaldor aveva previsto nel 1971, quando ammoniva che «se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali esercitano una pressione tale da portare al crollo del sistema, avrà impedito una unione politica anziché favorirla». Infine, Macron non si era nemmeno insediato, che dalla Germania il rifiuto della proposta francese di Eurobond chiariva come la potenza egemone non intenda deflettere dalla propria intransigenza. Ottimo esempio di quanto Martin Feldstein diceva nel 1997: «l’aspirazione francese all’uguaglianza e l’aspettativa tedesca di egemonia non sono coerenti».
domenica 14 maggio 2017
L’imperialismo e la trasformazione dei valori in prezzi*- Torkil Lauesen, Zak Cope**
*Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ articolo originale in inglese Monthly Review
Introduzione
Con
questo articolo, ci proponiamo di dimostrare che i bassi prezzi dei
beni prodotti nel Sud globale, ed il concomitante modesto contributo
delle sue esportazioni al prodotto interno lordo del Nord, occultano
la reale dipendenza delle economie di quest’ultimo dal lavoro a
basso costo del Sud. Dunque, sosteniamo che la delocalizzazione
dell’industria nel Sud globale, nel corso dei tre decenni passati,
ha condotto ad un massiccio incremento del valore trasferito al Nord.
I principali meccanismi di tale processo consistono nel rimpatrio del
plusvalore tramite investimenti diretti esteri, lo scambio ineguale
di prodotti incorporanti differenti quantità di valore e
l’estorsione per mezzo del servizio del debito.
L’assorbimento
di enormi economie del Sud all’interno del sistema capitalistico
mondiale, dominato da multinazionali e istituzioni finanziarie con
base nel Nord globale, ha posto le prime nella condizione di
dipendenze socialmente disarticolate votate all’esportazione.
I
miseramente bassi livelli dei salari di tali economie trovano
fondamento (1) nella pressione imposta dalle loro
esportazioni al fine di competere per limitate porzioni del mercato,
in larga parte metropolitano, dei consumatori; (2) il drenaggio di
valore e risorse naturali, che altrimenti potrebbero essere
utilizzati per costruire le forze produttive necessarie all’economia
nazionale; (3) l’irrisolta questione agraria sfociante in una sovra
offerta di lavoro; (4) governi compradori repressivi, i quali
accettano, traendone beneficio, l’ordine neoliberista e sono quindi
incapaci e non disposti a concedere aumenti salariali, per timore di
stimolare rivendicazioni di maggior potere politico da parte dei
lavoratori; e infine (5) frontiere militarizzate così da prevenire
la circolazione dei lavoratori verso il Nord globale, e di
conseguenza, un equalizzazione dei rendimenti da lavoro.
La globalizzazione imperialista della produzione
La dimensione europea della formazione tra competizione globale e crisi*- Antonio Allegra**
*Da: http://dialetticaefilosofia.it/ pubblicato su contropiano atti del convegno "Formazione, Ricerca e Controriforme", Bologna 30 aprile 2016, Anno 25, n.2 2016. retedeicomunisti.
**Università per Stranieri di Perugia, Dipartimento di Scienze umane e sociali.
«[la] necessità di creare la più larga base possibile per la selezione e l’elaborazione delle più alte qualifiche intellettuali [...] non è senza inconvenienti: si crea così la possibilità di vaste crisi di disoccupazione negli strati medi intellettuali come avviene di fatto in tutte le società moderne». (A. Gramsci, Q.12 [XXIX] § 1, 1932.).
«La scuola media superiore per tutti al più alto livello di qualità [...] è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico che vuole bensì la scuola per tutti, ma perché tutti, convenientemente sottoeducati, possano essere consegnati alla selezione extrascolastica e al sottoimpiego nella produzione».
(F. Fortini, Non si dà vera vita se non nella falsa, in Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Bologna, Guaraldi, 1971, p. 113).
«La distinzione di “lavoro manuale” e “intellettuale” è di grado, non di qualità [...] è storica, sempre. [...] Così le funzioni “fisiche” e “intellettuali” del lavoro sono, nel loro complesso, quelle che la Riproduzione sociale complessiva in un determinato istante esige. Esse costituiscono un insieme di potenze sociali, che può essere promosso e ampliato, o viceversa disperso e lasciato decadere. Dunque: il rapporto di lavoro manuale e intellettuale riguarda tutta intera la classe lavoratrice. Nel mondo moderno, questo rapporto è una questione di classe e di lotta di classe, nello scontro sulla quale si gioca una fondamentale partita di egemonia».
(A. Mazzone, Le classi nel mondo moderno (parte terza). Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento, in «Proteo», 2005, 1).
Leggi tutto l'articolo: http://dialetticaefilosofia.it/public/pdf/96allegra.pdf
**Università per Stranieri di Perugia, Dipartimento di Scienze umane e sociali.
«[la] necessità di creare la più larga base possibile per la selezione e l’elaborazione delle più alte qualifiche intellettuali [...] non è senza inconvenienti: si crea così la possibilità di vaste crisi di disoccupazione negli strati medi intellettuali come avviene di fatto in tutte le società moderne». (A. Gramsci, Q.12 [XXIX] § 1, 1932.).
«La scuola media superiore per tutti al più alto livello di qualità [...] è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico che vuole bensì la scuola per tutti, ma perché tutti, convenientemente sottoeducati, possano essere consegnati alla selezione extrascolastica e al sottoimpiego nella produzione».
(F. Fortini, Non si dà vera vita se non nella falsa, in Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Bologna, Guaraldi, 1971, p. 113).
«La distinzione di “lavoro manuale” e “intellettuale” è di grado, non di qualità [...] è storica, sempre. [...] Così le funzioni “fisiche” e “intellettuali” del lavoro sono, nel loro complesso, quelle che la Riproduzione sociale complessiva in un determinato istante esige. Esse costituiscono un insieme di potenze sociali, che può essere promosso e ampliato, o viceversa disperso e lasciato decadere. Dunque: il rapporto di lavoro manuale e intellettuale riguarda tutta intera la classe lavoratrice. Nel mondo moderno, questo rapporto è una questione di classe e di lotta di classe, nello scontro sulla quale si gioca una fondamentale partita di egemonia».
(A. Mazzone, Le classi nel mondo moderno (parte terza). Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento, in «Proteo», 2005, 1).
Leggi tutto l'articolo: http://dialetticaefilosofia.it/public/pdf/96allegra.pdf
sabato 13 maggio 2017
La situazione in Venezuela: le violenze dell’opposizione, la contromossa di Maduro e la manipolazione dei media*- Attilio Folliero
*Da: https://cambiailmondo.org/
Leggi anche: http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-gianni_min_la_civile_resistenza_del_venezuela/5496_20099/
http://www.marx21.it/index.php/internazionale/america-latina-e-caraibi/28033-venezuela
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=SOFKsADFppA
Leggi anche: http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-gianni_min_la_civile_resistenza_del_venezuela/5496_20099/
http://www.marx21.it/index.php/internazionale/america-latina-e-caraibi/28033-venezuela
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=SOFKsADFppA
(Caracas 03/05/2017 – Aggiornato 11/05/2017)
Da
circa un mese, ed esattamente dal 6 aprile in alcune zone del
Venezuela sono in corso manifestazioni di protesta portate avanti
dalla coalizione di partiti che si oppongono al Governo di Nicolas
Maduro.
Tali
manifestazioni spesso sono sfociate in violenti disordini che hanno
provocato alla data odierna (3 maggio 2017) 33 morti, centinaia di
feriti, qualche migliaio di persone fermate ed arrestate, danni
ingenti per milioni e milioni di dollari.
Tranne rari casi, tali manifestazioni sono sempre state concentrate nelle zone dei quartieri bene di Caracas e qualche altra città del Venezuela. Fin da quando Hugo Chávez è salito al Governo nel 1999, hanno protestato contro di lui sempre e solo le classi più ricche, la classe alta e settori delle classi medie.
L’avversione della classe media ai governi di Chávez e Maduro
Queste classi non hanno mai accettato la politica di Hugo Chávez prima e di Nicolas Maduro poi, incentrata sulla redistribuzione in maniera più equa delle ricchezze dello stato; non hanno mai accettato che il Governo “sperperasse” – a loro dire – ingenti risorse per le classi più povere, da sempre emarginate ed abbandonate a vivere nella più totale miseria.
Questo
è il punto vero. Le classi più ricche, la classe alta e le classi
medie di questo paese non hanno digerito che i governi
socialdemocratici di Chávez e Maduro (1)
investissero ingenti risorse per permettere a tutti di usufruire di
una istruzione gratuita e di qualità fino ai più alti livelli
(scuola, università e studi post universitari); per incentivare la
sanità pubblica, in modo da permettere a tutti di potersi curare,
anche a chi non ha i mezzi economici per accedere alle costosissime
cliniche private; milioni di case popolari costruite per i più
emarginati e da sempre condannati a vivere nelle baraccopoli, nei
cinturoni della miseria che affollano le grandi città del Venezuela.
Ad oggi, il programma statale dedicato alla costruzione di case
popolari (denominato “Gran Misión Vivienda Venezuela”) ha
consegnato un milione e seicentomila appartamenti ad altrettante
famiglie che vivevano nelle baraccopoli e che mai avrebbero potuto
acquistare un appartamento.
venerdì 12 maggio 2017
Sul cosiddetto «Capitolo sesto inedito» di Karl Marx. Appunti di lettura e considerazioni critiche*- Giovanni Sgrò**
*Da: http://www.consecutio.org/ -- qui la rivista integrale: http://www.consecutio.org/wp-content/uploads/2014/03/N.-5-rivista-integrale.pdf
**Università degli Studi eCampus. Scienze dell’Educazione e della Formazione, Facoltà di Psicologia.
1. Premessa
Il cosiddetto Capitolo sesto inedito rappresenta ‒ insieme ai Grundrisse ‒ uno di quei manoscritti marxiani che nel corso degli anni Settanta del secolo scorso hanno avuto grande diffusione e notevole recezione in Francia, in Germania e anche in Italia, dove fu tradotto per la prima volta nel 1969 da Bruno Maffi per i tipi de La Nuova Italia1 e fu poi oggetto di una fortunata serie di lezioni di Claudio Napoleoni (Torino, Bollati Boringhieri, 1972). Nel presente contributo cercherò di offrire una sorta di “percorso di lettura” personale (§ 3) del denso testo del Capitolo sesto, al fine di mettere in luce alcune caratteristiche specifiche della sua trama teorica e alcuni suoi elementi di grande attualità politica (§ 4). Prima di passare all’analisi specifica dei contenuti del Capitolo sesto, mi sembra opportuno collocarlo brevemente nel progetto marxiano di critica dell’economia politica (§ 2).
2. Il ruolo e la posizione del Capitolo sesto inedito nel progetto marxiano di critica dell’economia politica
I curatori del volume 4.1 della seconda sezione della MEGA2 hanno stabilito che il Capitolo sesto è stato scritto da Marx tra l’estate del 1863 e l’estate del 18642 : esso si colloca dunque all’altezza del terzo tentativo marxiano di esporre la sua critica dell’economia politica. Come è noto, il primo tentativo è rappresentato dai sette quaderni del 1857/58, noti con il nome redazionale di Grundrisse, che non costituiscono però, a ben vedere, il primo abbozzo de Il capitale, bensì il primo tentativo di una esposizione complessiva dell’ambizioso progetto marxiano di critica dell’economia politica3 . Nei Grundrisse si trova, infatti, una delle prime formulazioni del cosiddetto “piano dei sei libri”: 1) il capitale; 2) la proprietà fondiaria; 3) il salario; 4) lo Stato; 5) il commercio internazionale; 6) il mercato mondiale e le crisi4.
Il secondo tentativo compiuto da Marx per esporre il suo progetto di critica dell’economia politica è rappresentato dai 23 quaderni del manoscritto del 1861-63, la cui parte centrale è occupata dalle cosiddette Teorie sul plusvalore che, a loro volta, non costituiscono il “quarto libro” de Il capitale, in quanto è solo a partire dal Capitolo sesto che Marx inizia a parlare di un progetto in quattro libri (da pubblicare in tre volumi) e, quindi, di un quarto libro da dedicare alla storia delle teorie economiche, che viene separata dall’esposizione teoretica vera e propria, secondo la falsariga di Per la critica dell’economia politica (1859), in cui ai capitoli teorici seguiva un’ampia ricostruzione della storia delle categorie economiche.
**Università degli Studi eCampus. Scienze dell’Educazione e della Formazione, Facoltà di Psicologia.
1. Premessa
Il cosiddetto Capitolo sesto inedito rappresenta ‒ insieme ai Grundrisse ‒ uno di quei manoscritti marxiani che nel corso degli anni Settanta del secolo scorso hanno avuto grande diffusione e notevole recezione in Francia, in Germania e anche in Italia, dove fu tradotto per la prima volta nel 1969 da Bruno Maffi per i tipi de La Nuova Italia1 e fu poi oggetto di una fortunata serie di lezioni di Claudio Napoleoni (Torino, Bollati Boringhieri, 1972). Nel presente contributo cercherò di offrire una sorta di “percorso di lettura” personale (§ 3) del denso testo del Capitolo sesto, al fine di mettere in luce alcune caratteristiche specifiche della sua trama teorica e alcuni suoi elementi di grande attualità politica (§ 4). Prima di passare all’analisi specifica dei contenuti del Capitolo sesto, mi sembra opportuno collocarlo brevemente nel progetto marxiano di critica dell’economia politica (§ 2).
2. Il ruolo e la posizione del Capitolo sesto inedito nel progetto marxiano di critica dell’economia politica
I curatori del volume 4.1 della seconda sezione della MEGA2 hanno stabilito che il Capitolo sesto è stato scritto da Marx tra l’estate del 1863 e l’estate del 18642 : esso si colloca dunque all’altezza del terzo tentativo marxiano di esporre la sua critica dell’economia politica. Come è noto, il primo tentativo è rappresentato dai sette quaderni del 1857/58, noti con il nome redazionale di Grundrisse, che non costituiscono però, a ben vedere, il primo abbozzo de Il capitale, bensì il primo tentativo di una esposizione complessiva dell’ambizioso progetto marxiano di critica dell’economia politica3 . Nei Grundrisse si trova, infatti, una delle prime formulazioni del cosiddetto “piano dei sei libri”: 1) il capitale; 2) la proprietà fondiaria; 3) il salario; 4) lo Stato; 5) il commercio internazionale; 6) il mercato mondiale e le crisi4.
Il secondo tentativo compiuto da Marx per esporre il suo progetto di critica dell’economia politica è rappresentato dai 23 quaderni del manoscritto del 1861-63, la cui parte centrale è occupata dalle cosiddette Teorie sul plusvalore che, a loro volta, non costituiscono il “quarto libro” de Il capitale, in quanto è solo a partire dal Capitolo sesto che Marx inizia a parlare di un progetto in quattro libri (da pubblicare in tre volumi) e, quindi, di un quarto libro da dedicare alla storia delle teorie economiche, che viene separata dall’esposizione teoretica vera e propria, secondo la falsariga di Per la critica dell’economia politica (1859), in cui ai capitoli teorici seguiva un’ampia ricostruzione della storia delle categorie economiche.
giovedì 11 maggio 2017
Che cos’è il socialismo?*- N.I. Bukharin
*Da: http://www.lavocedellelotte.it/
Bukharin scrisse il testo che segue mentre era negli Stati Uniti d’America e collaborava con il giornale “Il Nuovo Mondo”, organo dei bolscevichi russi emigrati negli USA.
Da abile propagandista scrive con un lessico facilmente comprensibile alla massa operaia per spiegare in maniera semplice i principi della riorganizzazione socialista della società.
Un testo pedagogico per chi vuol utilizzare correttamente gli strumenti di agitazione e propaganda per dare una strategia politica al movimento operaio.
28 dicembre 1916
Qualunque paese oggi si prenda, Russia, Germania, America o Francia, dappertutto regna tra la gente la diseguaglianza: gli uni stanno sulla schiena degli altri, godono di tutto, padroneggiano tutto, mentre altre persone lavorano giorno e notte, mangiano male, dormono poco, gravati dalla miseria e dalla sventura e assoggettati in tutto ai propri padroni e governanti. Nelle grandi città, per le strade principali, passeggia il “pubblico rispettabile”. Qui è tutto di un lusso che abbaglia gli occhi. Ma nei quartieri miserabili di queste stesse città abitano i senzatetto. La mattina presto, appena comincia a far giorno, si trascinano fuori vecchie cenciose, bambini pallidi, scheletri umani. E cominciano a formicolare nell’immondizia della strada. Con avidità raccolgono gli avanzi degli ortaggi, dei pezzi di cartone, degli stracci: da questo ricavano il loro cibo, i loro “vestiti”, il loro combustibile per riscaldarsi…
Qual è il motivo di tale diseguaglianza? Nel fatto che alcune persone possiedono tutto, altre non possiedono niente, a parte un paio di braccia per lavorare. I primi hanno i soldi, i macchinari, le fabbriche, le case, la terra, che detengono come loro proprietà. I secondi sono poveri in canna. La società umana è scissa in due parti, in due parti, in due campi, in due grandi classi: la classe dei capitalisti-possidenti e proprietari terrieri e la classe dei lavoratori-proletari.
Bukharin scrisse il testo che segue mentre era negli Stati Uniti d’America e collaborava con il giornale “Il Nuovo Mondo”, organo dei bolscevichi russi emigrati negli USA.
Da abile propagandista scrive con un lessico facilmente comprensibile alla massa operaia per spiegare in maniera semplice i principi della riorganizzazione socialista della società.
Un testo pedagogico per chi vuol utilizzare correttamente gli strumenti di agitazione e propaganda per dare una strategia politica al movimento operaio.
Qualunque paese oggi si prenda, Russia, Germania, America o Francia, dappertutto regna tra la gente la diseguaglianza: gli uni stanno sulla schiena degli altri, godono di tutto, padroneggiano tutto, mentre altre persone lavorano giorno e notte, mangiano male, dormono poco, gravati dalla miseria e dalla sventura e assoggettati in tutto ai propri padroni e governanti. Nelle grandi città, per le strade principali, passeggia il “pubblico rispettabile”. Qui è tutto di un lusso che abbaglia gli occhi. Ma nei quartieri miserabili di queste stesse città abitano i senzatetto. La mattina presto, appena comincia a far giorno, si trascinano fuori vecchie cenciose, bambini pallidi, scheletri umani. E cominciano a formicolare nell’immondizia della strada. Con avidità raccolgono gli avanzi degli ortaggi, dei pezzi di cartone, degli stracci: da questo ricavano il loro cibo, i loro “vestiti”, il loro combustibile per riscaldarsi…
Qual è il motivo di tale diseguaglianza? Nel fatto che alcune persone possiedono tutto, altre non possiedono niente, a parte un paio di braccia per lavorare. I primi hanno i soldi, i macchinari, le fabbriche, le case, la terra, che detengono come loro proprietà. I secondi sono poveri in canna. La società umana è scissa in due parti, in due parti, in due campi, in due grandi classi: la classe dei capitalisti-possidenti e proprietari terrieri e la classe dei lavoratori-proletari.
mercoledì 10 maggio 2017
Miserabile accumulazione: Salari, produttività e impoverimento relativo dei lavoratori*- Maurizio Donato**
*Da: https://www.lacittafutura.it/ **L’autore insegna Economia politica alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo
Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione del lavoratore, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare.
L'attenzione
notevole rivolta negli ultimi anni ai cambiamenti intervenuti nella
distribuzione del reddito da numerosi studiosi (Milanovic, Picketty,
Deaton) può essere utilizzata correttamente se si considerano le
crescenti disuguaglianze come effetto e non come causa della crisi.
Salari fermi al livello di sussistenza
Per
Karl Marx, la parola “miseria” non indica la povertà assoluta,
avendo egli chiarito nel I libro del Capitale (in particolare nei
par. 3 e 4 del cap. 23) che la legge dell'immiserimento della classe
operaia non è contraddetta dalla possibilità che i salari dei
lavoratori crescano durante l’accumulazione di capitale, almeno
fino a un certo livello. Nella sua analisi, Marx distingue tre
definizioni del salario. In primo luogo, e a un livello più
immediato, il salario rappresenta la quantità di denaro che il
lavoratore riceve dal suo datore di lavoro: è il salario “nominale”
o “monetario”. Tuttavia, in un mondo in cui spetta ai capitalisti
decidere quantità e prezzi della produzione, non possiamo
accontentarci di considerare i salari nominali, ma dobbiamo
considerare la quantità effettiva di beni e servizi che i salari
sono in grado di acquistare, cioè i salari “reali”.
martedì 9 maggio 2017
lunedì 8 maggio 2017
Due paragrafi da Hegel*- Paolo Di Remigio
*Da: http://appelloalpopolo.it/ http://www.badiale-tringali.it/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/hegel-scienza-della-logica-1812.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/hegel-scienza-della-logica-1812.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html
Due
paragrafi dai ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ di Hegel
Il
fascismo e il liberalismo concordano nel presupporre l'esistenza
di un contrasto insanabile tra persona e potere. Il fascismo sceglie
il potere ed esclude il pluralismo dalla società annullando la
persona; il liberalismo sceglie la persona, minimizza il potere e
dissacra le leggi: come la sua epistemologia nega che esse
determinino la prima natura così la sua etica rifiuta il valore
della tradizione. È però destino delle ideologie contrastanti
confluire l'una
nell'altra: Popper non ha
nascosto la sua simpatia per l'imperialismo,
in particolare per quello anglo-sassone, von Mises, von Hayek e
Friedman non hanno negato la loro vicinanza alla versioni liberali
del fascismo. Il rifiuto liberale del potere dello Stato diventa
condiscendenza ai poteri fattuali, proprio come nel fascismo lo
svanire della persona conferisce alla gestione del potere un
carattere personalistico.
Nell'avvicinarsi
all'imperialismo e al
fascismo, il liberalismo si allontana dalla realtà e sceglie la via
della calunnia dello Stato e dei suoi teorici – Platone,
Aristotele, Hegel. Così gli Stati-nazione sono ridotti ad inizi
tribali della civiltà, mentre questa è identificata con la forma di
impero. La minima informazione storica mostra però che gli Stati
sorgono contro gli imperi, contro i
privilegi che una etnia vi gode rispetto alle altre. Gli Stati
moderni sorgono dall'estinguersi
dell'impero medievale; gli
ultimi Stati nazionali europei sorgono contro l'impero
austro-ungarico, gli Stati nei continenti non europei si formano
liberandosi dagli imperi coloniali. È dunque falso retrocedere lo
Stato-nazione al tribalismo e credere che l’impero sia garanzia
della persona; proprio nella sua società multiculturale si radica il
razzismo che i liberali cercano di attribuire allo Stato-nazione.
La
parola ‘nazionalismo’ li aiuta a creare l'equivoco:
essa non indica la formazione degli Stati-nazione, non il sottrarsi
di un popolo alla dipendenza imperiale, come sarebbe lecito
attendersi, ma concerne il periodo del tardo Ottocento, in cui alcuni
Stati concorsero a costituirsi come imperi procurandosi un retroterra
coloniale. ‘Nazionalismo’ è dunque sinonimo di ‘imperialismo’;
proiettando però sulla natura dello Stato-nazione ciò che è
proprio della natura dell'impero,
questa parola toglie all'imperialismo
liberale il suo impresentabile fardello e lo addossa allo
Stato-nazione. Per un analogo equivoco oggi accade che l'umanitarismo
anti-razzista sia uno degli strumenti con cui l'oligarchia
liberale padrona dell'impero
anglo-americano destabilizza gli Stati europei.
Lo
Stato è la soluzione del contrasto tra potere e persona, dalla cui
pretesa insuperabilità si generano il fascismo e il liberalismo. La
concezione fascista del primato del potere contro la persona e la
concezione liberale del primato della persona contro il potere sono
però entrambe inconsistenti: come la polemica contro la persona per
il potere ha per risultato il potere tirannico di una persona,
così la polemica contro il potere per la persona porta alla stessa
tirannia della persona privata sulle altre persone. In questa
mutevolezza logica delle due concezioni opposte è contenuta, in
forma negativa, la vera conciliazione tra potere e persona; la teoria
hegeliana dello Stato, esposta nei due seguenti paragrafi
dei Lineamenti
di filosofia del diritto[1],
ne determina il significato positivo.
domenica 7 maggio 2017
Dialettica, oggettivismo e comprenetrazione degli opposti. Il pensiero di Lenin tra filosofia e politica*- Emiliano Alessandroni
*Da: http://www.giornalecritico.it/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html
1. L'oggettivismo di Lenin e «la favola sciocca del libero arbitrio»
In uno dei suoi scritti giovanili più noti Lenin pone l'attenzione sulla prospettiva non-volontarista ed anticoscienzialista di Marx. Il fondatore del materialismo storico, egli afferma,
considera il movimento sociale, come un processo di storia naturale, retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intuizioni degli uomini, ma che anzi determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni.1
Lenin tende ad evidenziare, in questo come in altri passi, la natura circostanziale della volontà umana, il suo essere, ovvero, ontologicamente inscritta all'interno di reticoli e quadri combinatori, non meramente accidentali, che ne determinano la nascita e ne scandiscono lo sviluppo. Non sembra esser dunque sull'opposizione determinismo/volontarismo che si sia prodotta, sul piano filosofico, la rottura con la II Internazionale2 . La prospettiva deterministica, invero, non viene mai respinta o esecrata dal futuro dirigente bolscevico: al contrario, essa costituirà l'unico punto di partenza dal quale egli, senza minimizzare la dimensione coscienziale del Für sich, riterrà possibile contrastare quei sedimenti di misticismo presenti all'interno del senso comune e coincidenti con la favola sciocca del libero arbitrio:
L'idea del determinismo, stabilendo la necessità delle azioni umane, rigettando la favola sciocca del libero arbitrio, non sopprime affatto la ragione o la coscienza dell'uomo, né l'apprezzamento delle sue azioni. Allo opposto, soltanto dal punto di vista del determinismo è possibile dare un apprezzamento rigoroso e giusto, invece di attribuire tutto ciò che si vuole al libero arbitrio.3
Si tratta di una critica radicale al soggettivismo, la quale, prima ancora che da Marx, Lenin desume da Hegel, la cui Scienza della Logica, descrive il Volere come Necessità inscritta nell'immanenza della Soggettività, come autoimpulso esternante dell'Oggetto, mediato entro se stesso, che si riflette in sé attraverso le proprie interne differenziazioni. La Volontà è volontà degli Esistenti, che costituiscono la concretezza e la determinazione dell'Essere. Ma gli Esistenti non sono autonomi in modo unilaterale ed esclusivo: essi sono invero unità di Autonomia ed Eteronomia, e accrescono la prima con l'aumento delle mediazioni di cui si compone seconda.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html
1. L'oggettivismo di Lenin e «la favola sciocca del libero arbitrio»
In uno dei suoi scritti giovanili più noti Lenin pone l'attenzione sulla prospettiva non-volontarista ed anticoscienzialista di Marx. Il fondatore del materialismo storico, egli afferma,
considera il movimento sociale, come un processo di storia naturale, retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intuizioni degli uomini, ma che anzi determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni.1
Lenin tende ad evidenziare, in questo come in altri passi, la natura circostanziale della volontà umana, il suo essere, ovvero, ontologicamente inscritta all'interno di reticoli e quadri combinatori, non meramente accidentali, che ne determinano la nascita e ne scandiscono lo sviluppo. Non sembra esser dunque sull'opposizione determinismo/volontarismo che si sia prodotta, sul piano filosofico, la rottura con la II Internazionale2 . La prospettiva deterministica, invero, non viene mai respinta o esecrata dal futuro dirigente bolscevico: al contrario, essa costituirà l'unico punto di partenza dal quale egli, senza minimizzare la dimensione coscienziale del Für sich, riterrà possibile contrastare quei sedimenti di misticismo presenti all'interno del senso comune e coincidenti con la favola sciocca del libero arbitrio:
L'idea del determinismo, stabilendo la necessità delle azioni umane, rigettando la favola sciocca del libero arbitrio, non sopprime affatto la ragione o la coscienza dell'uomo, né l'apprezzamento delle sue azioni. Allo opposto, soltanto dal punto di vista del determinismo è possibile dare un apprezzamento rigoroso e giusto, invece di attribuire tutto ciò che si vuole al libero arbitrio.3
Si tratta di una critica radicale al soggettivismo, la quale, prima ancora che da Marx, Lenin desume da Hegel, la cui Scienza della Logica, descrive il Volere come Necessità inscritta nell'immanenza della Soggettività, come autoimpulso esternante dell'Oggetto, mediato entro se stesso, che si riflette in sé attraverso le proprie interne differenziazioni. La Volontà è volontà degli Esistenti, che costituiscono la concretezza e la determinazione dell'Essere. Ma gli Esistenti non sono autonomi in modo unilaterale ed esclusivo: essi sono invero unità di Autonomia ed Eteronomia, e accrescono la prima con l'aumento delle mediazioni di cui si compone seconda.
sabato 6 maggio 2017
Operazione Bluemoon - Eroina di Stato
Da: vincitorige
Documento della Rai sull'operazione Bluemoon. Nel periodo più duro dello scontro di classe avvenuto negli anni 70, nelle piazze italiane fa la sua comparsa un nuovo tipo di droga "L'eroina". Un mare che avanza inesorabilmente, propagandato e pubblicizzato come atto liberatorio di fatto inghiotte e fagocita le coscienze e l'azione di migliaia di giovani militanti dell'autonomia (dopo il 77 il mare divenne un oceano) arrivando lì dove il bastone dello stato borghese non poteva colpire.
venerdì 5 maggio 2017
Le origini della crisi*- Paolo Leon**
*Da: http://www.syloslabini.info/
**Economista italiano wikipedia
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/la-crisi-finanziaria-e-la-grande.html
1.Esiste ormai una biblioteca di scritti sulla crisi, ed estrarne le diverse impostazioni è come rivelare l’ideologia degli autori. Ha scavato in profondo, la crisi iniziata nel 2007, e poiché sconvolge pensieri dominanti da decenni e grandi interessi apparentemente consolidati, chi scrive esprimerà soltanto una propria opinione, che tuttavia considera una base possibile per future politiche.
2.La spiegazione più ingenua è quella che sostiene che tutto ciò che sale, prima o poi deve scendere: illustri economisti seguono questa idea, in particolare quelli che sono stati capaci di anticipare il crollo solo per aver fortunosamente scelto il tempo della pubblicazione della loro previsione.
Altri, in particolare Minsky, avevano anticipato il crollo vent’anni prima e non è per caso che il pensiero di questo economista trova nuove orecchie, dopo decennali silenzi. Semplificando, la tesi di Minsky è che il crollo avviene quando i valori dei mercati finanziari si distaccano eccessivamente dai valori del sottostante e indicava nella distruzione del sistema finanziario costruito dopo la Grande Depressione la causa della divaricazione.
Questa tesi si associa qualche volta all’atteggiamento moralista di chi ha condannato l’”economia di carta” avvenuta con la globalizzazione, dimenticandone i sorprendenti risultati positivi per l’economia mondiale, con lo sviluppo dei paesi emergenti. La tesi veramente più incomprensibile è quella che astrae dalla crisi, la considera una parentesi, e continua a ragionare del sistema economico mondiale come non fosse mai avvenuta: lo dimostra l’uso dei DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium) da parte delle banche centrali e l’immane letteratura pseudokeynesiana che cerca di ricostruire la sintesi neoclassica alterando questa o quella ipotesi del modello originario.
Recentemente, Davidson ha ripreso la critica della teoria delle aspettative razionali (ergodiche) perché queste sostanzialmente attribuiscono ai singoli agenti e individui la capacità di vedere probabilisticamente il futuro: un tentativo che gli dei ma anche il Dio della Bibbia avrebbero punito con la cecità. Del resto, la cecità è emersa proprio con la crisi, che nessun modello razionale né si attendeva né poteva anche soltanto includere.
3. Senza voler ricostruire la storia economica degli ultimi trentaquattro anni (dal monetarismo di Volcker nel 1979, con Carter, ad oggi), alcune tappe vanno però ricordate, e proprio a partire da quella fondamentale svolta, che più appropriatamente attribuiamo a Thatcher e Reagan.
**Economista italiano wikipedia
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/la-crisi-finanziaria-e-la-grande.html
1.Esiste ormai una biblioteca di scritti sulla crisi, ed estrarne le diverse impostazioni è come rivelare l’ideologia degli autori. Ha scavato in profondo, la crisi iniziata nel 2007, e poiché sconvolge pensieri dominanti da decenni e grandi interessi apparentemente consolidati, chi scrive esprimerà soltanto una propria opinione, che tuttavia considera una base possibile per future politiche.
2.La spiegazione più ingenua è quella che sostiene che tutto ciò che sale, prima o poi deve scendere: illustri economisti seguono questa idea, in particolare quelli che sono stati capaci di anticipare il crollo solo per aver fortunosamente scelto il tempo della pubblicazione della loro previsione.
Altri, in particolare Minsky, avevano anticipato il crollo vent’anni prima e non è per caso che il pensiero di questo economista trova nuove orecchie, dopo decennali silenzi. Semplificando, la tesi di Minsky è che il crollo avviene quando i valori dei mercati finanziari si distaccano eccessivamente dai valori del sottostante e indicava nella distruzione del sistema finanziario costruito dopo la Grande Depressione la causa della divaricazione.
Questa tesi si associa qualche volta all’atteggiamento moralista di chi ha condannato l’”economia di carta” avvenuta con la globalizzazione, dimenticandone i sorprendenti risultati positivi per l’economia mondiale, con lo sviluppo dei paesi emergenti. La tesi veramente più incomprensibile è quella che astrae dalla crisi, la considera una parentesi, e continua a ragionare del sistema economico mondiale come non fosse mai avvenuta: lo dimostra l’uso dei DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium) da parte delle banche centrali e l’immane letteratura pseudokeynesiana che cerca di ricostruire la sintesi neoclassica alterando questa o quella ipotesi del modello originario.
Recentemente, Davidson ha ripreso la critica della teoria delle aspettative razionali (ergodiche) perché queste sostanzialmente attribuiscono ai singoli agenti e individui la capacità di vedere probabilisticamente il futuro: un tentativo che gli dei ma anche il Dio della Bibbia avrebbero punito con la cecità. Del resto, la cecità è emersa proprio con la crisi, che nessun modello razionale né si attendeva né poteva anche soltanto includere.
3. Senza voler ricostruire la storia economica degli ultimi trentaquattro anni (dal monetarismo di Volcker nel 1979, con Carter, ad oggi), alcune tappe vanno però ricordate, e proprio a partire da quella fondamentale svolta, che più appropriatamente attribuiamo a Thatcher e Reagan.
giovedì 4 maggio 2017
Hegel, il fondamento e il postmoderno*- Remo Bodei
Introduzione di Remo Bodei (Università della California, Los Angeles) al recente volume di Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione, Mimesis, Milano 2016, pp. 202. *Pubblicato
su “Materialismo Storico.
Rivista di filosofia, storia e scienze umane”,
n° 1-2/2016, Questioni
e metodo del materialismo storico,
a cura di S.G. Azzarà, pp 331-334.
Le ripetute crisi che affannano il cammino della modernità tendono ad investire, per tutto il corso della loro durata, numerosi aspetti dell'esistenza umana: condizioni materiali e produzione spirituale, forme del diritto e dell'arte, filosofia e letteratura, generando spesso, nelle anime più sensibili o negli strati sociali più colpiti, un forte desiderio di cambiamento. Ma perché le cose cambiano? E come avviene di fatto la trasformazione? Ovvero, come realizzarla? Nella convinzione che essa venga favorita promuovendone non tanto il desiderio soggettivo, quanto piuttosto la comprensione dei funzionamenti oggettivi, questo volume tenta, a partire da Hegel, di esplorarne i meccanismi interni, cominciando in primo luogo dall'analisi dei suoi elementi fondamentali: i soggetti, la volontà, l'azione. Si tratta di uno studio che getta luce su molti problemi teorici del nostro tempo, ma anche su diversi lati del pensiero hegeliano, illustrato con semplicità e rigore. Autori come Fichte, Sartre, Gentile, Massolo, Severino vengono chiamati in causa per il confronto. Alle parti rivolte agli studiosi del campo sono affiancate altre, più divulgative, indirizzate a chi intenda addentrarsi per la prima volta nel vasto sistema del filosofo tedesco.
Che cosa è, in senso rigoroso, il Divenire e quale il suo rapporto con l’Essere? Attorno a questa domanda ruota il libro di Emiliano Alessandroni, che chiarisce, con pazienza e acume, le complesse problematiche che da Parmenide a Platone, da Fichte a Hegel, da Gentile a Sartre e da Massolo a Severino, hanno tormentato il pensiero filosofico.
Per comprendere questi temi, argomenta, occorre partire dalla questione, apparentemente semplice, dal perché le cose cambiano.
Attraverso una preliminare e puntuale analisi del concetto di «fondamento» (seguendo il filo della hegeliana Scienza della logica), Emiliano Alessandroni giunge alla conclusione che gli Esistenti si mostrano, nello stesso tempo, sia fondati che fondanti (fondamenti reali e condizionanti) e che il Cominciamento contiene in se stesso il negativo, da cui non può e non deve liberarsi. Al di là del gergo tecnico, ciò significa che l’uomo – inserito nella trama di una pluralità di elementi finiti e ben delimitati, di parti che compongono il tutto – trova in queste il limite della sua singolarità e della sua libertà ed è costretto alla continua mediazione con l’altro da sé.
Le ripetute crisi che affannano il cammino della modernità tendono ad investire, per tutto il corso della loro durata, numerosi aspetti dell'esistenza umana: condizioni materiali e produzione spirituale, forme del diritto e dell'arte, filosofia e letteratura, generando spesso, nelle anime più sensibili o negli strati sociali più colpiti, un forte desiderio di cambiamento. Ma perché le cose cambiano? E come avviene di fatto la trasformazione? Ovvero, come realizzarla? Nella convinzione che essa venga favorita promuovendone non tanto il desiderio soggettivo, quanto piuttosto la comprensione dei funzionamenti oggettivi, questo volume tenta, a partire da Hegel, di esplorarne i meccanismi interni, cominciando in primo luogo dall'analisi dei suoi elementi fondamentali: i soggetti, la volontà, l'azione. Si tratta di uno studio che getta luce su molti problemi teorici del nostro tempo, ma anche su diversi lati del pensiero hegeliano, illustrato con semplicità e rigore. Autori come Fichte, Sartre, Gentile, Massolo, Severino vengono chiamati in causa per il confronto. Alle parti rivolte agli studiosi del campo sono affiancate altre, più divulgative, indirizzate a chi intenda addentrarsi per la prima volta nel vasto sistema del filosofo tedesco.
Che cosa è, in senso rigoroso, il Divenire e quale il suo rapporto con l’Essere? Attorno a questa domanda ruota il libro di Emiliano Alessandroni, che chiarisce, con pazienza e acume, le complesse problematiche che da Parmenide a Platone, da Fichte a Hegel, da Gentile a Sartre e da Massolo a Severino, hanno tormentato il pensiero filosofico.
Per comprendere questi temi, argomenta, occorre partire dalla questione, apparentemente semplice, dal perché le cose cambiano.
Attraverso una preliminare e puntuale analisi del concetto di «fondamento» (seguendo il filo della hegeliana Scienza della logica), Emiliano Alessandroni giunge alla conclusione che gli Esistenti si mostrano, nello stesso tempo, sia fondati che fondanti (fondamenti reali e condizionanti) e che il Cominciamento contiene in se stesso il negativo, da cui non può e non deve liberarsi. Al di là del gergo tecnico, ciò significa che l’uomo – inserito nella trama di una pluralità di elementi finiti e ben delimitati, di parti che compongono il tutto – trova in queste il limite della sua singolarità e della sua libertà ed è costretto alla continua mediazione con l’altro da sé.
martedì 2 maggio 2017
Luciano Canfora: La schiavitù del capitale*- Alessandra Ciattini
*Da: https://www.lacittafutura.it/
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=RrHoiAMNE54
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/liberta-e-schiavitu-luciano-canfora.html
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=RrHoiAMNE54
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/liberta-e-schiavitu-luciano-canfora.html
La
schiavitù non è un rottame del passato, ma un’istituzione
riportata in auge dal capitalismo del Terzo Millennio.
La
schiavitù del capitale (Bologna
2017) è il nuovo libro di Luciano
Canfora,
che stupisce sempre per l’ampiezza della sua cultura e per la
lucidità delle sue analisi, le quali delineano un quadro complessivo
e sintetico delle prospettive storiche che abbiamo davanti a noi.
Inoltre, si può cogliere tra le righe il piacere che prova lo
studioso italiano, svolgendo il suo attento lavoro di ricerca, anche
se da esso emerge un disegno drammatico.
La
schiavitù del capitale è
un saggio breve (111 pagine), nel quale vengono individuati in
maniera precisa i gravissimi
problemi della società contemporanea,
che sarebbe caratterizzata dal “ritorno in grande stile del
fenomeno della schiavitù come
anello indispensabile del ‘cosiddetto capitalismo del Terzo
Millennio’” (p. 69). Questo ritorno non deve meravigliarci,
giacché conferma quanto sosteneva Aristotele: “la necessità e
l’eternità della schiavitù” (p. 68).
Secondo
Canfora la partita che è stata giocata nel corso del Novecento,
iniziata con la Grande Guerra, è stata vinta da chi sfrutta e gli
sconfitti sono stati gli sfruttati, ma è stato un grave errore
credere che questa vicenda abbia posto fine alla storia. Che non
fosse così ce lo ha fatto capire il “crollo del lungo, ostinato,
alla fine insostenibile esperimento di ‘socialismo’”, evento
dal quale possiamo ricavare una serie di osservazioni. Prima di
tutto, che la partita è appena cominciata e che il modello
capitalistico si è espanso in tutto il pianeta, conquistando anche
la Russia e la Cina. A ciò dobbiamo aggiungere che solo oggi il
capitalismo ha il dominio del mondo debolmente contrastato dai
residui delle organizzazioni sindacali non collegate a livello
internazionale, giacché gli sfruttati non sono in grado di
compattarsi per ragioni religiose, etniche etc. Inoltre, per rendere
efficace la sua espansione e seguendo la sua logica del profitto e
dell’acquisizione di nuovi mercati, il capitalismo
ha reintrodotto “forme
di dipendenza di tipo schiavile”
sia nel mondo sviluppato che in quello arretrato (pp. 10-11), in cui
probabilmente – aggiungo io – non ha mai cessato di esistere.
Tale reintroduzione ha comportato la perdita dei ‘diritti
del lavoro’,
ottenuti in Occidente grazie all’esistenza del blocco socialista,
che costringeva il capitalismo ad essere più benevolo. Infine,
Canfora sottolinea il ruolo determinante della malavita organizzata
nella gestione delle varie forme di dipendenza oggi esistenti (pp.
11-12).
venerdì 28 aprile 2017
“Sull'attualità del pensiero economico di Marx”*- M.Beccari - M.Paciotti
*I due articoli che presentiamo, pubblicati sulla rivista https://www.lacittafutura.it/, sono frutto di una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull'attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l'UniGramsci (universit-popolare-antonio-gramsci), nell'anno accademico 2016-2017.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/bio-economia-e-il-mito-della-decrescita.html
Il mito della “fine del lavoro” - Marco Beccari
Lo sviluppo tecnologico ha provocato un aumento del numero di disoccupati in Occidente, a ciò però si oppone una crescita dell’occupazione su scala internazionale, anche nel comparto industriale.
In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.
I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il il modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.
Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della “fine del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/bio-economia-e-il-mito-della-decrescita.html
Il mito della “fine del lavoro” - Marco Beccari
Lo sviluppo tecnologico ha provocato un aumento del numero di disoccupati in Occidente, a ciò però si oppone una crescita dell’occupazione su scala internazionale, anche nel comparto industriale.
In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.
I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il il modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.
Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della “fine del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.
giovedì 27 aprile 2017
Iscriviti a:
Post (Atom)