La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
mercoledì 5 ottobre 2016
martedì 4 ottobre 2016
Non c’è crisi in Paradiso. Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump* – Fabrizio Salmoni**
Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente
la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi
facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale
contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici
più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli
individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si
attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le
minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i
gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. Un minestrone di ingredienti
indistinti in cui le classi sociali vengono identificate essenzialmente con la
dicotomia colletti blu e bianchi e “mondo delle imprese” (corporate world)
mentre di middle class si parla per segnalarne la centralità “elettorale”, la
perdita di potere d’acquisto, la sua discesa nella scala sociale.
Chi qui in Europa segue più attentamente le cronache della
contesa americana con un occhio criticamente smaliziato non può evitare di
notarne il paradosso più evidente: un elettorato fatto
prevalentemente di bianchi poveri a forte componente operaia e contadina voterà
in massa contro i propri interessi per un candidato miliardario portandolo
probabilmente alla presidenza. Come può accadere? Cosa può aver rovesciato i tradizionali
ruoli di rappresentanza politica tra i due maggiori partiti? Non sono forse i
Democratici ad avere sempre rappresentato, dalla fine della Ricostruzione post
Guerra Civile, lo stato sociale, i sindacati, le minoranze affamate di
riconoscimento e diritti civili, la cultura inclusiva, insomma l’anima
“progressista” della nazione mentre i Repubblicani si sono sempre connotati
come i difensori del laissez faire economico, come rappresentanti delle
corporation, del big business, e infine del capitalismo finanziario selvaggio e
globale? Come è possibile che un proletario, indebitato fino al collo, privo di
garanzie sindacali, di assistenza sanitaria, di garanzie pensionistiche, con la
minaccia dell’ipoteca bancaria sulla casa, con i figli sempre più condannati
dal lavoro precario e sottopagato a rimanere bloccati nella scala sociale
malgrado le promesse del sogno americano, si schieri con la parte politica che
per propria natura gli nega un’esistenza dignitosa?
lunedì 3 ottobre 2016
domenica 2 ottobre 2016
LA TEORIA DELLE ONDE LUNGHE E LA CRISI DEL CAPITALISMO CONTEMPORANEO*- Michel Husson
(dicembre 2013 -Trad. di Titti Pierini )
Non vi è certamente modo migliore di rendere omaggio a Ernest Mandel che applicarne il metodo, quello di un marxismo vivo, non dogmatico. D’altronde, la profondità della crisi attuale rende ancor più indispensabile la rivalutazione critica degli strumenti d’analisi che Mandel ci ha lasciato. Il presente contributo cercherà quindi di rispondere a questa questione: la teoria delle onde lunghe costituisce un quadro adeguato per l’analisi dell’attuale crisi, della sua genesi e della nuova fase che apre?
Una volta richiamata a grandi linee questa teoria, cercheremo di applicarla al complesso della fase neoliberista del capitalismo, alternando considerazioni teoriche e osservazioni pratiche. Condurremo questo esame secondo due linee direttrici. La prima è che il capitalismo neoliberista corrisponde a una fase recessiva il cui tratto specifico essenziale è la capacità del capitalismo di ristabilire il saggio di profitto, nonostante un saggio di accumulazione stagnante e mediocri aumenti di produttività. La seconda è che non ci sono le condizioni del passaggio a una nuova onda espansiva e la fase che si apre è quella di una “regolazione caotica”.
Onde lunghe
La teoria delle onde lunghe ha costituito inizialmente il tema affrontato nel Capitolo 4 de El capitalismo tardÍo [“Il tardo-capitalismo”, o “La terza età del capitalismo”] (Mandel, 1972 – v. Bibliografia finale]) ed è poi stata sviluppata in una serie di lavori, in particolare nel libro Las ondas largas del desarrollo capitalista [“Le onde lunghe dello sviluppo capitalistico”] (Mandel, 1986). Una delle impostazioni essenziali di questa teoria è che il capitalismo ha una storia, e che questa non obbedisce a un funzionamento ciclico. Essa porta a un susseguirsi di fasi storiche, contrassegnate da caratteristiche specifiche, in cui si alternano fasi espansive e fasi recessive. Non si tratta di un’alternanza meccanica, non basta attendere 25 o 30 anni. Se Mandel parla di onda anziché di ciclo è perché il suo approccio non rientra nello schema, generalmente attribuito – probabilmente a torto – a Kondratiev, dei movimenti regolari e alterni dei prezzi e della produzione.
Uno dei punti importanti di questa teoria è il fatto di rompere la simmetria delle inversioni: il passaggio dalla fase espansiva a quella recessiva è “endogeno”, nel senso che risulta dal gioco dei meccanismi interni del sistema. Il passaggio dalla fase recessiva a quella espansiva è, viceversa, “esogeno”, non automatico, e presuppone la riconfigurazione del contesto sociale e istituzionale. L’idea chiave, qui, è che il passaggio alla fase espansiva non è dato in partenza e che va ricostruito un nuovo “ordine produttivo” (Dockès, Rosier, 1983). Questo prende il tempo che occorre, e non si tratta quindi di un ciclo analogo a quello congiunturale, la cui durata può collegarsi alla durata di vita del capitale fisso. Ecco perché questo approccio non affida alcun primato alle innovazioni tecnologiche; nella definizione di questo nuovo ordine produttivo giocano un ruolo essenziale le trasformazioni sociali (rapporti di forza capitale-lavoro, grado di socializzazione, condizioni di lavoro, ecc.).
sabato 1 ottobre 2016
Corporeità e individuazione. L’antropologia come preistoria della coscienza. - Paolo Vinci
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html
Il discorso sulla corporeità-animalità è per la filosofia
contemporanea un tema molto diffuso (oltre la tradizione analitica, oggi anche
in Derrida e nella fenomenologia contemporanea tedesca). Tuttavia, all’interno
dei discorsi attuali, viene spesso a mancare una prospettiva dialettica. Questo
seminario si propone di approfondire questa “lacuna” contemporanea.
La teoria critica ha da sempre cercato di porre al centro
della riflessione filosofica tutto ciò che la razionalità e il processo di
civilizzazione occidentale hanno rimosso e collocato nel cono d’ombra
dell’irrazionale. Capire quelle fatali antinomie denunciate nella Dialettica
dell’illuminismo, mettere cioè in risalto le fratture, le dissonanze,
dell’apparato razionale, significa recuperare criticamente il carattere
negativo di quel ‘rimosso’ e mettere in discussione gli esiti della storia
occidentale tout court.
Le tematiche dell’animalità e della corporeità rappresentano
in tale contesto due snodi centrali di una razionalità costretta dalla propria
dialettica interna ad espellere da sé e dalla soggettività tutto ciò che non è
riconducibile ad un progetto identitario di controllo. È compito
dell’autoriflessione critica condurre il pensiero ad articolare quelle zone
d’ombra, quei punti ciechi in cui il logos, il soggetto e l’umano si
costituiscono a partire dalla negazione di un’alterità che in realtà li
attraversa indelebilmente. Solo attraverso la rimemorazione del non-identico
che lo anima, il pensiero può tentare di sottrarsi alla meccanica distruttiva
di una razionalità totalitaria.
Il seminario tenterà di ripercorrere alcuni dei luoghi in
cui Adorno sviluppa le conseguenze di tale discorso, mostrando l’attualità del
suo pensiero, che ha saputo anticipare questioni che solo oggi guadagnano
l’attenzione dell’accademia e del grande pubblico. Al tempo stesso, si cercherà
di delineare la specificità dell’impostazione dialettica di tali problemi,
mostrando come già in Hegel siano presenti movenze che permettono di articolare
la questione del rapporto tra la razionalità e il suo altro al di là di facili
dualismi e riduzionismi.
martedì 27 settembre 2016
Studio su Hegel: LA RELIGIONE - Stefano Garroni
Quarta parte: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/studio-su-hegel-filosofia-storia-etica_13.html
[3] - Ben lungi dal rappresentare una ‘secolarizzazione’ della teologia - come vuole Blumenberg-, Hegel scioglie la sapienza del mondo dalla teologia. (AAVV, 6961.3: 391). Laird, 5196: 12 riconosce, comunque, che il <dio> dell’ idealista Hegel non c’entra nulla con il dio delle religioni. “... il teologo Marheineke (1780-1846) ... tentò di versare la dogmatica cristiana (luterana) nello stampo speculativo hegeliano il che però implicava un’audace fusione e una pericolosa cristallizzazione. Una simile impresa fu tentata da Goschel (1781-1872), al quale Hegel aveva accordato una lode sfumata.” (D’Hondt, 7836: 48s).
In AAVV, 7376: 263n, la questione delle varie edizioni delle hegeliane Vorlesungen sulla religione.
[3.1] - “E’ possibile notare come nelle Jugendschriften la religione si dica in molti modi: per quanto articolato tuttavia si presenti il suo concetto, la chiave che sembra in grado di aprirne la comprensione risulta essere non la teologia, ma appunto la vita, intesa anche nel senso di prassi sociale.” (AAVV, 7376: 239s). Il modo in cui Hegel, 1130. 3: 354s descrive la verace religione e la verace religiosità mi confermerebbe nel sospetto che, in definitiva, la wahrhafte Religion/Religiosität, per Hegel, è ... lo Stato: la vera religione e la vera religiosità, infatti, vengono dall’ eticità e sono l’ eticità pensante, ovvero l’ eticità, che diviene cosciente dell’ universalità libera della sua essenza concreta. In altre parole, sembrerebbe possibile dire: la <religiosità> -dunque, l’essenza della religione- sta nel suo essere manifestazione di una forma di vita, di esserne un’articolazione; la <religione>, quindi, -nel senso di questa o quella religione-, una volta stabilito cosa sia la religiosità, richiede uno studio particolare, che consenta di coglierne la determinatezza; è a questo livello che si recuperano le mediazioni nel rapporto con la forma di vita, ovvero, con la società. Cf. Marx. Il tema è ripreso in AAVV, 7376: 269 - l’essenza della religione (la religiosità) è afferrabile non empiricamente, ma con il medio di una teoria generale, di una filosofia; accanto a ciò resta lo studio empirico delle religioni.Ciò equivale a dire che l’analisi che Marx fa della società capitalistica non è comprensibile, fuori da una fds. Cf. la questione <teoria/prevedere> in dial.doc. Il limite della trattazione empirica della storia, in AAVV, 7376: 269a -anche qui continua un tema, che fu pure di Descartes, ovvero la polemica contro un sapere che sia essenzialmente memoria.
lunedì 26 settembre 2016
HEGEL, SCIENZA DELLA LOGICA (1812).*
*Da: http://www.dialetticaefilosofia.it/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html

HEGEL, SCIENZA DELLA
LOGICA (1812).
Traduzione e commento del primo capitolo a cura di Paolo Di
Remigio
C a p i t o l o p r i
m o
domenica 25 settembre 2016
L'economicizzazione del conflitto di classe*- Zygmunt Bauman
*Da: "Memorie di classe" - Einaudi
Paperbacks, 1987 http://francosenia.blogspot.it/

L'aspetto del cambiamento particolarmente importante in
questo contesto fu l'accelerata disgregazione del patronato e del paternalismo
- il vecchio schema dello scambio dell'obbedienza con la sicurezza. Come ho già
cercato di mostrare, questo schema non crollò sotto la pressione della nuova
cupidigia ispirata dal mercato, ma a causa della sua inadeguatezza rispetto al
compito di addomesticare e tenere a bada il crescente eccesso di popolazione
per la quale la vecchia struttura economica non aveva posto. L'abbandono del
paternalismo non fu un processo facile né diretto. Esso restò come norma nella
memoria collettiva, presso entrambe le parti del nuovo conflitto, quando ormai
aveva cessato da tempo di essere una soluzione valida dei loro problemi. I
nuovi schemi dei rapporti di potere si formarono all'ombra di lotte e
discussioni ancora attaccate a vecchie questioni e ad obiettivi ora
irrealistici.
Proprio contro questa confusione tra l'ordine normativo suggerito
dalla memoria storica e le realtà quotidiane, i fautori illuminati dell'ordine
emergente lanciarono la loro lotta per la nuova articolazione della struttura
di potere, libera dall'illusione che sarebbe stato possibile ripristinare le
vecchie basi del dominio e dell'obbedienza. L'obiettivo principale del loro
sforzo consisteva nel ridefinire i rapporti economici come essenzialmente
economici.
venerdì 23 settembre 2016
giovedì 22 settembre 2016
Intervista a JHON SMITH* - Daphna Whitmore

DW: Innnanzitutto, vorrei ringraziarti per aver
scritto Imperialism in the twenty-first century. Si tratta di un
argomento imponente e il tuo libro prende in considerazione un materiale
amplissimo e di grande interesse – quanto tempo ha richiesto un simile lavoro?
JS: Alla fine degli anni Novanta, la globalizzazione della
produzione e il suo spostamento, a livello globale, verso i paesi a basso
reddito stavano prendendo piede su scala così vasta che era impossibile non
notarlo; il che valeva anche per ciò che stava guidando tali processi, vale a
dire gli elevati livelli di sfruttamento disponibili in paesi come il Messico,
il Bangladesh e la Cina. Era indispensabile una teoria in grado di spiegare
tutto questo, ma per rendersi conto di ciò che stava accadendo erano
sufficienti un paio di buoni occhi. Era naturale studiare il comportamento
delle multinazionali industriali, le TNC [Transnational corporation, n.d.t.] non finanziarie,
considerato che si trattava dei principali agenti e beneficiari della
globalizzazione – ed è appunto ciò che si stava facendo! Del resto, anche una
formazione di base comprendente la teoria marxista del valore ci spingeva a
prestare attenzione ai cambiamenti nella sfera della produzione… Per tutte
queste ragioni, è stato uno shock scoprire che il marxismo, o meglio i
marxisti, avevano ben poco da dire riguardo a questi fatti inediti.
Così, influenzato dalle teorie della dipendenza e dello
scambio ineguale (o più esattamente, insoddisfatto da quelli che ho definito
tentativi euro-marxisti di confutarle), ho iniziato, nel 1995, il lavoro che
sarebbe sfociato nel libro, circa il periodo in cui ho abbandonato la Communist
League, correlativo dello SWP [Socialist Workers Party, n.d.t.] degli Stati
Uniti in Gran Bretagna (venne chiusa la sezione di Sheffield, io restai…). Nel
1997 ho scritto un primo abbozzo – un pamphlet/saggio
intitolato, ‘Imperialism and the law of value’. Un ulteriore impegno in
questo senso è stato interrotto, a partire dal 1998, dalla campagna contro le sanzioni
e la guerra all’Iraq, fino a quando ho lasciato il mio lavoro nelle
telecomunicazioni nel 2004, e dato il via alle ricerche per ‘Imperialism
and the globalisation of production’, la mia tesi di dottorato portata a
termine nel 2010. I contenuti del libro sono più ampi rispetto alla tesi,
ma l’argomento di fondo si trova già tutto lì, e ha iniziato a circolare – è
stata scaricata più di tremila volte, dunque più della prima tiratura del
volume.
DW: A tuo modo di vedere, l’esternalizzazione
imperialista dispone ancora di decenni per espandersi verso nuove frontiere, o
i suoi limiti sono ormai percepibili?
mercoledì 21 settembre 2016
IL DUALISMO MENTE-CORPO. UN DILEMMA CARTESIANO*- Elisa Angelini**
*Da: http://www.bancarellaweb.eu - Con alcune modifiche e revisioni questo articolo riproduce
il già pubblicato Elisa-Angelini, Mente e corpo. Riflessioni in margine al
dualismo cartesiano, in Psicoanalisi e metodo, II, 2002, Pisa, Edizioni ETS,
pp. 189-203. - **Università degli Studi di Siena

La filosofia di Descartes è tradizionalmente legata ad alcune tematiche che nel tempo sono diventate veri e propri luoghi comuni. Una di queste è il dualismo, ovvero l’argomento con il quale Descartes ha distinto il corpo e la mente facendone due sostanze di natura completamente diversa e tali da escludersi a vicenda. Con questa distinzione ontologica, che Descartes formulò compiutamente nelle Meditationes de Prima Philosophia1, il dominio della fisica dei corpi veniva nettamente separato dal dominio del pensiero, la materia diventava pura estensione geometrica inerte e la mente, all’opposto, una sostanza immateriale. La tesi cruciale con la quale agli inizi del Seicento Descartes innovava, dunque, gran parte della tradizione psicologica antica e medioevale è che la materia può essere organizzata in modo estremamente complesso, al punto da dar luogo alle funzioni della vita vegetativa, sensitiva e motoria, ma resta incapace di produrre il pensiero e tutte quelle rappresentazioni coscienti che rimangono prerogativa esclusiva della mente. A corollario Descartes aveva elaborato anche la celebre dottrina degli animali-automi, sostenendo che il corpo umano è una macchina, al pari di quello di qualsiasi altro animale, ma che, diversamente dagli altri animali, l’uomo è anche dotato di un principio intellettuale.
Il dualismo
mente-corpo ha reso complessa sia l’antropologia di Descartes sia la sua
dottrina della percezione. Non è difficile prevedere alcune sue implicazioni
problematiche e le critiche mosse a Descartes già dai suoi contemporanei.
Innanzitutto, se la mente è una sostanza realmente separata dal mondo corporeo,
come è possibile che le idee rappresentino i corpi, ossia che ci facciano
conoscere il cosiddetto mondo esterno? In secondo luogo, se nell’uomo mente e
corpo sono distinti per essenza, come si può spiegare la loro interazione di
fatto? In definitiva, la prima questione dava corpo al sospetto che la moderna
scoperta della soggettività e della coscienza fosse investita dall’ombra lunga
del solipsismo e dello scetticismo – il mondo potrebbe essere un puro prodotto
o una finzione della mente –, il secondo problema metteva in luce la difficoltà
di spiegare tutti quei fenomeni e quelle esperienze che depongono contro il
dualismo e mostrano un’unione evidente fra mente e corpo.
martedì 20 settembre 2016
Studio su Hegel: LA METAFISICA - Stefano Garroni
Quarta parte: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/studio-su-hegel-filosofia-storia-etica_13.html

“Se è vero che la filosofia kantiana rappresenta
per il giovane Hegel un costante punto di riferimento, è vero anche che
l’accoglimento del messaggio kantiano si accompagna a forti istanze critiche,
fatte valere soprattutto là dove le argomentazioni kantiane non difendono a
sufficienza l’autonomia della ragione e prestano il fianco ad attacchi tesi a stravolgere
il nocciolo di libertà e di radicale rinnovamento che esse contengono. Questa
preoccupazione, che investe in primo luogo la dottrina kantiana dei postulati
pratici e della fede razionale, costituisce una costante nel complesso rapporto
di riconoscimento e autonomizzazione di Hegel nei confronti di Kant.” (AAVV,
7376: 123a).
[2.1] - Fin dal primo momento della conoscenza
(quello della certezza sensibile) per giungere, infine, a quello del sapere
assoluto, in Hegel, al soggetto il mondo è dato come contenuto del suo cogito. La ricostruzione del mondo nelle
figure del sapere in divenire consente di venir fuori dalla costituzione degli
oggetti della conoscenza fondata sulla soggettività, ma porta invece verso la
sua realtà obiettivabile, perché comprendente il soggetto stesso ma non
esaurita da esso (das Subjekt selbst
übergreifender Realität) e approda al ‘sapere assoluto’ il quale, nella sua
esteriorità manifestantesi, è la storia e, nella sua concentrazione essenziale,
è la scienza che si svolge. (Holz, in AAVV, 6961.3: 390b). “La costruzione di un modello del mondo, in Hegel, è in vista
della ricostruzione del processo e della costituzione logica del sapere in
divenire. Questa ricostruzione è compiuta dalla Fenomenologia dello spirito e dalla Scienza della logica (la connessione interna a quest’ opera non
sarà mai sufficientemente sottolineata). Su questa base è possibile il disegno
sistematico dell’ Enciclopedia,
all’interno della quale -al contrario di quanto avveniva nella Fenomenologia- lo spirito soggettivo e
quello oggettivo si collocano all’interno di un ordine (mentre, in una
prospettiva cartesiana, la ricostruzione dovrebbe procedere dallo spirito).”
(AAVV, 6961.3: 390).
lunedì 19 settembre 2016
"Il Pane e la Morte" - Renato Curcio
http://www.libreriasensibiliallefoglie.com/catalogo.asp?sid=76947831120131022091747&categoria=43
Questo libro propone i risultati di un cantiere socioanalitico tenuto a Brindisi nel 2013 sullo scambio salute-lavoro, al quale hanno partecipato una trentina di persone, tra lavoratori e famigliari di operai del Petrolchimico, medici epidemiologi, cittadini impegnati in comitati per la difesa dell’ambiente. Le narrazioni raccolte nel cantiere hanno fatto emergere la stretta connessione fra la produzione e disseminazione di veleni del polo industriale – le Centrali termoelettriche e il Petrolchimico – e l’aumento della mortalità e delle malattie fra i lavoratori e gli abitanti dei quartieri prossimi agli stabilimenti. Ci si è allora interrogati sui dispositivi che hanno reso impossibile, in questi ultimi 50 anni, determinare delle responsabilità e porre dei rimedi alla situazione. Il libro illustra, attraverso il sapere delle persone direttamente coinvolte, tali dispositivi e li inquadra in quella complicità istituzionale che, a Brindisi come in diverse altre parti del mondo, opera privilegiando il profitto a discapito della salute dei lavoratori e dei cittadini.
Questo libro propone i risultati di un cantiere socioanalitico tenuto a Brindisi nel 2013 sullo scambio salute-lavoro, al quale hanno partecipato una trentina di persone, tra lavoratori e famigliari di operai del Petrolchimico, medici epidemiologi, cittadini impegnati in comitati per la difesa dell’ambiente. Le narrazioni raccolte nel cantiere hanno fatto emergere la stretta connessione fra la produzione e disseminazione di veleni del polo industriale – le Centrali termoelettriche e il Petrolchimico – e l’aumento della mortalità e delle malattie fra i lavoratori e gli abitanti dei quartieri prossimi agli stabilimenti. Ci si è allora interrogati sui dispositivi che hanno reso impossibile, in questi ultimi 50 anni, determinare delle responsabilità e porre dei rimedi alla situazione. Il libro illustra, attraverso il sapere delle persone direttamente coinvolte, tali dispositivi e li inquadra in quella complicità istituzionale che, a Brindisi come in diverse altre parti del mondo, opera privilegiando il profitto a discapito della salute dei lavoratori e dei cittadini.
domenica 18 settembre 2016
Cinque difficoltà per chi scrive la verità (1935)*- Bertolt Brecht
*Da: "Schriften zur Literatur und Kunste"
Shurkamp Verlag, 1967 Edizione italiana "Scritti sulla letteratura
e sull'arte", Einaudi 1973, traduzione di Bianca Zagari e nota
introduttiva di Cesare Cases
Chi ai
nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità,
deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di
scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di
riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di
renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper
scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di
divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che
scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati
cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi
della libertà borghese.
1. Il coraggio di scrivere la verità.
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva
la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non
vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è
assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso
ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso.
Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al
lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni
fama. Per farlo, ci vuole coraggio. Le epoche di massima oppressione sono quasi
sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche
simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e
l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che
più conta è lo spirito di sacrificio. Quando i contadini vengono ricoperti di
onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci
di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno
gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo
istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di
razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame
e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole
coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto.
Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i
propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle
ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro,
i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata
battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una
bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché
non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si
ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire
che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci
vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta
contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata,
ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la
menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire
che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una
menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di
pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.
sabato 17 settembre 2016
Modo di produzione capitalistico*- Alessandro Mazzone
*Da: https://rivistacontraddizione. n.140 Luglio-Settembre 2012
1. Alla fine di questo 1998, centocinquantenario
del Manifesto del partito comunista di K. Marx e F. Engels, è
– a quanto sembra – pacifico e generalmente riconosciuto: la critica del
capitalismo avanzata a metà ‘800 conteneva una singolare capacità di
previsione storica – nelle grandi linee, e dunque non
necessariamente politica.
Ricordiamo brevemente.
Già nel Manifesto il “mondo” appare come un
“mondo”, un processo obiettivo e che si generalizza secondo sue determinazioni
interne. Abbiamo:
- la produzione capitalistica, capace di
abbattere o sottomettersi tutte le forme precorse di riproduzione della vita
umana associata (dunque: espansione illimitata della produzione capitalistica);
- la tendenziale estensione della forma di merce,
e del corrispondente “nudo rapporto d’interesse”, a ogni elemento della
riproduzione della vita umana e del corpo associato (dunque: trasformazione
graduale di tutte le dimensioni societarie in figure “capitalistico-borghesi”);
- la creazione di un mercato mondiale, non come
semplice rete di scambi, ma come regolazione vincente di rapporti sociali, politici,
culturali (dunque: unificazione, in prospettiva, del genere umano nella – contraddittoria –
“civiltà borghese”);
- il primato economico delle “nazioni
borghesi” come tendenza alla sottomissione di tutte le altre, o alla loro
“integrazione” nelle forme economiche e politiche corrispondenti .
Ce n’è abbastanza – può sembrare – per trovare proprio in
Marx un “profeta” del presente, il cui “fantasma” deve inquietare i posteri 1.
Ma è un’apparenza superficiale, capace di ogni ambiguità, e sostanzialmente ingannevole.
2. Noi sappiamo [i]bis che nel Manifesto la
teoria del modo di produzione capitalistico 2 era appena abbozzata; che Marx,
nel 1848, non aveva una sua teoria della forma di valore (cioè del rapporto di
produzione generale, e che astrattamente “copre” tutto l’arco del mpc), né
del processo di capitale, che, se comprende in sé il
semplice rapporto di capitale (lavoro salariato), si svolge
poi categorialmente fino all’unica e vera “contraddizione” del mpc: la tendenza
allo “sviluppo incondizionato della forza produttiva del lavoro sociale” e lo
“scopo limitato” della valorizzazione, entrambe inerenti allo svolgimento del
mpc in tutto il suo arco. Di conseguenza, solo nell’elaborazione della teoria
del mpc in tutto il corso dell’esperienza scientifica di Marx [ii]bis, si
sviluppa anche la teoria marxiana delle classi. Poiché la nozione di “classe”
dipende concettualmente da quella di “modo di produzione” essa ha,
innanzitutto, uno status teorico del medesimo livello
d’astrazione della teoria del mpc. E come questa non è teoria
delle singole configurazioni del “capitalismo” (i “capitalismi nazionali”, con
le loro determinazioni pregresse e sussunte, “ricchezza” e “tradizioni”
storiche peculiari, etc.), né – in prima istanza – una teoria degli “stadi” o
“fasi” delcapitalismo se non in quanto processo tendenzialmente
universalizzantesi, secondo le sue leggi di moto intrinseche e con sussunzione
di altre pregresse figure sociali in genere – così la teoria delle classi è
(quanto meno per l’autore del Capitale ) una teoria di forme
di moto della riproduzione sociale nella forma del mpc, che solo ulteriormente,
nella utilizzazione analitica dell’intera teoria del modo
di produzione per lo studio di configurazioni sociopolitiche concrete (singoli
“capitalismi” storici, nei loro stati, etc.) può acquistare valenza politica
nel senso più lato del termine. Torneremo più avanti su quest’aspetto.
venerdì 16 settembre 2016
Su HEIDEGGER*
*Da: Ludovico
Geymonat, Storia del pensiero scientifico
e filosofico, Vol. 7, Sez. Nona, Le
grandi correnti filosofiche, Cap.7, L'esistenzialismo,§
IV-V, p.p.153-164.
Per
un ulteriore approfondimento del pensiero heideggeriano proponiamo una lettura
"critica" di notevole interesse... (c.f.m. Stefano Garroni)
IV. HEIDEGGER: « ESSERE E TEMPO»
L'opera Sein und Zeit, erste Halfte costituisce senza dubbio
una delle tappe più importanti dell'itinerario filosofico di Martin Heidegger.
Quando nel 1926 terminò di scriverla era ancora vivamente legato a Husserl,
tanto che - come già ricordammo - la dedicò proprio a lui («con ammirazione e
amicizia») e, come sede per la pubblicazione, scelse per l'appunto
l'husserliano «Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologìsche Forschung»
(«Annali dì filosofia e ricerca fenomenologica»). Tuttavia l'anno stesso in cui
l'opera uscì, cioè il 1927, segnò l'inizio della ben nota rottura fra i due
autori, e da quel momento in poi Heidegger proseguì le proprie ricerche
filosofiche in modo del tutto indipendente dal maestro, onde è sorto il
problema (a cui si è già fatto cenno nel paragrafo II) se tale data rappresenti
o no una vera e propria svolta del pensiero heideggeriano. Questo breve
richiamo intende chiarire il motivo per cui abbiamo deciso di suddividere in
due parti la nostra schematìca esposizione dell'esistenzialismo di Heidegger,
dedicando il presente paragrafo a Sein und Zeit e il prossimo ad enucleare --
dai molti scritti successivi -- alcuni ben determinati temi che posseggono un
particolare interesse dal nostro specifico punto di vista.
Dallo schema dell'opera (contenuto nell'introduzione) si
ricava che essa doveva risultare suddivisa in due parti: la prima di carattere
prettamente teoretico, la seconda essenzialmente storico-critico. Ciascuna di
esse si sarebbe dovuta articolare in tre sezioni, rispettivamente dedicate ai
seguenti problemi: «L'analisi fondamentale dell'esserci nel suo momento
preparatorio, esserci e temporalità, tempo ed essere» (1 parte), «La dottrina
kantiana dello schematismo e del tempo come avviamento alla problematica della
" temporalità ", il fondamento antologico del" cogito ergo
sum" di Cartesio e l'assunzione dell'ontologia medioevale nella
problematica della"res cogitans", la trattazione aristotelica del
tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti dell'ontologia antica»
(2 parte). [ Per questa e per le altre citazioni, ci valiamo dell'ottima
traduzione dell'opera, curata da Pietro Chiodi (Torino 1969)]. La cosiddetta
«prima metà» dell'opera, cioè l'unica effettivamente pubblicata, non include
l'intera prima parte, ma soltanto le due prime sezioni di essa.
Volendo che il lettore si faccia un 'idea abbastanza esatta
della complessa trattazione, riteniamo opportuno premettere un rapido riassunto
dell'introduzione in cui ne sono tratteggiati, a grandi linee, gli argomenti
generali.
giovedì 15 settembre 2016
mercoledì 14 settembre 2016
martedì 13 settembre 2016
intervista a Emiliano Brancaccio*- Giacomo Russo Spena
*Da: http://temi.repubblica.it/
“Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna
svolta, nessun vento federalista di cambiamento. La sostanza delle politiche
economiche non è cambiata. L’eurozona resta sull’orlo della deflazione, con
effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il
continente. Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile”.
L’economista Emiliano Brancaccio non ha mai aderito allostorytelling renziano
sulle possibilità di rilancio del progetto di unificazione europea. Anzi, nel
commentare le recenti decisioni di politica monetaria e le proposte di gestione
del post-Brexit, Brancaccio mette in luce l’affiorare di crepe sempre più
profonde nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione.
Professore, la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?
Il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà. Le regole attuali impongono alla BCE di acquistare titoli secondo quote pressoché fisse tra i vari Paesi, il che significa che larga parte delle erogazioni della banca centrale finisce in Germania anziché nelle economie che ne avrebbero più bisogno. Per iniziare ad affrontare i problemi di solvibilità dei Paesi più fragili bisognerebbe almeno superare questi aspetti così regressivi della politica monetaria europea. Ma i conservatori, tedeschi e non solo, ormai bloccano anche le più modeste istanze di rinnovamento.
Questo significa che la BCE non riuscirà a perseguire l’obiettivo d’inflazione che si era data?
Le banche centrali non hanno mai avuto il potere di controllare l’inflazione. Il loro vero compito è di definire le condizioni generali di solvibilità delle unità economiche. Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri Paesi del Sud Europa.
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