
Remo Bodei ha recentemente pubblicato Limite (il Mulino),
una importante riflessione filosofica sull'idea di limite nell'epoca della
globalizzazione. In questa intervista, si ricapitolano di questa riflessione i
tratti principali.
Il concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche
e, in particolare, nella modernità?
Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini
stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al
di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue
avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il
pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura,
del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come
“concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione
trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei
ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla
tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.
Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta
globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I
confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o
indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di
comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali
civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio
sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente
rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e
comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della
sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti
da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte
del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata
conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da
un vigile senso di responsabilità.
Se guardiamo specificamente alla filosofia, nel periodo da
Locke a Kant, la filosofia moderna si è interrogata a lungo sui limiti
dell’intelletto umano. Fin dove può giungere una solida conoscenza basata
sull’esperienza o sul sapere matematico prima di lasciare spazio alla fede o
alla metafisica, ossia a questioni indecidibili e a convinzioni non
razionalmente argomentabili? Se per Locke ogni idea trae il suo materiale
unicamente dall’esperienza dei sensi, è chiaro che non si può attribuire valore
di verità a quanto si pone al di fuori di essa. Kant, a sua volta, delimita la
sfera di validità dell’esperienza paragonando l’intelletto a un’isola dai
confini ben precisi, circondata da un mare di apparenze, verso il quale gli
uomini si sentono però irresistibilmente attratti.
La tentazione da evitare è quella di lasciarsi attirare
dalle Sirene della metafisica, che invitano allo scriteriato viaggio
nell’oceano dell’apparenza, di lasciarsi sedurre da ciò che è inverificabile e
contrario all’unica verità alla nostra portata, quella dettata dall’esperienza.
Non bisogna quindi abbandonare il solido terreno di quest’isola dai “confini
immutabili” per affrontare un’impresa che è, comunque, destinata al naufragio.
Sul terreno della dialettica, ossia dell’illusione di poter risolvere problemi
insolubili (ad esempio, se l’anima è mortale o immortale o se l’universo è
finito o meno), non ci sono altro che “antinomie”, soluzioni in contraddizione
tra loro.