domenica 11 settembre 2016

La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei di Francesco Postorino*


Remo Bodei ha recentemente pubblicato Limite (il Mulino), una importante riflessione filosofica sull'idea di limite nell'epoca della globalizzazione. In questa intervista, si ricapitolano di questa riflessione i tratti principali.

Il concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche e, in particolare, nella modernità?

Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura, del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come “concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.

Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.  

Se guardiamo specificamente alla filosofia, nel periodo da Locke a Kant, la filosofia moderna si è interrogata a lungo sui limiti dell’intelletto umano. Fin dove può giungere una solida conoscenza basata sull’esperienza o sul sapere matematico prima di lasciare spazio alla fede o alla metafisica, ossia a questioni indecidibili e a convinzioni non razionalmente argomentabili? Se per Locke ogni idea trae il suo materiale unicamente dall’esperienza dei sensi, è chiaro che non si può attribuire valore di verità a quanto si pone al di fuori di essa. Kant, a sua volta, delimita la sfera di validità dell’esperienza paragonando l’intelletto a un’isola dai confini ben precisi, circondata da un mare di apparenze, verso il quale gli uomini si sentono però irresistibilmente attratti.

La tentazione da evitare è quella di lasciarsi attirare dalle Sirene della metafisica, che invitano allo scriteriato viaggio nell’oceano dell’apparenza, di lasciarsi sedurre da ciò che è inverificabile e contrario all’unica verità alla nostra portata, quella dettata dall’esperienza. Non bisogna quindi abbandonare il solido terreno di quest’isola dai “confini immutabili” per affrontare un’impresa che è, comunque, destinata al naufragio. Sul terreno della dialettica, ossia dell’illusione di poter risolvere problemi insolubili (ad esempio, se l’anima è mortale o immortale o se l’universo è finito o meno), non ci sono altro che “antinomie”, soluzioni in contraddizione tra loro.

sabato 10 settembre 2016

Un discorso di Hegel*

*Da:    http://www.badiale-tringali.it/

(Nel 1808 Hegel assunse l'incarico di rettore del Ginnasio di Norimberga. Nel settembre del 1809, a conclusione del primo anno scolastico, tenne il seguente discorso sul significato degli studi classici. Paolo Di Remigio ci propone questa traduzione commentata. Leggendola siamo stati colpiti dalla lucidità e dall'attualità delle parole di Hegel su cosa siano cultura ed educazione. Per questo ci sembra interessante proporvelo. Ringraziamo l'amico Di Remigio per questa opportunità. Il testo appare anche su "Appello al popolo". M.Badiale)


In occasione del conferimento solenne dei premi che l'Autorità Suprema conferisce agli alunni distintisi per i loro progressi al fine di gratificarli e ancor più di spronarli, sono incaricato da Graziosissimo Ordine di illustrare in un pubblico discorso la storia del Ginnasio nell'anno passato, e di toccare quegli argomenti di cui può essere utile parlare per la loro relazione al pubblico. L'invito alla deferenza con cui ho da compiere questo incarico è proprio della natura dell'oggetto e del contenuto, che consiste in una serie di liberalità del Re o di loro conseguenze, e la cui illustrazione implica la necessità di esprimere la più profonda gratitudine per esse –una gratitudine che, insieme al pubblico, mostriamo alla cura sublime che l'Autorità dedica agli Istituti pubblici di istruzione1. – Ci sono due rami dell'amministrazione pubblica per il cui buon ordinamento i popoli usano essere più di ogni altra cosa riconoscenti: buona amministrazione della giustizia e buoni istituti di istruzione; infatti soprattutto di questi due rami, dei quali uno tocca la sua proprietà privata in generale, l'altro la sua proprietà più cara, i suoi figli, il privato comprende e sente i vantaggi e gli effetti immediati, vicini e individualizzati.

Questa città ha riconosciuto il bene di un nuovo ordinamento scolastico con tanta più vivacità quanto maggiore e più universalmente sentito era il bisogno di un cambiamento2.

Il nuovo Istituto ha poi avuto il vantaggio di seguire Istituti non nuovi, ma antichi, durati più secoli; così gli è si potuta connettere la pronta rappresentazione di una lunga durata, di una permanenza, e la fiducia corrispondente non è stata disturbata dal pensiero opposto che il nuovo ordinamento sia qualcosa di soltanto fuggevole, di sperimentale, – un pensiero che spesso, in particolare quando si fissa negli animi di coloro ai quali è affidata l'esecuzione immediata, finisce con lo svilire di fatto un ordinamento a un mero esperimento3.

Un motivo interno di fiducia è però che, nel migliorare ed estendere essenzialmente il tutto, il nuovo Istituto ha conservato il principio dell'antico e ne è soltanto una prosecuzione. Ed è notevole che questa circostanza costituisca il caratteristico e l'eccellenza del nuovo ordinamento4.

venerdì 9 settembre 2016

CULTURA O IDEOLOGIA?*- Alessandra Ciattini




Quali sono le conseguenze teoriche e politiche dell’impiego della nozione di ideologia e di quella di cultura? Non è contraddittorio richiamarsi ai “fatti” per liquidare le visioni ideologiche e al contempo appellarsi al relativismo culturale per legittimare la propria opinione, qualsiasi essa sia?


Ascoltando con atteggiamento critico il linguaggio politico e quello massmediatico, assai spesso coincidenti, si può cogliere questa paradossale contraddizione: da un lato, le ideologie sono finite ed è quindi opportuno fare costantemente riferimento ai “fatti”; dall’altro, formulando qualche considerazione, ci si appresta a sottolineare che essa è esclusivamente frutto della propria personale opinione, ovviamente sempre rispettabile perché viviamo in un “sistema democratico”.

Sembrerebbe, quindi, che per un verso, si è del tutto convinti che esistano “fatti” osservabili e identificabili indipendentemente dal punto di vista di chi esprime una valutazione; e, infatti, a proposito ad esempio di una certa misura economica da prendere, si ripete ciò non è né di destra né di sinistra, perché sta nelle cose. Per l’altro verso, con una vena relativistica, assai antipatica alla Chiesa cattolica, si ribadisce che ognuno ha legittimamente le proprie opinioni, in cui si esprimono scelte culturali differenti, tutte accettabili.

Nel primo caso si identifica l’ideologia con un insieme di preconcetti, appartenenti ad un passato ormai superato, e applicati in maniera dottrinaria e semplificatoria. Nel secondo caso il richiamo implicito è, invece, alla nozione di cultura, che a sua volta rimanda alla convinzione che l’uomo contemporaneo abbia di fronte a sé una miriade di opzioni culturali, tra le quali potrà individuare quella che gli consentirà una più piena realizzazione di sé. Per verificare il carattere mistificante di quest’ultima affermazione, basta fare un’operazione assai semplice: esaminare i diversi programmi televisivi, offerti dai numerosissimi canali che abbiamo a disposizione, cercando di cogliere punti di vista differenti a proposito di questioni che non siano la scelta tra mode effimere ed evanescenti. Insomma, sostanzialmente ci viene servita sempre la stessa salsa, anche se si cerca di presentarla come innovatrice o addirittura trasgressiva. Quindi, contraddittoriamente, talvolta, ci si richiama alla “positività immutabile dei fatti”, talaltra, invece si mette in luce la possibilità del pluralismo culturale, in realtà praticato assai superficialmente e certamente non in ambiti di cruciale rilevanza (come per esempio il carattere effettivamente democratico dei nostri sistemi politici). Pluralismo culturale che ha anche prodotto la bizzarra equiparazione tra cultura quotidiana e cultura alta, concepite come forme semplicemente diverse, ma ugualmente profonde, di attribuire significati al momento storico, cui appartengono.

giovedì 8 settembre 2016

Il concetto marxiano di bisogno[1]*- Agnes Heller


"Il comunismo è pane e rose, il necessario e il superfluo, una società dove si mangia meglio e di più (non solo pane), dove si lavora meglio e di meno, ma anche una società dove si è più felici, realizzati, liberi" (Marx)


Riassumendo le proprie scoperte economiche, rispetto all’economia politica classica, Marx elenca i seguenti punti:

1. Elaborazione della teoria secondo la quale il lavoratore vende al capitalista non il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro.

2. Elaborazione della categoria generale del plusvalore e sua dimostrazione (profitto, salario e rendita fondiaria sono soltanto forme fenomeniche del plusvalore).

3. Scoperta del significato del valore d’uso (Marx scrive che le categorie valore e valore di scambio non sono                                                                                                                    nuove, ma sono riprese dall’economia politica classica).

Se si analizzano le tre scoperte che Marx si attribuisce, non è difficile dimostrare che in qualche modo sono costruite tutte sul concetto di bisogno.

Esaminiamo dapprima il valore d’uso. Marx definisce la merce come valore d’uso nel modo seguente: “La merce è [...] una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo.”[2] È irrilevante a questo proposito se si tratti di bisogni dello stomaco o della fantasia. La soddisfazione del bisogno è la conditio sine qua non per qualunque merce. Non esiste alcun valore (valore di scambio) senza valore d’uso (soddisfazione di bisogni), ma possono ben esistere valori d’uso (beni) senza valore (valore di scambio), sebbene soddisfino bisogni (secondo la loro definizione). Sia fin d’ora chiaro che Marx è solito definire attraverso il concetto di bisogno, ma non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non descrive nemmeno cosa si debba intendere con tale termine.

mercoledì 7 settembre 2016

KANT - Maurizio Ferraris


« L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.»
(Immanuel Kant da Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, 1784

martedì 6 settembre 2016

Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey

*Da:        http://contropiano.org/                            http://www.sinistrainrete.info/  
 Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.


Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.

Gli anni passati da allora hanno visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che di per se spesso mettono nel mirino proprio il “neoliberismo” nella loro critica della società contemporanea.

Cornell West parla del movimento “Black Lives Matter” (il movimento originatosi nella comunità afro-americana contro le continue violenze della polizia contro le persone di colore, ndt) come di “un’accusa verso il potere neoliberale”; Hugo Chavez chiamava il neoliberismo un “percorso verso l’inferno”; e i leader sindacali stanno usando in maniera crescente il termine per descrivere il tipo di struttura più ampia in cui avvengono le lotte per il lavoro. Anche la stampa mainstream ha iniziato ad usare il termine, se non altro per argomentare che il neoliberismo non esiste.

Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? È un bersaglio utile per dei militanti socialisti? E come è cambiato dalla sua genesi avvenuta nel tardo ventesimo secolo?

Bjarke Skærlund Risager, un dottorando presso il Dipartimento di Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, si è seduto al tavolo con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come esso ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra deve ancora essere seria riguardo all’obbiettivo di terminare il capitalismo.

sabato 3 settembre 2016

Simone Weil* - Riccardo Bellofiore

*in "Nuvole", n. 2, dicembre 1991-gennaio 1992)(seguita da breve antologia, stesso numero) 


La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati a torto o a ragione efficaci. Se la repubblica di Weimar, invece che Hitler, avesse deciso per le vie più rigorosamente parlamentari e legali di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli raffinatamente fino alla morte, le torture non avrebbero per questo un atomo di legittimità in più di quanto non ne abbiano attualmente. E una cosa simile non è affatto inconcepibile.
(Simone Weil, Diario, n. 6, p.4, 1943)


Scrive di lei Georges Bataille in L'azzurro del cielo: "Sentivo che una simile esistenza non poteva avere senso se non per uomini e per un mondo votato alla sventura." E ancora: "Pensai: è macabra, ma è l'unica che capisca." Eccessiva e irritante. Ma anche: un'intelligenza affilata come una lama, un'inesausta volontà di capire e trasformare. La sua inquietudine, e in certo senso anche la sua autodistruttività, si accompagnano a quella domanda tutt'ora inevasa che ci viene da un'esperienza al tempo stesso radicale e razionale. Di chi non ha rimosso, né si è acquietata, nell'impotenza e nella sconfitta. Di chi ha lottato con il cuore caldo e la mente lucida. Di chi ha saputo tenere alti, insieme, i valori dell'individuo e quelli di una liberazione collettiva. Di chi ha saputo, insomma, essere di parte senza mai essere di partito - fosse una qualche Internazionale, o una qualche Chiesa. 

Nasce a Parigi nel 1909, da una famiglia ebraica ma non confessante. Si dichiara bolscevica a dieci anni: ma il suo sarà sempre un comunismo libertario, con tratti anarchici. Allieva al liceo di Alain, si laurea con una tesi su Descartes, autore che non cesserà di amare. Insegnante, sindacalista rivoluzionaria, va in Germania nell'agosto del 1932, e vi vede l'impotenza del proletariato tedesco e del movimento rivoluzionario, la competizione tra le burocrazie socialdemocratica e comunista, la divisione e la cecità della sinistra che preparano la disfatta. Ne cerca le cause dapprima in una analisi non compiacente della crisi sociale ed economica, e poi in un ripensamento radicale del marxismo, della forma e dell'origine dello sfruttamento. Consegnerà le sue tesi ad uno scritto pubblicato postumo, quelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale (1934) a cui premette una frase di Spinoza: "Riguardo alle cose umane non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire." Un atteggiamento stoico che la avvicina a Rosa Luxemburg, cui dedicherà una recensione breve ed appassionata. 

giovedì 1 settembre 2016

Studio su Hegel: LA LOGICA - Stefano Garroni

[1] - Hegel, 1130.1, §. 19 - La logica è la scienza (Wissenschaft) della pura (reine) idea, cioè dell’idea nell’ astratto elemento del pensare (Denken)... La logica è la scienza del pensare, delle sue determinazioni e leggi, ma il pensare in quanto tale definisce solo la determinatezza generale o l’ elemento, in cui l’idea è in quanto logica. L’idea non è il pensiero formale, ma (il pensare) in quanto la totalità sviluppantesi delle sue (del pensiero) proprie determinatezze e leggi, che esso stesso si dà -non che ha o trova già in sé.[1]

La logica può esser detta la scienza più difficile, in quanto non ha a che fare con intuizioni (Anschauung) e neppure con astratte rappresentazioni sensibili come la geometria; essa ha invece a che fare con le pure astrazioni e richiede la capacità e la forza di districarsi nel puro pensiero, di muoversi con sicurezza entro di esso, in quanto puro pensiero. (67). La differenza tra logica e matematica -l’argomento è lo stesso fatto per la geometria-, in pp. 70s (cf. Cingoli, 7464: 22).
[Quindi, la logica studia l’idea, ma nell’ astratto elemento del pensare  non nel Dasein; la logica studia l’astratto pensare, come una totalità, che produce le sue stesse leggi e determinazioni. Il tutto avviene entro lo spazio del puro pensiero astratto; qui non compare affatto il Dasein].

Ma la logica può anche esser detta la scienza più facile, in quanto il suo oggetto è il pensare e le sue famigliari (geläufig) determinazioni. -[Si può dire, in questo senso, che Hegel stabilisce una relazione fra logica e conoscenza ordinaria? Per come prosegue il testo di Hegel, per come sottolinea che nelle mani della logica  la Bekanntschaft diventa tale in un senso diverso da quello della quotidianità, direi che è legittima la tesi seguente: l’elaborazione hegeliana si applica sul <comune>, sull’<abituale> -in questo senso, sul <quotidiano>, ovviamente riplasmandolo.]

La logica è utile in quanto apprende a pensare, ad avere in testa il pensieri in quanto pensieri; ma la logica è anche la forma assoluta della verità, dunque, la verità stessa: la logica è utile in quanto assicura il formale uso del pensare.

mercoledì 31 agosto 2016

La logica di Hegel "una grottesca melodia rupestre"- Paolo Vinci


Paolo Vinci è un filosofo italiano. .http://www.iisfscuoladiroma.it 
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/hegel-scienza-della-logica-1812.html



[...] In filosofia conta il procedimento e il risultato. L'uno determina l'altro. Cioè la via che determina il risultato è costitutiva. E' quello che Hegel chiama il 'presupposto posto'. Questo fatto che un risultato e la via che porta al risultato è altrettanto necessario come il risultato. Questo per Hegel, e lo dice nella prefazione alla Fenomenologia, è la ragione fondamentale della differenza tra matematica e filosofia.

La logica del Concetto. Che cos'è il concetto hegeliano? Begriff  

Questa sezione chiamata Concetto, terza parte della Scienza della Logica, è un concetto dei concetti. Questa è la prima cosa da capire. Cioè in questa sezione della logica noi abbiamo una teoria del concetto. Una teoria del concetto che poi ci può far vedere come funzionano i concetti filosofici. 

Quando diciamo concetto, per Hegel, diciamo lo strumento fondamentale del conoscere filosofico. Però Hegel non è un costruttivista puro. Spesso usa l'espressione 'un semplice concetto'. Perché il concetto da se è vuoto. Anche per Hegel, come dice Kant, il concetto si deve riempire. Soltanto che Hegel ha una idea di una qualche omogeneità tra la forma e il contenuto.

I concetti hanno bisogno di contenuto. Il concetto hegeliano è un modello di rapporto tra universale e particolare. Questo rapporto non è quello classico che c'è tra universale e particolare per cui l'universale sussume il particolare. Un modello non sussuntivo di rapporto tra universale e particolare, questo è il concetto hegeliano.

Cosa vuol dire rapporto sussuntivo tra universale e particolare?

martedì 30 agosto 2016

COSÌ VENT’ANNI FA L’ULIVO CONSEGNÒ L’ITALIA ALLA DOMINAZIONE GERMANICA*- Giulio Sapelli


 "La “sinistra” è responsabile di cotanto disastro continentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la Thatcher e Reagan si sono resi responsabili di sconfiggere Keynesismo e Stato Sociale. In Europa l’ha in gran parte fatto la sinistra, in nome dell’Europa. Le responsabilità dell’Ulivo devono essere ancora conteggiate." (S. Cesaratto) 

Son vent’anni dalla nascita de L’Ulivo, e forse non è inutile fare il punto su quella che fu la sua politica economico-monetaria. Una politica che si inserisce nel grande percorso di trasformazione mondiale capitalistica ancora in corso, ma che iniziò ad apparire visibile esattamente negli anni di cui si parla in queste pagine, ossia alla metà degli anni novanta del Novecento.

È ormai diffusa la quasi stucchevole affermazione per cui dalla crisi economica mondiale in corso stia emergendo una nuova formazione economico-sociale capitalista. In questo in verità non vi è nulla di nuovo, gli andamenti delle forze produttive sono sempre intimamente legati alle forme della produzione e quindi ai rapporti sociali e istituzionali. Anzi, molto spesso nella storia capitalistica questi ultimi hanno avuto un ruolo determinante nel pre-formare le stesse forze produttive, che ben poco hanno di meccanico e deterministico.

Il sismografo più sensibile e rilevante che segnala i mutamenti tra forme dell’accumulazione e rapporti sociali di produzione è il lavoro. Parlo naturalmente del lavoro vivo, incorporato in quel reticolo di rapporti contrattuali che rinserrano la forza di lavoro, ossia quella parte del tempo di lavoro che configura il rapporto capitalistico. In esso, vivaddio, a essere venduto o sottoposto al lavoro comandato, non è tutto il lavoro della persona lavoratrice, come è nei rapporti di schiavitù, ma solo il tempo durante il quale la persona è sottoposta ai rapporti sociali di lavoro. Per capire cosa è cambiato in questi ultimi, bisogna risalire non alla crisi in corso ma alle sue origini.

Si tratta di vari fenomeni solo apparentemente distinti ma l’un con l’altro legati. L’uno risale al crollo del sistema di Bretton Woods tra il 1971 e il 1973, quando il dollaro smise di essere moneta di riferimento e ci si avventurò in un sistema mondiale di alti tassi di interesse e di profonda volatilità dei rapporti tra le valute. L’eccesso di liquidità che si creò, grazie all’intensificazione dei rapporti oligopolistici sul fronte del commercio mondiale delle materie prime, generò un profondo spostamento tra valore della produzione e del pluslavoro che ne derivava e valore della circolazione monetaria che iniziò a valorizzarsi a tassi molto più forti di crescita di quanto non fosse in passato di per se stessa e con se stessa.

domenica 28 agosto 2016

Husserl - Roberta De Monticelli

http://www.raiscuola.rai.it/articoli-programma/zettel-presenta-husserl-e-la-fenomenologia-%E2%80%93-roberta-de-monticelli/32987/default.aspx




Vedi anche:   https://www.youtube.com/watch?v=hDZ4A1nUKkM             

https://www.youtube.com/watchv=226l_CRUMrM

https://www.youtube.com/watchv=6RIpi8onciM

Il nostro Marx*- Antonio Gramsci

 *Antonio Gramsci, Scritti politici I, a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma 1973



Non firmato, Il Grido del Popolo, 4 maggio 1918

Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? Buaggine, tu sola sei immortale. La questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d'inchiostro e di stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio. Unico imperativo categorico, unica norma: «Proletari di tutto il mondo unitevi». Il dovere dell'organizzazione, la propaganda del dovere di organizzarsi e associarsi, dovrebbe dunque essere discriminante tra marxisti e non marxisti. Troppo poco e troppo: chi non sarebbe marxista?

Eppure cosí è: tutti sono marxisti, un po', inconsapevolmente. Marx è stato grande, la sua azione è stata feconda, non perché abbia inventato dal nulla, non perché abbia estratto dalla sua fantasia una visione originale della storia, ma, perché il frammentario, l'incompiuto l'immaturo è in lui diventato maturità, sistema, consapevolezza. La consapevolezza sua personale può diventare di tutti, è già diventata di molti: per questo fatto egli non è solo uno studioso, è un uomo d'azione; è grande e fecondo nell'azione come nel pensiero, i suoi libri hanno trasformato il mondo, cosí come hanno trasformato il pensiero.

Marx significa ingresso dell'intelligenza nella storia dell'umanità, regno della consapevolezza.

sabato 27 agosto 2016

Marx, Hegel ed il metodo. Note introduttive - Roberto Fineschi

 "La teoria della critica si limita a dichiarare che tutto ciò che è determinato è un'opposizione rispetto all'universalità illimitata dell'autocoscienza, e che quindi è un nulla; così per esempio lo Stato, la proprietà privata, eccetera. E' necessario all'opposto dimostrare che Stato, proprietà privata, eccetera, trasformano gli uomini in astrazioni, o che sono prodotti dell'uomo astratto, anziché essere la realtà degli uomini individuali, concreti. 
E' chiaro di per sé infine che, se la "Fenomenologia" di Hegel, nonostante il suo peccato originale speculativo, dà in molti punti gli elementi per una reale caratterizzazione dei rapporti umani, il signor Bruno e soci forniscono invece solo la caricatura priva di contenuto, una caricatura che si accontenta di estrarre da un prodotto spirituale, o anche da rapporti e movimenti reali, una qualsiasi determinatezza, di trasformare questa determinatezza in una determinatezza del pensiero, in una categoria, e di far passare questa categoria come il punto di vista del prodotto, del rapporto e del movimento, per potere quindi, con sapienza presuntuosa, dal punto di vista dell'astrazione, della categoria universale, dell'autocoscienza universale, guardare giù trionfalmente verso questa  determinatezza." (Friedrich Engels – Karl Marx, LA SACRA FAMIGLIA)

Video del sesto incontro del ciclo "Ripartire da Marx" organizzato da Rete dei Comunisti-Torino e da Noi Restiamo-Torino.


“Quando penso un oggetto, lo rendo un pensato e gli tolgo ciò che ha di sensibile; lo rendo così qualcosa che è immediatamente ed essenzialmente mio: infatti, nel pensare sono presso di me. Elaborare il concetto significa penetrare l’oggetto, che non è più qualcosa di contrapposto a me, perché gli ho tolto ciò che, per sé, a me si oppone... dice lo spirito «questo è spirito del mio spirito» e l’estraneità è dissolta. Ogni rappresentazione è una generalizzazione e quest’ultima appartiene al pensare. Pensare qualcosa significa renderlo generale [...] Questo è l’atteggiamento teoretico”. (Hegel, Lezioni sul diritto naturale e la scienza dello Stato -conosciute anche come la Filosofia del diritto di Heidelberg, §.4) 


FILOSOFI AL POTERE - Mario Vegetti


  Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/platone-la-repubblica-luciano-canfora.html

venerdì 26 agosto 2016

Domenico Losurdo: La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra*- Maurizio Brignoli

*Da:    http://www.recensionifilosofiche.info/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/07/colonialismo-neocolonialismo-e.html

Losurdo, Domenico, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra
Roma, Carocci, 2014, pp. 303, euro 23, ISBN 978-88-430-7534-2 



Il lavoro di Losurdo parte dalla constatazione che, di fronte a una crisi economica e politica, caratterizzata dallo svuotamento della democrazia e dall’affermazione di una “plutocrazia” sempre più dominante, in Occidente c’è una sinistra assolutamente incapace di produrre un’analisi di questa duplice crisi e di articolare un progetto di lotta e di trasformazione politica della realtà esistente.
Si riscontrano due processi fra di loro intrecciati: la “grande divergenza” fra l’Occidente e il resto del mondo (in particolare 
la Cina) tende a ridursi, mentre nei paesi capitalisticamente più avanzati si afferma la “grande divergenza” fra un’élite opulenta e il resto della popolazione. Di fronte a questa situazione l’Occidente capitalistico procede smantellando lo stato sociale e tenta contemporaneamente di ristabilire la propria supremazia internazionale attraverso il ricorso a guerre neocoloniali. L’ideologia dominante punta a giustificare lo smantellamento dello stato sociale come necessaria conseguenza della crisi economica, in realtà, mostra Losurdo, ciò che avviene ai nostri giorni è il frutto di «una lotta di classe che abbraccia oltre due secoli di storia» (p. 22). Ad esempio, alla fine della seconda guerra mondiale, Hayek sottolineava come il welfare state inglese costituisse una minaccia per le caratteristiche fondamentali della civiltà occidentale, mentre negli anni ‘70 definiva i “diritti sociali ed economici”, sanciti dall’Onu, frutto dell’influenza rovinosa della rivoluzione bolscevica. L’attacco a questi diritti non si origina quindi in riferimento alla crisi economica. 

Con la guerra fredda si è affermata un’ideologia secondo cui il mondo capitalista coinciderebbe con il “mondo libero”, ma proprio a causa del trionfo in questa guerra le condizioni all’interno dell’Occidente sono peggiorate: crisi, precarietà, licenziamenti, disoccupazione e riduzione delle libertà sindacali. La lotta secolare del movimento operaio, che era anche una lotta per la libertà volta a ridurre il potere esercitato dalla volontà altrui, oggi viene progressivamente ricacciata indietro. La diseguaglianza economica si traduce in diseguaglianza politica. Abbiamo quello che l’autore chiama “monopartitismo competitivo” (p. 52) in cui due partiti fanno riferimento a uno dei due gruppi di interessi in cui si articola la ristretta minoranza che controlla la ricchezza e la vita politica del paese; la conseguenza è che i movimenti di protesta sfociano in jacquerie urbane prive di sbocco politico e di riferimenti all’interno del parlamento, a riprova di come le masse popolari si trovino prive di rappresentanza in organismi che sono eletti sulla base di quella che di fatto è una discriminazione censitaria, o nel rafforzarsi dei partiti populisti. 

mercoledì 24 agosto 2016

Il ruolo della Germania nella crisi europea*- Vladimiro Giacché


La crisi non è un incidente, non è esogena, al contrario: essa mostra una continuità o meglio una consequenzialità rispetto ad alcuni trend di fondo.

L’innesco della crisi è rappresentato dal collasso del modello di consumo degli Stati Uniti, basato sull’indebitamento privato, che consentiva di mantenere consumi elevati nonostante stipendi in calo ormai da decenni (per i dati relativi vedi V. Giacché, Titanic Europa, 2012, pp. 29-30).

Viene alla luce un “sistema bancario ombra”, che consentiva di occultare una leva finanziaria elevatissima (rapporto attività/mezzi propri pari o superiore a 30). In tal modo le perdite maturate in alcuni settori (mutui subprime e obbligazioni basate su di essi) si estendono a macchia d’olio agli altri, nel momento in cui le banche e le società finanziarie coinvolte sono costrette a vendere in perdita gli assets finanziati a leva.

Il sistema finanziario è sconvolto dalla crisi e ne amplifica gli effetti. Quando nel settembre 2008 la banca d’investimento Lehman Brothers fallisce, la circolazione del capitale sembra per qualche tempo interrompersi su                                                                                                            scala mondiale, si verificano corse agli sportelli e fenomeni di tesaurizzazione.

Crollano produzione e commercio internazionale.

Tra la fine del 2008 e la prima metà del 2009 la bancarotta delle principali istituzioni finanziarie a livello mondiale, ma anche di molte grandi imprese manifatturiere (si pensi al settore automobilistico statunitense), fu sventata soltanto grazie a interventi pubblici di salvataggio senza precedenti. Nel giugno 2009 la Bank of England rivelò che i sussidi e le garanzie offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei paesi dell’Eurozona a sostegno del sistema bancario ammontavano alla cifra di 14.000 miliardi di dollari.

Si trattava precisava lo stesso rapporto di una cifra equivalente a circa il 50% del prodotto interno lordo di quei paesi (Bank of England2009). Si ebbe in tal modo una gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico o, per essere più chiari, una gigantesca socializzazione delle perdite.

La crisi iniziata nel 2007 ha distrutto capitale reale e fittizio in enorme quantità (a conferma del carattere non ciclico della crisi). Ma non è riuscita a rilanciare l'accumulazione di capitale su scala globale. Stati Uniti, Giappone e Unione Europea (e più in particolare l'eurozona) si trovano molto al di sotto della crescita potenziale stimata prima della crisi.

1. La narrazione standard della crisi fase 1: 2007-2009. Finanza colpevole: una spiegazione convincente?
2. La narrazione standard della crisi fase 2: 2010-2014. Debito pubblico eccessivo: una spiegazione convincente?
3. Alla ricerca di una spiegazione alternativa: la crisi come effetto di una evoluzione strutturale 
4. Le leve della crescita nei paesi a capitalismo maturo dagli anni 1980: finanza e debito 
5. Il ruolo dell’euro nella crisi europea
6. Il ruolo della Germania


martedì 23 agosto 2016

domenica 21 agosto 2016

Il Manifesto del Partito Comunista*- Karl Marx e Friedrich Engels (1848)



II.   Proletari e Comunisti

In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?

I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.

I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.

I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall'altra per il fatto che sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.

Quindi in pratica i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento                                                                                    proletario.

Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo.

Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione di rapporti di proprietà esistiti fino a un dato momento non è qualcosa di distintivo peculiare del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a continui cambiamenti storici, a una continua alterazione storica.
Per esempio, la rivoluzione francese abolì la proprietà feudale in favore di quella borghese.
Quel che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese.

Ma la proprietà privata borghese moderna è l'ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri.

venerdì 19 agosto 2016

GIUSTA, INGIUSTA, UNILATERALE. La Famiglia in relazione allo Stato.*- Emily Rampoldi**

**EMILY RAMPOLDI - LICEO CLASSICO ALESSANDRO VOLTA (COMO) - CLASSE IIIG - CORSO COMUNICAZIONE - A.S.: 2010/2011

"La Famiglia, come lo Stato, è giusta in sé dal momento che tutela i propri membri insieme con i loro pensieri, ideologie, sentimenti. Tuttavia è contemporaneamente ingiusta poiché nella sua unilateralità non è in grado di raggiungere un compromesso costruttivo con il potere etico a lei così strettamente legato." 




Una famiglia è costituita da un gruppo di persone che vivono insieme. Nella cultura occidentale una famiglia spesso è definita in modo specifico come un gruppo di persone affiliate da legami consanguinei o legali, come il matrimonio o l'adozione o la discendenza da progenitori comuni. Molti antropologi sostengono che la nozione di "consanguineo" deve essere intesa in senso metaforico; alcuni sostengono che ci sono molte società di tipo non occidentale in cui la famiglia viene intesa attraverso concetti diversi da quelli del "sangue".

mercoledì 17 agosto 2016

Le troiane - Euripide

Le troiane di Euripide, edizione del 1966, con Sarah Ferrati, Anna Maria Guarnieri, Enrico Maria Salerno,
Laura Tavanti, Roldano Lupi, Esmeralda Ruspoli, Orazio Orlando, Anna Miserocchi, Lia Angelieri, Luisa Aluigi, Anna Bruno, Anna Maria Chio, Vittoria Dal Verme, Piera Degli Esposti, Cesarina Gheraldi, Maddalena Gillia, Milena Vucotich. Regia di Vittorio Cottafavi. 



martedì 16 agosto 2016

Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale*- Armando Lancellotti

*Da:    https://www.carmillaonline.com/



Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00



«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).

Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali,                                                                                                              politiche o storiche) degli attori di tale crimine.

Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.

Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.

sabato 13 agosto 2016

M. Heidegger: La fine della filosofia e il compito del pensiero - Carlo Sini


"Comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l'individuo, ognuno è comunque un figlio del suo tempo; così anche la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero. Che una qualsiasi filosofia oltrepassi il suo mondo attuale è un'opinione altrettanto stolta di quella secondo cui un individuo salti oltre il proprio tempo [...]. Come pensiero del mondo essa compare, nel tempo, soltanto dopo che la realtà ha compiuto il proprio processo di formazione e si è del tutto fatta [...]. Quando la filosofia dipinge il suo chiaroscuro, allora una figura della vita è diventata vecchia, e con il chiaroscuro essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva comincia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo."   (Hegel)


                                                                                                               (Il video si interrompe al minuto 33,49 per riprendere al minuto 34,15)

venerdì 12 agosto 2016

Heidegger - Franco Volpi

 Leggi Anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/09/sintesi-della-dialettica.html



                                                                                                         Seconda parte:   https://www.youtube.com/watch?v=S1pY2TCbq2w

mercoledì 10 agosto 2016

Il proletariato non è il soggetto della storia*- Moishe Postone**

*(Estratto dal libro di Moishe Postone, « Temps, travail et domination sociale. Une réinterprétation de la théorie critique de Marx », pp. 519-524, Mille et une nuits, 2009)        Da:     http://francosenia.blogspot.it/ 
** Moishe Postone è uno storico canadese, professore di storia all'Università di Chicago. Dal 1972 al 1982 ha vissuto a Francoforte sul Meno dove è stato collaboratore dell'Istituto di Ricerche Sociali.
Ora, possiamo tornare alla questione del ruolo storico della classe operaia e della contraddizione fondamentale del capitalismo, così come viene trattata implicitamente da Marx nella sua critica della maturità. Nel concentrarmi sulle forme strutturanti la mediazione sociale, costitutive del capitalismo, ho mostrato che la lotta di classe non genera, in sé e per sé, la dinamica storica del capitalismo; in realtà, essa è un elemento motore di questo sviluppo solo perché è strutturata da delle forme sociali intrinsecamente dinamiche. Come si è già detto, l'analisi di Marx respinge l'idea che la lotta fra la classe capitalista ed il proletariato sia una lotta fra la classe dominante nella società capitalista e la classe che reca in sé il socialismo e che, di conseguenza, il socialismo rappresenti l'auto-realizzazione del proletariato. Quest'ultima idea è strettamente legata alla comprensione tradizionale della contraddizione fondamentale del capitalismo in quanto contraddizione fra la produzione industriale ed il mercato e la proprietà privata. Ciascuna delle due grandi classi del capitalismo viene identificata come uno dei termini di questa "contraddizione"; l'antagonismo fra lavoratori e capitalisti viene perciò visto come l'espressione sociale della contraddizione strutturale fra le forze produttive ed i rapporti di produzione. Tutta questa concezione si basa sul concetto di "lavoro" visto come fonte trans-storica della ricchezza sociale e come elemento costitutivo della vita                                                                                                         sociale.

Ho criticato i postulati che stanno alla base di questa concezione, spiegando nel dettaglio le distinzioni operate da Marx fra il lavoro astratto ed il lavoro concreto, fra il valore e la ricchezza materiale, e mostrando la centralità che tali distinzioni hanno nella sua teoria critica. A partire da queste distinzioni, ho sviluppato la dialettica del lavoro e del tempo che si trova al cuore dell'analisi marxiana del modello di crescita e della traiettoria di produzione che caratterizzano il capitalismo. Secondo Marx, lungi dall'essere la materializzazione delle sole forze produttive, che sono strutturalmente in contraddizione con il capitale, la produzione industriale fondata sul proletariato è completamente modellata dal capitale; essa è la materializzazione delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Non può quindi essere assunto come un modo di produzione che, immutato, potrebbe servire da base al socialismo. In Marx, la negazione storica del capitalismo non può essere intesa come una trasformazione che renderebbe adeguato il modo di distribuzione al modo di produzione industriale sviluppato sotto il capitalismo.