"Il salario non è una partecipazione dell'operaio alla merce da lui prodotta"
osservò senza esitazioni Marx; precisando che ciò che caratterizza il salario è dunque questo: quello che il lavoratore produce per sé non è la seta, l'oro, i palazzi, o le macchine, risultato del suo processo di lavoro, ma è il salario.
Ciononostante, dopo un secolo e mezzo si è costretti ancora ad assistere al trionfo dell'ideologia della partecipazione - in nome della cosiddetta qualità totale, della solidarietà, e di altre fandonie.
"Tutto questo ameno ragionamento - commenta Marx - si riduce a ciò: se i lavoratori possedessero a sufficienza lavoro accumulato, ossia il capitale per non essere costretti a vivere direttamente della vendita del loro lavoro, la forma del salario sparirebbe: cioè, se tutti i lavoratori divenissero capitalisti, ossia se anche il capitale potesse mantenersi senza il suo opposto, il lavoro salariato, senza il quale però esso non può esistere. Nondimeno, questa affermazione è da ricordare. Il salario non è una forma accidentale della produzione borghese, ma tutta la produzione borghese è una forma storica transitoria della produzione. Tutte le sue caratteristiche, il capitale come salario, la rendita, ecc., sono transitorie e suscettibili di essere soppresse a un certo punto dell'evoluzione".
Dunque, quella forma - in quanto "forma" - risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Facendo così giustizia dello pseudo-criterio della partecipazione del lavoratore al risultato dell'impresa, la forma di salario rimane il perno del rapporto di lavoro col capitale: ed è precisamente questo il concetto da chiarire.
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
venerdì 23 ottobre 2015
Prigionieri in un triangolo delle competenze* - Jacques Bidet
*manifesto 22.10.2015
I grandi dibattiti sulla società hanno sempre posto al centro la relazione tra mercato e organizzazione, fra questi due modi di coordinazione razionale dell’azione sociale. Marx indaga il capitalismo in termini di struttura, come strumentalizzazione del mercato, della razionalità mercantile, avvenuta attraverso la mercificazione della forza-lavoro. Ma è in termini di tendenza storica di questa struttura concorrenziale che egli giunge all’organizzazione, trattata a partire dallo sviluppo della grande impresa. Egli interpreta l’organizzazione come un altro tipo di razionalità, oggi nelle mani dei capitalisti, ma che finirà per sfuggire loro e che fornirà, quando la proprietà privata e il mercato saranno aboliti, il tessuto stesso del socialismo. È questo il nucleo duro del grande mito emancipatore del XX secolo.
I grandi dibattiti sulla società hanno sempre posto al centro la relazione tra mercato e organizzazione, fra questi due modi di coordinazione razionale dell’azione sociale. Marx indaga il capitalismo in termini di struttura, come strumentalizzazione del mercato, della razionalità mercantile, avvenuta attraverso la mercificazione della forza-lavoro. Ma è in termini di tendenza storica di questa struttura concorrenziale che egli giunge all’organizzazione, trattata a partire dallo sviluppo della grande impresa. Egli interpreta l’organizzazione come un altro tipo di razionalità, oggi nelle mani dei capitalisti, ma che finirà per sfuggire loro e che fornirà, quando la proprietà privata e il mercato saranno aboliti, il tessuto stesso del socialismo. È questo il nucleo duro del grande mito emancipatore del XX secolo.
Oggi ne misuriamo i limiti. La riflessione critica ha del
resto preso molteplici forme. Per parte mia, io propongo di riprendere, di
correggere e di allargare il procedimento di Marx a partire dal suo
«cominciamento». La società moderna si caratterizza per il suo riferimento
alla ragione. Ma questa non è che la sua metastruttura, che non è posta,
come pretesa presuntamente condivisa di libertà-eguaglianza-razionalità,
che nelle condizioni della struttura di classe, che a sua volta la
presuppone.
giovedì 22 ottobre 2015
IL CAPITALE DI MARX (13) - Riccardo Bellofiore
Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).
Lezioni precedenti:
https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL
K. Marx, Il Capitale, Cap. 21, 22, 23:
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_21.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_22.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_23.htm
K. Marx, Il Capitale, Cap. 21, 22, 23:
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_21.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_22.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_23.htm
mercoledì 21 ottobre 2015
Il salario nelle crisi: Modigliani e l’inizio della fine del Pci*
Il dibattito economico odierno sulle possibili soluzioni per
uscire dalla crisi si concentra sull’utilità o meno di una riduzione dei
salari. Sebbene si citi spesso la frase di Marx (per cui la storia si ripete
come farsa), in questo caso la farsa è che questo dibattito si ripeta ancora
nel nostro paese. Infatti, durante la crisi degli anni ’70, lo stesso dibattito
ebbe luogo proprio in Italia, e vide confrontarsi il futuro premio Nobel Franco
Modigliani ed economisti eterodossi, molti vicini al Partito Comunista
Italiano. Proprio il dibattito sul livello del salario nella crisi è un
indicatore importante per misurare l’orientamento delle varie posizioni
politiche e il loro cambiamento reale.
Modigliani: la riduzione del salario
reale e il compito dei sindacati
Gli anni ’70 furono attraversati da diversi fenomeni
economici. Da una parte si concluse il ciclo di lotte cominciano nei decenni
precedenti, con la conquista di molti diritti, tra cui lo Statuto dei
Lavoratori e la scala mobile per i salari. Dall’altro l’Italia, come le altre
economie capitaliste fu colpita da una crisi di stagflazione, che univa quindi
alla crisi della produzione un’impennata dell’inflazione.
Per uscire dalla crisi era necessario, secondo Modigliani,
una riduzione del salario reale, che sarebbe dovuta passare attraverso la modifica
o la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione
(conosciuto appunto come scala mobile). La tesi di Modigliani era che questo
meccanismo, di cui a prima vista beneficiavano i lavoratori, andava in realtà
contro i loro stessi interessi collettivi. La scala mobile infatti conduceva, a
suo dire, a un aumento del salario reale ( a causa dell’impossibilità per gli
imprenditori di scaricare tutto l’aumento salariale sui prezzi) determinando
così un peggioramento della bilancia commerciale italiana (le importazioni
sarebbero aumentate, mentre le esportazioni sarebbero diminuite). Inoltre
l’occupazione sarebbe calata. In definitiva, secondo Modigliani, il meccanismo
della scala mobile tutelava i lavoratori attivi a discapito dei disoccupati.
Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei loro sindacati,
cancellare la scala mobile e accettare un livello salariale più basso, che
fosse compatibile con la piena occupazione. Inoltre la riduzione del costo del
lavoro avrebbe fermato l’inflazione.
In sostanza i lavoratori ci avrebbero guadagnato rispetto
alla situazione che stavano vivendo: mentre la scala mobile generava inflazione
e disoccupazione (tutelando solo una parte della forza lavoro), con le sue
proposte si sarebbe sconfitta l’inflazione e si sarebbe ottenuta la piena
occupazione. A fronte di un sacrificio momentaneo, si sarebbero quindi potuti
ottenere benefici successivi.
martedì 20 ottobre 2015
FILOSOFIA O IDEOLOGIA? - Renato Caputo
La filosofia,
favorendo lo sviluppo di un sapere critico e di una visione del mondo
scientifica, è stata sempre considerata con sospetto dai ceti sociali
dominanti. Inoltre, ponendo la questione della verità come un compito
collettivo, da realizzare attraverso un costante dialogo fra diversi, essa non
può che essere avversata da chi auspica soluzioni autoritarie fondate sul
diritto del più forte, la legge di natura quale legge della giungla. Un modo di
pensare che parte dal sapere di non sapere non può che essere combattuto da
ogni forma di fondamentalismo, di totalitarismo, di fanatismo.
D’altra parte, essendo fondata sull’amore per la verità, la
filosofia non può che, ancora, essere avversata da chi, per mantenere i propri
privilegi, deve mantenerla celata, dal momento che la verità è rivoluzionaria.
Il pensiero filosofico, come riconosceva lo stesso Benedetto Croce, è un sapere
in sé e per sé democratico, in quanto si fonda sulla ragione quale
caratteristica peculiare del genere umano, di cui ogni uomo è almeno
potenzialmente portatore. Quindi non solo essa offre a ognuno la possibilità di
uscire dallo stato di minorità, quale “incapacità di servirsi del proprio
intelletto senza la guida di un altro”, per dirla con Kant, ma è presente in sé
in ogni uomo, in quanto tale potenzialmente filosofo. In tal modo essa è
animata da uno spirito radicalmente egualitario, tanto che i suoi più acerrimi
nemici - quali Nietzsche - imputano al suo fondatore, Socrate, di essere il
primo responsabile della rivolta degli schiavi e accusano il fondatore della
filosofia moderna, Cartesio, di essere il nonno della rivoluzione.
lunedì 19 ottobre 2015
Immanuel Kant "La conoscenza" - Brandt, Düsing, Henrich, Hösle
Immanuel Kant - La conoscenza. prima parte: https://www.youtube.com/watch?v=X-Dl-6CVaLc
regia di Maria Teresa de Vito.
Marx e la critica del liberalismo - Stefano Petrucciani
Il vero punto cieco
del liberalismo, il suo presupposto apparentemente ovvio ma in realtà
questionabile, è l’idea che le regole sociali, i principi regolativi di base
della convivenza civile, debbano avere come loro obiettivo primario se non
unico quello di assicurare interazioni ordinate tra estranei potenzialmente
nocivi l’uno all’altro. E che invece non debbano avere come loro scopo primario
quello di garantire nel modo migliore la soddisfazione dei bisogni vitali e
l’acquisizione del maggior benessere possibile per tutti. Il vero punto di
fondo, che Marx non riesce a cogliere in modo esplicito, ma che la sua critica
in qualche modo illumina, è che il pensiero liberale occulta quello che, anche per la filosofia politica antica, è
sempre stato l’aspetto fondamentale della relazione sociale, e cioè che gli
uomini stanno insieme per godere di una vita migliore e più agiata.
Il punto
fondamentale, a mio avviso, sta esattamente qui: il liberalismo politico
borghese-moderno, rompendo con una tradizione bimillenaria, non pensa più la
società come una cooperazione lavorativa per la migliore soddisfazione di
ciascuno, ma, al contrario, la tematizza come una relazione tra estranei
potenzialmente nocivi, che non nasce dal problema di soddisfare le necessità
vitali di ciascuno, ma da quello di garantirgli l’ordinato godimento dei suoi
beni dopo che egli ha provveduto da solo a procurarseli. Per questo aspetto, il
nocciolo razionale non immediatamente visibile della critica marxiana può
essere così riassunto: il pensiero liberale e neoliberale non è in grado di
esibire nessuna buona ragione a sostegno del suo assunto fondamentale, e cioè
che lo Stato e la politica abbiano come primo compito quello di garantire la
sicurezza, la proprietà e le transazioni di mercato, e non invece quello di
operare per assicurare a ciascun individuo condizioni di benessere e di
sviluppo umano.
Marx riflette sulle
modalità della cooperazione sociale e, a partire da lì, sulla questione del
feticismo delle merci. Nella società mercantile la dipendenza di ciascuno dalla
cooperazione lavorativa con tutti gli altri viene occultata dal fatto che gli
attori economici agiscono ognuno per conto proprio e senza un piano. La
dipendenza reciproca si occulta dietro l’indipendenza apparente, che in realtà
non è indipendenza ma dipendenza in una forma non consapevole, non programmata
e mediata dal denaro. Ma questa è esattamente la prospettiva nella quale si
colloca il liberalismo, quando considera l’associazione politica come un rapporto
che nasce da individui originariamente indipendenti, e il cui bisogno di
legarsi reciprocamente sotto norme comuni è motivato solo dalla necessità di
conseguire la sicurezza fisica (Hobbes) o la tutela della propria persona e dei
propri averi (Locke).
perché chi ragiona in
termini di società mercantile vede solo ciò che accade nella sfera della
circolazione (dove regnano “Libertà, Eguaglianza,
Proprietà e Bentham”) e non vede ciò che accade nel regno della produzione,
dove vige invece il dominio del capitale sul lavoro.
L’idea della società
di mercato, che caratterizza la tradizione liberale e che rappresenta oggi il
sogno o l’utopia del neoliberismo, è una rappresentazione immaginaria (e
naturalmente anche apologetica) perché le relazioni di mercato non sono
autosussistenti, non bastano a se stesse, ma possono sussistere solo in quanto
si inscrivono e sono supportate a monte e a valle da forme di coordinazione
sociale non mercantile, come ad
esempio la fornitura di beni pubblici (quali ad esempio strade, infrastrutture,
mantenimento di un ambiente salubre) da parte dello Stato o lo scambio di
“servizi” alle persone nell’ambito delle relazioni familiari, amicali e
affettive.
la società di mercato
che il (neo)liberalismo vagheggia è, oltre che indesiderabile, illusoria, perché – e questo è un punto
che neppure Marx vede adeguatamente – la soddisfazione dei bisogni sociali,
anche e soprattutto nella tarda modernità, passa in larghissima parte per ciò
che mercato non è, ovvero da un lato per lo Stato e dall’altro per i legami
familiari o di solidarietà. Perciò la pretesa della mercatizzazione integrale
distrugge (paradossalmente) le basi sociali che rendono possibile il mercato
stesso.
domenica 18 ottobre 2015
Psicologia delle Folle (1895, terza parte, conclusione) - Gustav Le Bon
PARTE TERZA
CAPITOLO I
Classificazione delle folle.
1.° Le folle eterogenee - Come si differenziano - Influenza della razza --- L'anima delle folle 'é
tanto più debole quanto é più forte l'anima della razza - L'anima della razza rappresenta lo
stato di civiltà e, l'anima della folla lo stato di barbarie - 2.° Le folle omogenee - Divisione
delle folle omogenee - Le sette, le caste, le classi.
Abbiamo veduto quali sono i caratteri generali comuni alle folle. Ci resta da studiare i
caratteri particolari sovrapposti a questi caratteri generali, secondo le diverse categorie delle
collettività. Anzitutto facciamo una breve classificazione delle folle.
Il nostro punto di partenza sarà la semplice moltitudine. Essa raggiunge la sua forma più
bassa quando è composta da individui appartenenti a razze diverse. Il suo unico legame è la
volontà, più o meno forte, del capo. Come esempio di tali moltitudini, si possono dare i
barbari di origini diverse, che per parecchi secoli invasero l'impero romano.
Al di sopra di queste moltitudini senza coesione, stanno quelle che, sotto l'azione di certi
fattori hanno acquistato caratteri comuni e hanno finito col formare una razza. Esse
presentano le caratteristiche speciali delle folle, ma sempre insieme a quelle della razza. Le
diverse categorie delle folle che si possono osservare in ogni popolo possono dividersi così
A. - FOLLE ETEROGENEE
1° Anonime (Folle delle vie, per esempio).
2° Non anonime (Giurie, assemblee parlamentari, ecc.).
B.- FOLLE OMOGENEE
1° Sette (Sette politiche, sette religiose, ecc.). B. –
2° Caste (Casta militare, casta sacerdotale, casta operaia, ecc.).
3° Classi (Classe borghese, classe contadina, classe operaia, ecc.).
Ora indicheremo con poche parole i caratteri che differenziano le diverse categorie delle folle.
FREUD TRA SCIENZA ED ETICA* - Stefano Garroni
*Da QUADERNO
FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS
"Ogni virtù, secondo Aristotele, è posta tra due vizi, uno dei quali è la mancanza, e l'altro l'eccesso; essa non è, in un certo modo, se non una delle nostre inclinazioni naturali, alla quale la nostra ragione ci proibisce e di resistere troppo e di obbedire troppo" (Condorcet)
L'Io punta a conquistarsi il dominio sulle spinte pulsionali, avocando a sé la decisione di soddisfarle, subito o nel tempo, orientandosi in base alla valutazione delle circostanze obiettive ma, anche, ispirandosi alla regola di evitar dolore e ricercar piacere - laddove, più è alto il livello di spinta pulsionale, meno è piacevole la sensazione.
L'Io, come sappiamo, è sottoposto a sollecitazioni, che sono contrastanti - quando non addirittura contraddittorie - in diversi sensi: perché le spinte pulsionali, che vengono dall'Es né si curano di definirsi, né di rendersi reciprocamente compatibili; perché, parzialmente, costituiscono gli imperativi e i divieti del Super-io ed, infine, perché vi sono sollecitazioni, che provengono da tutt'altro "luogo", dalla realtà esterna. L'Io è chiamato ad orientarsi in questo insieme intricato, a manipolarlo per poterlo controllare ed, infine, a (realisticamente) conciliarlo (versohnen, appunto). Se vi riesce, la sua azione è corretta.
L'ottica di Freud può comprendere concetti quale "equilibrio", "misura", "conciliazione" ed il loro opposto (l'Es, la spinta pulsionale, ecc.), perché è costruita sulla giustapposizione, sullo scontro fra ordine e disordine, organizzazione e mancanza d'organizzazione. E ciò nel senso che lo spazio ritagliatosi dalla psicoanalisi è quello di una problematica centralissima per l'etica (almeno per una certa tradizione etica), che viene ri-presentata, ma su un altro terreno: quello delle istanze psichiche e dei loro drammatici rapporti.
venerdì 16 ottobre 2015
Orario e condizioni di lavoro: due facce della stessa medaglia - Riccardo Bellofiore
Da: Liberazione,
2 aprile 1997
- Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Riccardo
Bellofiore è professore
ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di
Bergamo.
Recentemente, su queste colonne ha avuto luogo una
discussione tra Giovanni Mazzetti e Ernesto Screpanti in merito alla
possibilità, alle forme e alle prospettive di una riduzione dell'orario di
lavoro a parità di salario. La questione andrebbe affrontata,certamente,
attraverso il vaglio di una indagine disincantata della natura attuale del
processo di accumulazione capitalistico; come anche attraverso una valutazione
realistica dei limiti della politica economica nell'intervenire dall'alto sui
termini del conflitto di classe. Spero di poterlo fare in futuro,se me ne sarà
data l'opportunità. Adesso, preferisco invece prenderla per così dire più alla
lontana, trattando l'argomento della riduzione dell'orario di lavoro sul
terreno apparentemente più generico, ma forse ricco di qualche insegnamento,
delle fondazioni concettuali, con l'aiuto di due testi che mi è capitato di
(ri)leggere in questi giorni, uno di Guido Calogero, l'altro di Claudio
Napoleoni: grandi maestri, l'uno filosofo l'altro economista, che ci propongono
due modi di affrontare il tema non poco diversi, e però entrambi attuali.
Lo scritto di
Calogero è il testo di una conferenza tenuta nel 1955 intitolata"Lavoro e giuoco nella civiltà di domani"
(la si può leggere in Scuola sotto inchiesta, Einaudi).Calogero definisce
lavoro "ogni attività che svolgo per
ritrarne una remunerazione, e che cesserei di svolgere se tale remunerazione
non mi fosse più corrisposta ... l'attività produttiva di beni economici, i
quali quando vengono scambiati diventano merci". Il lavoro salariato,
insomma, come paradigma del lavoro in generale. Giuoco è invece "ogni altra attività,non determinata
dall'intento di un vantaggio economico perché o la svolgo senza ritrarne alcun
guadagno, o la svolgerei egualmente anche se guadagno non ne ritraessi":
una definizione che ha una qualche parentela, per esempio, coni 'lavori
concreti' di cui parla Giorgio Lunghini, o l' 'economia sociale' (il'terzo
settore') di cui parla Marco Revelli.
giovedì 15 ottobre 2015
LA CADUTA TENDENZIALE DEL TASSO MEDIO DEL PROFITTO (e sue controtendenze)* - Guglielmo Carchedi
*Recenti dibattiti teorici su Marx nel mondo anglosassone:
una introduzione, Karl Marx 2013 (Il
Ponte) a cura di Roberto Fineschi, Tommaso Redolfi Riva e Giovanni Sgrò.
Per Marx, il lavoro astratto è “l’erogazione della forza lavoro umana in astratto” (Marx, 1967a, p. 200). Esso è l’erogazione di energia umana indipendentemente da, e cioè astraendo da, le forme specifiche che esso prende (il lavoro specifico, o concreto, secondo la terminologia di Marx). Esso è la sostanza del valore. invece il lavoro concreto crea “il carattere specifico” delle merci e “le trasforma in concreti valori d’uso distinti da altri” valori d’uso. (Marx, 1967b, p.92). Siccome il lavoro è sempre e allo stesso tempo sia astratto che concreto, il valore delle merci è contenuto nei loro valori d’uso. Il valore quindi è generato durante la produzione delle merci nella loro specificità, e quindi prima del loro scambio (compra/vendita) sul mercato.
Se il lavoro astratto è comune a tutte le società, è solo nel capitalismo che esso acquisisce una rilevanza sociale perché esso crea il valore contenuto nelle merci prodotte sotto relazioni di produzione capitaliste e quindi serve per misurarne il valore come suo tempo di erogazione. Esso è quindi sia materiale che sociale. Il “valore delle merci è una realtà puramente sociale” perché è una realtà solo nel capitalismo ma “le merci acquisiscono tale realtà solo nella misura in cui esse sono l’espressione, perché incorporano, una identica sostanza sociale, cioè il lavoro umano” (Marx, 1967a, p.47, enfasi mia, G.C.). Questa identica sostanza sociale è una sostanza materiale che diventa socialmente rilevante solo nel capitalismo.
Per Marx, i lavoratori sono i protagonisti perché il loro lavoro, sotto coercizione, produce sia i valori d’uso delle merci che il valore in essi contenuto.
Sia c il capitale
investito in mezzi di produzione in senso lato e v il capitale investito in forza lavoro. Marx chiama il primo
capitale costante e il secondo capitale varabile. Avendo investito c e v,
il capitalista fa produrre dai suoi lavoratori una merce che incorpora un plusvalore
(un valore al di sopra di c e v) uguale a s. Il valore contenuto (V) è quindi V=c+v+s. Se la merce si vende a un prezzo, (P) uguale a V, cioè se
essa realizza il valore incorporato in essa, il suo prezzo è uguale al suo
valore (P=V). Questo è il caso più semplice di trasformazione di valori in
prezzi. Tuttavia, la diatriba riguarda il caso (che è la regola) in cui il
valore realizzato (prezzo) non è uguale al valore incorporato. L’assunto
fondamentale è che solo il lavoro produce valore e quindi plusvalore. In tal
caso, ceteris paribus i vari capitali producono plusvalore in quantità
differenti e cioè secondo il capitale variabile investito. Se ragioniamo in
termini percentuali, più alta è la percentuale di capitale constante, più bassa
è quella del capitale variabile, minore è il lavoro impiegato e quindi minore è
il (plus)valore generato. Marx chiama il rapporto c/v la composizione organica del capitale. In breve, tanto più alta
è la composizione organica, tanto più basso è il plusvalore generato che a
questo livello di astrazione possiamo ipotizzare sia uguale al profitto. Il
tasso di profitto generato da ciascun capitale è s/(c+v). Percentualmente, tanto maggiore è la composizione
organica, tanto minore è il plusvalore generato e tanto minore è il tasso di
profitto.
La competizione tecnologica riduce percentualmente la forza
lavoro e aumenta la proporzione dei mezzi di produzione. Dato che solo il
lavoro genera valore, il TMP (Tasso medio del Profitto) cade. Tuttavia, gli
innovatori, producono più output (valori d’uso, nella terminologia di Marx).
Essi, potendo vendere un numero maggiore di prodotti allo stesso prezzo dei
concorrenti ad altri settori, si appropriano attraverso il sistema dei prezzi
del plusvalore di chi non ha innovato. Aggiungiamo ora che questa è la
tendenza. Essa, si manifesta nonostante le controtendenze che ne ritardano il
manifestarsi ma che non possono ritardala indefinitivamente.
Se i mezzi di produzione aumentano relativamente alla forza
lavoro mentre il TMP (e quindi il plusvalore relativamente al capitale
investito) cade, i primi non possono produrre plusvalore. Ma allora non possono
produrre neanche valore. Dato che ci sono solo due fattori di produzione, i
mezzi di produzione e il lavoro, è il lavoro e solo il lavoro che produce
valore e plusvalore. La legge del valore è empiricamente supportata.
Consideriamo ora l’aumento del tasso di sfruttamento. Tra il
1987 e il 2009, nonostante la crescita della composizione organica, il TMP
aumenta a causa dell’aumentato tasso di sfruttamento, cioè che la
controtendenza sopraffa la tendenza.
Per stabilire se l’aumento del tasso di sfruttamento sia
veramente una controtendenza che frena l’aumento della composizione organica e
quindi la caduta del TMP, ho calcolato quale sarebbe stato il TMP nell’assenza
di un incremento del tasso di sfruttamento. Più precisamente, ho calcolato il
tasso medio di sfruttamento. Questa procedura mostra quale sarebbe stato il TMP
nel periodo 1987-2009 se il tasso di sfruttamento non fosse aumentato al di
sopra della media di tutto il periodo precedente e quindi isola il corso del
TMP dall’aumento dello sfruttamento nel periodo 1987-2009. Il grafico 4
evidenzia che il TMP sarebbe caduto drammaticamente. Quindi, il TMP è cresciuto
perché il tasso di sfruttamento è cresciuto di più di quanto non sia cresciuta
la composizione organica, perché la controtendenza ha sopraffatto la tendenza.
Nel 2006 il TMP era del 14% ma sarebbe stato del 8% senza l’aumento del tasso
di sfruttamento.
La causa dell’aumento del TMP dal 1987 è stato un salto
senza precedenti nel tasso di sfruttamento. Ciò indica la grandezza della
sconfitta della classe lavoratrice nell’era neo-liberale. La triste peculiarità
è che la classe lavoratrice non è stata ancora in grado di risollevarsi ed
esigere una fetta maggiore del nuovo valore prodotto da essa stessa. L’attacco
continua.
mercoledì 14 ottobre 2015
LA SCRITTURA - Carlo Sini
Da: Società.filosofica.italiana.Bergamo - Carlo
Sini è
un filosofo italiano.- CarloSiniNoema
Sul tema della scrittura.
Sulla centralità dell'alfabeto greco come forma logica del pensiero occidentale e sui suoi pericoli.
Sul tema della scrittura.
Sulla centralità dell'alfabeto greco come forma logica del pensiero occidentale e sui suoi pericoli.
lunedì 12 ottobre 2015
La rivoluzione delle donne
Non c’è liberazione della donna se non in una società socialista: questo è il senso che diamo alla lotta delle donne. Comuniste dunque, anche in quanto donne, per realizzare quella liberazione che dentro la società della divisione del lavoro e della divisione in classi non può realizzarsi. E questa è la ragione per cui le donne comuniste non si pongono solamente come antagoniste all’esistente: lottano contro, certo, contro lo sfruttamento, contro il patriarcato, contro la violenza, contro la collocazione in ben precisi ruoli sociali e culturali…, ma lottano anche per “abolire lo stato di cose presenti” e per costruire un mondo nuovo, di liberi ed uguali: un mondo socialista. La condizione delle donne è - al pari di quella degli uomini - il prodotto di relazioni sociali che si sono affermate storicamente e che si modificano con il modificarsi delle diverse forme economiche e politiche.
Dunque, anche il ruolo della donna (se così vogliamo
definirlo, perché è evidente che questo ruolo non è lo stesso per le donne
lavoratrici e per le donne della classe dominante) è un prodotto
storico-sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo
attraverso la trasformazione della società che determina questi ruoli. Questo
vuol dire che quando si tenta di analizzare la posizione della donna nella
società in cui viviamo non si può fare a meno di partire dall’analisi della
natura di questa società dunque, nel nostro caso, una società capitalista che
si fonda essenzialmente sulla divisione in classi e sullo sfruttamento del
lavoro di una classe da parte di un’altra classe. In altri termini, non
possiamo non tenere conto che esiste una classe - fatta di uomini e di donne -
che viene sfruttata e che ne esiste un’altra - anch’essa composta da uomini e
da donne - che sfrutta, domina e accumula profitto sulle spalle dell’altra.
Questo è per noi l’elemento centrale da cui partire, perché siamo convinti che
la contraddizione tra i sessi si collochi all’interno di un’altra
contraddizione fondamentale che è quella tra lavoratori salariati e
capitalisti.
Dopo la Rivoluzione di Ottobre – avvenuta nel 1917 – le
donne russe ottennero conquiste che le donne del resto del mondo avrebbero
ottenuto solo molti anni dopo: per esempio, la prima donna ministra al mondo fu
Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione, mentre in Italia le donne
hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947, dopo la Resistenza; in Russia
le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo
attendere gli anni ’70-’80.
Prendiamo la situazione della donna rispetto al mondo del
lavoro. Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore
gli effetti della crisi economica del capitalismo. Gli attacchi durissimi
portati alle conquiste sociali ed economiche del mondo del lavoro hanno avuto
conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle
donne. Il processo generale di ristrutturazione e di precarizzazione del lavoro
che è stato portato avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi
decenni, qualunque fosse il loro segno politico, ha prodotto
l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà
del lavoro, portando con sé lo smantellamento di diritti che i lavoratori e le
lavoratrici avevano conquistato nelle lotte della fase precedente. Le donne (e
gli immigrati, per altro verso) sono i soggetti più colpiti dal
supersfruttamento attraverso contratti di lavoro “atipici”, come il lavoro interinale
o i contratti part-time che molte donne chiedono non allo scopo di liberare
tempo per sé stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico
di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia. Quindi: doppio
sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che lavorano
in casa. Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica
porta con sé l’aumento della violenza sulle donne (e magari anche la
diminuzione delle denunce, le due cose non sono affatto in contraddizione).
domenica 11 ottobre 2015
MARX: INTRODUZIONE DEL 1857. SCHEMA DELL'OPERA* - Stefano Garroni
*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed.
Se si tengono presenti, ad es., le pagine dedicate al tema <denaro> nel Per la critica dell'economia politica, e quelle dedicate, nei Grundrisse,alle <Forme precapitalistiche di produzione>, si può sostenere che Marx interpreta lo svolgersi della storia come processo di effettiva separazione di parti che, all''inizio', giacciono confuse l'una nell'altra in una totalità immediata (la forma 'asiatica' di produzione, basata su proprietà comune e possesso privato), anche se - dal punto di vista logico - sono, invece, concepibili separate l'una dall'altra. Questo modello - dell'effettiva separazione nel Dasein di ciò, che è logicamente concepibile come separato - è rigorosamente applicato da Marx, anche nel senso che diverse sono le forme, in cui si realizza effettivamente la separazione, posto che tale diversità sia logicamente concepibile. Ecco cosa significa, veramente, la distinzione, operata da Marx, tra modo di costruzione del concreto nella mente, e modo di costruzione dello stesso nella storia. Ed ecco perché Marx critica il pensare speculativo, in quanto accusato di attenersi rigidamente ad una sola, presupposta forma di movimento dialettico.
La polemica di Marx non è esattamente contro Hegel (che egli
conosceva bene, utilizzava largamente e che rileggeva, quand'era impegnato
nella stesura di Das Kapital); la sua
polemica è contro un certo modo di
essere hegeliano, che trovava nella cosiddetta sinistra hegeliana - o movimento dei 'giovani hegeliani' - e che
radici nel testo di Hegel doveva pur averle. Indubbiamente la polemica di Marx
è contro una determinata interpretazione di Hegel, accompagnata, però, dalla
consapevolezza che difficilmente una interpretazione è appieno arbitraria.
Dunque la polemica di Marx è contro quello Hegel, che può condurre alle tesi giovani-hegeliane; contro
quei lati, quelle oscurità, quelle ambiguità, presenti nel testo di Hegel e
che, in qualche modo, possono concludersi con le posizioni della sinistra
hegeliana.
Senonché, questo non è
tutto Hegel, né forse è lo Hegel essenziale.
E', però, un certo modo, in cui Hegel ha funzionato di fatto e che, per Marx,
va respinto.
venerdì 9 ottobre 2015
Karl Marx - Il metodo dell’economia politica*
*Da Introduzione a "Per
la Critica dell'Economia Politica", Capitolo 3
Marx insiste sul momento analitico del metodo che propone.
Ricordiamo che, nella Logica, Hegel deduce le categorie (determinazioni del
pensare) analiticamente: appunto per via d’analisi si svolge il fondamentale
processo del passaggio in altro. In questo senso, la procedura dialettica è
esplicativa, fa emergere progressivamente ciò che è contenuto nel punto di
partenza. Se questo è vero, non meraviglia che muoversi nella prospettiva
dialettica implica, anche, la necessità di differenziare l’analiticità
dialettica, appunto, da un’altra analiticità, che si limita ad esplicare
formalmente, nel predicato, ciò che è contenuto nel soggetto. Dunque,
l’interesse di Hegel e di Marx verso le proposizioni tautologiche consegue
direttamente da caratteri essenziali della prospettiva dialettica.
La procedura dialettica ... si completa ora mediante la
sintesi. Per Hegel, l’analisi consiste nell’esposizione..., sulla sola base
della necessità concettuale, di ciò che è contenuto in sé nel concetto
originario, colto come totalità; quanto alla sintesi, essa è ai suoi occhi una
procedura, che implica una esteriorità del ragionamento in rapporto a se
stesso, l’assunzione di un’alterità reale. In questo senso il metodo
dialettico, per Hegel, non è né analitico né sintetico -o, piuttosto, è contemporaneamente
e l’uno e l’altro.
La conclusione di Marx, dunque, è che il risultato è
l’effettivo punto di partenza. Esattamente come Hegel sosteneva (G.W.F. Hegel,
Science de la logique...: 42s). Altrettanto chiaro è che Marx sta
ricollegandosi alla critica a Feuerbach, che aveva svolto -in età giovanile-
nelle Thesen über Feuerbach.
Resistenza, lotta di classe e religiosità popolare a Cuba - Alessandra Ciattini
La nuova Costituzione del 1976 definiva la Repubblica di
Cuba uno stato socialista di operai, contadini e lavoratori, alleati tra loro e
guidati dalla classe operaia diretta dal Partito comunista cubano. Essa
stabiliva l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di razza, sesso,
origine nazionale. Sanciva la libertà di espressione, la libertà religiosa,
connessa a quella di praticare il culto prescelto, e la libertà di non credere
(AA.VV., 1994:294-295).
Ma la Costituzione del 1976, approvata con un
referendum popolare da circa il 98% dei votanti, considerava anche la
concezione scientifica materialistica come ideologia ufficiale dello Stato
cubano. Sulla stessa linea si collocano le Tesis sobre Religión, la Iglesia y
los Creyentes discusse in precedenza dal primo Congresso del Partito comunista
cubano, tenutosi nel 1975, nelle quali si ribadisce il diritto a praticare
qualsiasi forma di culto, purché ciò avvenga nel rispetto della legge e della
morale socialiste. In tali tesi si indica come obiettivo da raggiungere
l’affermazione della conoscenza scientifica libera da pregiudizi e
superstizioni, e si esclude che i credenti possano far parte del partito.
Questa decisione scaturì sicuramente dalla volontà di rispondere
all’aggressività mostrata soprattutto dalla gerarchia cattolica nei confronti
della Rivoluzione, la quale con l’abolizione delle scuole private, approvata
negli anni ’60, perdeva un potente strumento di influenza e di penetrazione
culturale.
Nonostante tali posizioni considerate da molti antireligiose, lo
Stato rivoluzionario rivalutò i contenuti estetici, artistici, i valori
folclorici legati alla religiosità popolare, tentando di mettere in secondo
piano i suoi aspetti religiosi e mistici. Tale atteggiamento e l’effettiva
preminenza dei membri del partito comunista nella vita sociale avrebbe spinto
quella parte della popolazione, che in qualche modo seguiva una fede religiosa,
a nascondere tale fede. Tuttavia, nonostante l’adesione all’oggettivismo
positivistico e all’ateismo scientifico, lo Stato cubano perseguì sicuramente
la rivalutazione delle tradizioni popolari cubane, come mostrano, ad esempio,
l’istituzione del Conjunto Folklórico Nacional (lo straordinario corpo di ballo
tutt’ora esistente) e lo spazio dato ad opere teatrali, in cui si
rappresentavano idee e valori legati al retaggio africano. Come osserva Lázara
Menéndez (2004: II parte) tale rivalutazione fece sì che tali forme culturali e
al contempo religiose continuassero ad operare come un fattore di
identificazione, come era avvenuto già nelle epoche passate. Ma poiché, ciò
avveniva accantonando i contenuti religiosi pur caratterizzanti larga parte
della popolazione cubana, si produsse il fenomeno, di cui è difficile valutare
l’estensione, che i cubani chiamano della “doble moral”: essere credenti senza
dichiararlo apertamente. Sicuramente tali osservazioni, sviluppate per esempio
da Lázara Menéndez (2004), sono fondate, ma pongono grossi problemi a chi
voglia auspicare e sostenere una radicale trasformazione sociale, i quali non
possono essere risolti difendendo a tutti i costi le le antiche tradizioni pur
cariche di esperienze esistenziali. Infatti, cambiando il contesto
storico-sociale, inevitabilmente queste ultime, anche se con maggiore lentezza
e gradualità, si trasformano e si riadattano alla nuove circostanze.
Non si
capisce pertanto perché un’organizzazione sociale, che si propone di cambiare
dalle sue basi la precedente struttura sociale, non debba intervenire per
orientare l’innovazione spontanea delle pratiche e delle credenze, favorendo lo
sviluppo di convinzioni e valori funzionali alla nuova strutturazione sociale.
È questo un processo che si è prodotto in tutte le epoche storiche, sia in
quelle rivoluzionarie che in quelle restauratrici.
Naturalmente tale intervento
non può essere in nessun modo repressivo e del resto a Cuba non lo è mai stato,
anche perché come diceva Lenin ai lavoratori interessa mettersi d’accordo sul
“paradiso” in terra, lasciando agli altri le dispute sull’aldilà.
venerdì 2 ottobre 2015
LA DIALETTICA MISTICA DI HOLDERLIN - Stefano Garroni
*Da QUADERNO
FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS
L'amore (e l'amicizia, e l'abbandonarsi, l'immergersi nella
natura) definisce un certo livello d'esperienza, in cui si esplicano forze
profonde ed essenziali, le quali realizzano un "disegno",
attualizzando un'aspirazione radicale, che è degli uomini e dei viventi in
generale. Si tratta dell'aspirazione all'unità, alla ricomposizione, al
superamento d'una condizione di scissione, separatezza, che produce angoscia,
che rende vana, sterile l'esistenza, la svuota di senso. Ma questo va tenuto
ben presente: esiste uno scarto fra il piano in cui si collocano separatezza e
angoscia, e l'altro in cui si realizza la ricomposizione. Il primo, infatti è il piano
dell'intelletto, della riflessione, del sapere scientifico e dell'agire
politico (è il livello del "tempo, insomma); l'altro è quello a cui si perviene, quando, superati illusori furori,
ci si allontana dal pensare e dall'agire (nel senso sopra detto) e si ritorna
ad una relazione immediata, emozionale con la madre-natura.
Dato questo scarto, è vero, allora, che le riconquistate
armonia ed unità rigorosamente,non sono
tali, ma piuttosto lo sono metaforicamente,
allusivamente. Perché fossero effettive
armonia ed unità, dovrebbero, infatti, risultare da un intervento attivo sul mondo della scissione; un intervento
che cambiasse questo mondo, che
operasse, a dir così, sul
"tempo", per introdurre un diverso
"tempo".
giovedì 1 ottobre 2015
Psicologia delle Folle (1895, seconda parte) - Gustav Le Bon
PARTE SECONDA
CAPITOLO I
Le opinioni e le credenze delle folle - I fattori lontani
Fattori preparatorii delle credenze delle folle. - Il fiorire delle credenze delle folle è la
conseguenza di un'elaborazione anteriore. - Studio dei diversi fattori di queste credenze. - 1.°
La razza. - Preponderante influenza esercitata dalla razza. - Essa rappresenta la suggestione
degli antenati. - 2.° Le tradizioni. - Esse sono la sintesi dell'anima della razza. - Importanza
sociale delle tradizioni. Come, dopo esser state necessarie, diventano dannose. - Le folle sono
le conservatrici più tenaci delle idee tradizionali - 3.° Il tempo. - Esso prepara
successivamente la formazione delle credenze, poi la loro distruzione. -- In grazia sua l'ordine
può uscire dal caos. - 4.° Le istituzioni politiche e sociali. Idee errate sulla loro funzione. - La
loro influenza é debolissima, - Sono effetti, e non cause. I popoli non saprebbero scegliere le
istituzioni che a loro sembrano migliori. - Le istituzioni sono etichette che, sotto uno stesso
titolo, nascondono le cose più dissimili. Come possono nascere le costituzioni. - Necessità per
certi popoli di alcune costituzioni teoricamente cattive, come la centralizzazione. - 5.°
L'istruzione e l'educazione. - Errore delle idee attuali sulla influenza dell'istruzione sulle folle.
- Statistiche. Funzione demoralizzatrice dell'educazione latina. - Influenza che l'educazione
potrebbe esercitare. Esempi che ci forniscono diversi popoli.
Iscriviti a:
Post (Atom)