lunedì 1 dicembre 2014

domenica 30 novembre 2014

Brevi considerazioni sul proletariato, la crisi e il riformismo oggi - Celso Beltrami

Tra il 2007 e il 2013, i disoccupati (in Italia) sono più che raddoppiati, passando da 1.529.000 a tre milioni e mezzo, il 13,8% della forza lavoro e, per i giovani tra i 15-24 anni, si arriva a toccare il 46% (primo trimestre 2014). L’area della “sofferenza e del disagio occupazionale”, che comprende disoccupati, scoraggiati, cassaintegrati e part-time involontario, tocca oltre nove milioni di persone, ma «probabilmente sono di più»; rispetto al 2012 c’è stato un aumento del 10,1% e rispetto al 2007 del 60,9%, equivalente a oltre tre milioni di individui. Il calo della massa salariale che ne deriva si riflette, ovviamente, sui consumi, diminuiti in percentuali significative, anche e non da ultimo per il settore primario, quello alimentare. Uno studio della CGIL del settembre scorso diceva che c’erano 3 milioni di famiglie (12,3% della popolazione) [che] non riescono a permettersi un pasto proteico ogni due giorni. (il manifesto, 06/09/’13)                                                                                     Un rapporto della Coldiretti rileva, per il 2013, un aumento del 10% – rispetto al 2012 – di coloro che hanno dovuto far ricorso alle mense pubbliche o ai pacchi alimentari, vale a dire 400.000 persone in più, il che porta la cifra complessiva al numero di 4.068.250 (il manifesto, 29/05/’14).                                                                                                                                                                 Ultima annotazione, giusto per sottolineare, oltre che l’infamia, l’assurdità di una formazione sociale in cui il giovanilismo esteriore imperversa nella rappresentazione ideologica del mondo. I giovani sono sempre meno presenti nel mercato del lavoro, come testimoniano immancabilmente i rapporti periodici dell’Istat, mentre è in costante aumento l’occupazione nella fascia d’età tra i 55 – 64 anni, visto che in Italia, come in tanti altri paesi, è stata innalzata la soglia dell’età pensionabile. E’ evidente che un lavoratore anziano non avrà mai l’energia fisica e “morale” di uno giovane, con le ovvie ricadute sulla famigerata produttività, il che conferma, una volta ancora, che, oggi, l’estorsione del plusvalore è perseguita più attraverso l’aumento della torchiatura della forza-lavoro, prevalentemente sotto la forma del plusvalore assoluto, che dell’investimento e della razionalizzazione dei processi produttivi (prevalentemente plusvalore relativo), che comunque non vengono mai meno in assoluto. L’allungamento della “pena del lavoro” riduce la quota di salario differito (la pensione), anche perché accelera il logoramento delle persone e, forse, la loro “dipartita” da questo mondo o dalla “vita attiva”, a costo di subire riduzioni notevoli dell’assegno pensionistico. Anche questo aspetto rientra nell’abbassamento tendenziale del salario al di sotto del valore della forza-lavoro che caratterizza la fase odierna del capitale.

"tra il 1998 […] e il 2004 […] non sono stati meno di trenta milioni i lavoratori che contro la loro volontà hanno perso il lavoro a tempo pieno e il reddito conseguente. Altri milioni sono stati spinti al prepensionamento o hanno subito forme mascherate di licenziamento […]: probabilmente in media il 7-8 per cento dei lavoratori a tempo pieno ha perso il lavoro ogni anno. Con ciò dando quasi sempre l'addio alla propria appartenenza ai ranghi della middle class. Non è stata una catastrofe repentina e di massa, come era successo con la Grande depressione degli anni Trenta. Uno shock che allora sollecitò risposte collettive e altrettanto di massa"( Bruno Cartosio, La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e disuguaglianze negli Stati Uniti, Ombre corte, 2013, pag. 58.)

venerdì 21 novembre 2014

TTIP: la storia si ripete - Alberto Bagnai

E allora chiediamoci perché? Perché i nostri governanti ci stanno consegnando a questo progetto che ha benefici irrisori, costi potenzialmente elevati, ed è contraddittorio con la retorica dell'integrazione europea.
 E la risposta è semplice: perché l'Unione Economica e Monetaria, che ci viene venduta come il momento più alto di realizzazione della nostra identità europea, di un nostro comune progetto europeo, in realtà è il momento più infimo del nostro asservimento all'ideologia e agli interessi statunitensi. Ne ho parlato tante volte, non ci ritorno, ma quello che va capito è il senso complessivo dell'operazione, che secondo me è questo: gli Usa hanno bisogno di un mercato di sbocco perché, da potenza declinante, stanno perdendo potere di signoraggio sui mercati internazionali. Gli sviluppi delle relazioni bilaterali fra i BRICS, e in particolare la dedollarizzazione degli scambi fra Cina e Russia, se dovessero generalizzarsi, significherebbero per gli Stati Uniti la fine del periodo dello "stampa (dollari) e compra (ovunque nel mondo)". Il "privilegio esorbitante", come lo chiamava Valery Giscard d'Estaing, verrebbe meno in un mondo nel quale il dollaro non fosse l'unico e solo strumento di regolazione delle transazioni sui mercati internazionali. A questo punto gli Stati Uniti non potrebbero permettersi più di essere in deficit strutturale netto verso l'estero. Puoi essere "acquirente di ultima istanza" se stampi a casa tua la moneta nella quale acquisti. Quando le cose non vanno più esattamente così, ti conviene avere una posizione equilibrata negli scambi con l'estero, altrimenti le cose si mettono male. Il +1% di esportazioni nette che il TTIP potrebbe arrecare agli Stati Uniti andrebbe proprio nel senso di ridurre il loro deficit (a costo di un aumento del nostro). L'Europa diventerebbe la periferia, in una nuova edizione del romanzo di centro e periferia, da voi tanto amato, dove gli Usa, chiedendoci l'Ani, ci inonderebbero della loro liquidità (con la quale il resto del mondo progressivamente avrebbe iniziato a nettarsi le terga), allo scopo di farci acquistare i loro simpatici bistecconi transgenici.
 Sappiamo tutti quali siano gli incentivi che le élite periferiche traggono dal vendere i propri subalterni alle élite del centro, quindi di cosa ci stupiamo? Direi di nulla: BAU! Non è un cane: vuol dire business as usual.
 E naturalmente qui sento i ragli dei piddini renziani (ormai tocca distinguere): "eh, ma l'euro ci aiuterebbe a difenderci!".

No!
 Noooo!
  Nooooooooooooo!

lunedì 17 novembre 2014

A quali condizioni può sopravvivere l'Euro? - Vladimiro Giachè

...l’argomento solitamente più usato dai sostenitori dello status quo monetario non è economico, ma politico: la fine dell’euro, si dice, sarebbe una catastrofe politica dalle implicazioni imprevedibili, in quanto segnerebbe una battuta d’arresto del processo d’integrazione europeo. Al riguardo sarebbe fin troppo facile osservare che, se questo argomento fosse preso veramente sul serio da chi lo propugna, esso implicherebbe la messa in campo di ogni sforzo e compromesso possibile da parte di tutti al fine di evitare l’accentuarsi di quella divergenza tra le economie che rappresenta il vero solco (non più soltanto economico) che si sta scavando in Europa e che – come ho provato ad argomentare – costituisce un pericolo mortale per la stessa sopravvivenza della moneta unica. Implicherebbe insomma uno sforzo comune (di creditori e debitori) per il riaggiustamento all’interno dell’Eurozona. Ma non vediamo nulla di questo, e vediamo invece il sempre più chiaro prevalere di dinamiche legate ai rapporti di forza. Il punto più importante è però un altro: è proprio questa configurazione dell’Unione Economica e Monetaria, imperniata su un’area valutaria ben lontana dall’essere ottimale (e che quindi accentua e non riduce le distanze tra i paesi che ne fanno parte), ciò che sta distruggendo la solidarietà intraeuropea e pone a rischio la possibilità stessa di una civile convivenza: innescando un blame game distruttivo e inconcludente sulle cause della crisi, accompagnato da un vero e proprio trionfo di politiche beggar thy neighbor. Chi voglia davvero l’integrazione europea non può pensare che essa si possa conseguire proseguendo su questa strada, di fatto limitandosi a mettere un cappello politico-istituzionale (estremamente pericoloso stanti gli attuali rapporti di forze all’interno dell’unione) a un’unione monetaria così mal congegnata e implementata come l’attuale. L’attuale costituzione economica dell’Europa non deve essere “completata”, deve essere cambiata radicalmente. O abbandonata.

lunedì 10 novembre 2014

La caduta del Muro di Berlino. Intervista a Vladimiro Giacché





http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/storia/24734-la-caduta-del-muro-di-berlino-intervista-a-vladimiro-giacche--mizar-09-11-2014.html

morti - Aristide Bellacicco




I  reduci dal Vietnam (non tutti, però) si svegliavano la notte con  la sensazione precisa di essere diventati qualcun altro. Capitava soprattutto ai più giovani.  Si mettevano a  urlare e cercavano uno specchio per guardarsi, ma ecco, anche così non si capacitavano di essere ancora se stessi.
I genitori o le mogli si alzavano,  gli stavano attorno per rincuorarli.
 “Sono i nervi” dicevano “solo i nervi, tesoro, ora finisce”, e in effetti quella sofferenza  terribile si calmava presto,  come se non fosse che un brutto sogno, ma poi,  durante un’altra notte,  ricompariva nello stesso modo e con la stessa forza.
I medici non ci capivano molto, gli psichiatri sparavano diagnosi fantasiose, e forse il solo che aveva le idee chiare in proposito era  l’anziano barman di Whish, il quale sosteneva che l’omicidio è  una malattia grave che colpisce prima la vittima e poi l’uccisore. 
“Quei ragazzi” diceva “ hanno ammazzato un sacco di gente, laggiù. E’ per questo che ora stanno male.”
La maggior parte di quelli che andavano a bere da Whish sentivano fastidio per l’opinione del barman. La giudicavano sciocca e offensiva. Alcuni  reduci, di quelli che  non avevano disturbi né angosce, una sera gli misero quasi le mani addosso.
“Come ti permetti, stronzo” gli urlarono sul viso “quelli erano lì a difendere il paese, che cazzo c’entra l’omicidio,  ringrazia che sei vecchio.”

venerdì 7 novembre 2014

Corso sul "Capitale" (2) - Riccardo Bellofiore

                                         
 Video del secondo incontro del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).

Primo incontro:
    http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/corso-sul-capitale-1-riccardo-bellofiore.html

Intervista a György Lukács - Rossana Rossanda (1965)

Che cosa è il reale? Domanda inesorabile d’un vecchio moscovita

il manifesto, 28 luglio 1991


Ho incontrato György Lukács a Budapest nel 1965. In quegli anni il Partito comunista ungherese era ancora sotto lo choc del ’56 e si presentava come molto più aperto di altri partiti dell’Europa dell’Est. Potei incontrare Lukács senza grandi difficoltà, ma forse perché ero un membro «autorevole» di un partito fratello. Viveva da solo in un appartamentino a un piano elevato davanti all’hotel Gellert, perché la moglie era morta da poco ed egli si apprestava a pubblicare la sua opera completa e una fondamentale «ontologia».

La conversazione ha preso spunto nelle recenti posizioni critiche ed estetiche di Ernst Fischer.

giovedì 30 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - L’ambivalenza di Lenin - Stefano Garroni


 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.


In una lettera a M. Gorki del 13 novembre 1908, così Lenin si esprime: “La Neue Zeit (il giornale ufficiale del partito socialdemocratico tedesco, SPD) … è indifferente alla filosofia, ( il giornale) non è mai stato un accanito sostenitore del materialismo filosofico, e negli ultimi tempi ha pubblicato, senza fare alcuna riserva, gli empiriocriticisti … Tutte le correnti piccolo-borghesi della socialdemocrazia combattono soprattutto il materialismo filosofico, tendono a Kant, al neokantismo, alla filosofia critica. No, la piccola borghesia non ammette neppure sulla soglia di casa sua la filosofia di cui Engels ha gettato le basi nel suo Antidϋhring[-1] .
In una lettera, di poco precedente e sempre indirizzata a Gorki, si legge: “Il terzo argomento (di grande interesse per il giornale bolscevico Proletari) è la filosofia. So bene che la mia impreparazione in questo campo non mi permette di intervenire pubblicamente. Ma come semplice marxista leggo attentamente l’empiriomonista Bogdanov e gli empiriocritici Bazarov, Lunaciarski, ecc., ed essi spingono tutte le mie simpatie verso Plechanov! … In filosofia egli sostiene una causa giusta. Io sono per il materialismo, contro l’<empirio- …> ecc[-2] .”
Dunque, al termine del 1908 Lenin riconosceva l’improponibilità di un suo pubblico intervento in ambito filosofico a causa della sua impreparazione in materia; tuttavia –e con ‘apparente’ contraddizione- poco dopo lo stesso Lenin pubblicava Materialismo ed empiriocriticismo, dunque, non solo un testo dalle pretese filosofiche, ma addirittura con intenti di messa a punto in ambito di filosofia della scienza !

martedì 28 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - Materialismo dialettico, materialismo non dialettico - Aristide Bellacicco


Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro


“Non abbiamo alcuna prova assolutamente conclusiva né della realtà del mondo esterno né dell’esistenza di noi stessi, ma abbiamo buone prove induttive per entrambe le  assunzioni” 
(Hans Reichenbach, La nascita delle filosofia scientifica)

“Lo spazio assoluto, vale a dire il paletto al quale sarebbe necessario che la terra faccia riferimento per sapere se si muove davvero, non ha esistenza oggettiva” (Henri Poincaré).

“L’unica proprietà della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di essere una realtà obiettiva, di esistere fuori della nostra coscienza” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo.)


Ecco tre affermazioni fatte a varia distanza di tempo l’una dall’altra ma soprattutto, ciò che più ci interessa, a partire da visioni del mondo completamente diverse e forse opposte.
Le prime due sono da ricondursi al progressivo venire alla luce del punto di vista della scienza contemporanea, di cui Poincarè e Reichenbach – quest’ultimo, almeno per un certo periodo, vicino al neopositivismo e al Circolo di Vienna – costituiscono due importanti punti di riferimento; la terza, di Lenin, è contenuta in un suo famoso scritto filosofico: Materialismo ed empiriocriticismo, edito in Russia nel 1908.

Questo libro, scritto nel vivo di una polemica che opponeva Lenin ad importanti esponenti del Partito (in particolare Bogdanov e Lunatcharsky) acquistò nel tempo una decisiva importanza fino a rappresentare, nell’ambito della Terza Internazionale, la principale fonte di ortodossia ideologica, per i Partiti comunisti europei, riguardo al giudizio sulla scienza “borghese” che, in quegli anni, si apriva a teorie come quella della relatività di Einstein e alle nuove vedute sulle particelle atomiche e subatomiche. 

RICERCHE MARXISTE - Momenti del dibattito sulla Nep - Stefano Garroni

Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste-materialismo.html 
                       https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste-lambivalenza-di-lenin.html 
                       https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste.html 

 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.


Dopo la presa del potere e conclusasi la conquista politica dello Stato da parte del proletariato guidato dai comunisti, comincia il compito più difficile: la costruzione della nuova economia. Questa è l’esplicita opinione di Lenin e di Trockij.

Ma Trockij non si limita a ciò, infatti, elenca, anche, quali sono – e in quale ordine – gli ostacoli fondamentali, che nel corso della costruzione economica il proletariato incontra, ovvero: a) il livello di sviluppo delle forze produttive; b) il livello di sviluppo culturale del proletariato; c) la situazione politico-militare, in cui il proletariato si trova, dopo la conquista del potere. Come si vede chiaramente, gli ostacoli indicati da Trockij – per quanto ciò possa dispiacere lo scolasticismo ‘materialistico’ marxista – chiamano in causa, quello che la tradizione hegeliana significava con spirito oggettivo (vale a dire, lo sviluppo culturale, ovvero la capacità che la mente e il corpo umano hanno di svilupparsi nella storia, e di ricavare da ciò una crescente capacità di modificare il patrimonio delle proprie facoltà psico-fisiche e di conseguenza di produrre tecnologie adeguate a trasformare l’ambiente).

sabato 25 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - Lenin: teoria, ideologia, burocrazia - Aristide Bellacicco

 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.

“E’ il peggio che possa capitare al capo di un partito il venir costretto ad assumere il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe che esso rappresenta…quel che esso può fare contrasta con tutta la sua condotta precedente…ciò che esso deve fare non è attuabile.”
F.Engels, “La guerra dei contadini”.

1.
“Con le sue sole forze” scriveva Lenin nella “Lettera di commiato agli operai svizzeri” (26 marzo 1917) “ il proletariato russo non può condurre vittoriosamente a termine la rivoluzione socialista”.
Poco prima, nel medesimo testo, troviamo quest’altra affermazione: “un particolare concorso di circostanze storiche ha fatto del proletariato russo per un certo tempo, forse brevissimo, il combattente d’avanguardia del proletariato rivoluzionario di tutto il mondo…la Russia è un paese contadino. Il socialismo non vi può vincere direttamente ed immediatamente.”
Nonostante questa acuta consapevolezza delle condizioni specifiche della Russia all’indomani della caduta dello zarismo, non più di sei mesi dopo, nell’ottobre, Lenin, in disaccordo con importanti dirigenti del Partito operaio socialdemocratico russo (Kamenev e Zinoviev fra gli altri), spinse risolutamente perché i bolscevichi prendessero senza indugio nelle loro mani il potere statale. 

martedì 21 ottobre 2014

SUL POSTMODERNISMO 21-01-1999 - Stefano Garroni

                                                 
Introduzione. Passaggio dalla dissoluzione dal sistema hegeliano ai due sbocchi: marxista ed esistenzialista. Su un testo di Karl Lowith: da Hegel a Nietzsche. La filosofia oggi che è salutarmente inattuale. Significato del termine ideologia. Perchè parlare di memoria storica è una falsificazione? Viviamo in una nuova epoca o nello stanco prolungarsi di una epoca cominciata nell'800? Umanesimo e rinascimento. Quando nasce l'interesse per l'astrologia, per la magia, la critica contro la ragione scientifica e la concezione della filosofia legata all'intuizione e al sentimento? Quando questi aspetti irrazionalistici divento la componente più forte? Quando e perché questi elementi si rafforzano? Cosa è l'epoca moderna? E su cosa è incentrata?


lunedì 20 ottobre 2014

Corso sul "Il Capitale" di Karl Marx (1) - Riccardo Bellofiore

Da:  Noi Restiamo   -Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-

Video del Primo incontro del ciclo di letture del I libro de"Il Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo):


Tutti gli incontri:  https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL

sabato 18 ottobre 2014

I marxisti e la Grande Guerra - Giorgio Gattei*

*Il Professor Giorgio Gattei insegna Economia all’Università di Bologna.


... la brutta parola “nazione” era già stata pronunciata dal vecchio amico di Marx (Engels) e fu così che nell’agosto del 1914 l’“amor di patrie” (da declinarsi doverosamente al plurale) fece aggio sull’internazionalismo di classe, mentre i confini di Stato si alzarono a delimitare non soltanto l’ambito dei territori in guerra, ma i singoli distaccamenti di lavoratori che si riconoscevano più affini ai propri capitalisti che agli operai stranieri. Era su questa fallimento drammatico dello spirito internazionalista che interveniva Trotskij denunciando, oltre la “nazionalizzazione” degli interessi capitalistici, la nazionalizzazione della stessa coscienza di classe. Sebbene «la politica dell’imperialismo dimostri innanzi tutto che i vecchi Stati nazionali creatisi in Europa in seguito alle rivoluzioni e alle guerre… sono superati e si sono trasformati in catene insopportabili per lo sviluppo ulteriore della forze produttive,… il nazionalismo può continuare a sussistere come fattore culturale, ideologico e psicologico» infettando anche il movimento operaio. A dispetto del fatto che la guerra appena scoppiata avesse subito messo in luce «il suo reale contenuto di una lotta a morte tra Germania ed Inghilterra… per una nuova divisione imperialistica dei popoli della terra» , i partiti socialisti, che «erano partiti nazionali,… sono accorsi in aiuto delle strutture statali conservatrici» trascinando con sé le masse proletarie delle singole nazioni in guerra in un conflitto che per loro era fratricida. Da qui la necessità politica urgente di fargli ritrovare una unità di coscienza che superasse le frontiere statali, il che per Trotskij si poteva guadagnare dando loro «una nuova patria, assai più potente e assai più stabile: gli Stati Uniti d’Europa come fase transitoria verso gli Stati Uniti del Mondo» .
La proposta, portata alla Conferenza delle Sezioni all’Estero del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, venne presa in considerazione, ma solo dopo che anche «il lato economico della questione» fosse stato considerato. A ciò provvide Lenin in una nota dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, stroncandola però senza remissione. «Assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica», gli Stati Uniti d’Europa, quando esaminati dal punto di vista di classe, «dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”», in mancanza di una preventiva rivoluzione socialista non potevano che essere giudicati «o impossibili o reazionari» .

Perché impossibili? Perché in Europa gli Stati in grado di contendersi gli spazi d’esportazione del capitale (Gran Bretagna, Francia, Germania e Russia), finita ormai la “coesistenza pacifica” per l’esaurimento delle “terre libere”, non potevano avere «altro principio di spartizione che la forza… e per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalista non c’è altro mezzo che la guerra» . Per questo, a guerra terminata, sarebbero risorte comunque le rivalità, e non solo tra vincitori e vinti, ma pure tra i vincitori. Questa volta però avrebbe potuto esserci una limitazione alla violenza reciproca provocata dall’entrata in scena del “terzo incomodo” degli Stati Uniti d’America. Per fargli fronte le grandi potenze europee avrebbero potuto convenire di darsi una forma statale comune, ma «sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, questi Stati Uniti d’Europa significherebbero soltanto l’organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell’America» . Per questa ragione, se mai venissero realizzati, essi sarebbero stati reazionari e rispetto ad essi i lavoratori avrebbero dovuto mantenere tutta la propria autonomia di classe. Ma come che fosse, erano queste le ragioni per cui Lenin ne poteva concludere che «la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata» .

Ma, se mai fossero diventati possibili, come muoversi nei loro confronti? Se Lenin nulla ha detto al riguardo, lo si può però arguire per analogia con quanto indicato a proposito del comportamento da tenere verso la guerra,ma rispetto alla quale «una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo» . E quindi altrettanto avrebbe dovuto valere davanti agli Stati Uniti d’Europa, così che «l’unica politica di rottura – non a parole – e di riconoscimento della lotta di classe è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a questo senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta» .

venerdì 17 ottobre 2014

La civiltà coloniale europea tra dialettica e frammenti* - Alessandra Ciattini**

*Articolo già pubblicato in Aperture n° 28/2012 
**Docente di Antropologia religiosa, Università di Roma1, La Sapienza



 
Introduzione

In questo scritto, avvalendomi della riflessione di Aimé Césaire, cerco di delineare in maniera necessariamente non esaustiva il carattere dialettico della civiltà europea moderna e contemporanea, in particolare nella sua fase coloniale, tentando al contempo di individuare alcuni punti deboli del pensiero postmoderno, i quali a mio parere non consentono agli antropologi di cogliere che tale aspetto lacerante fa parte della sua stessa dinamica. Scendendo nel dettaglio, mi sembra che muovendosi sostanzialmente nella dimensione puramente culturalista, i postmoderni (in questa sede mi limito a menzionare James Clifford) non colgano due aspetti: 1) le differenze culturali sono l'altra faccia della diversa collocazione nell'ordine sociale capitalistico, anche se non sono riducibili alla mera dimensione economica; 2) l'accento posto sulle differenze spinge il postmodernismo a negare la validità di un punto di raccordo, che consenta di unificare in una visione d'insieme la dinamica della società capitalistica, nella quale i diversi segmenti trovino ciò che effettivamente li accomuna. Da ciò deriva la visione della realtà sociale come un coacervo eterogeneo di frammenti irrelati che è impossibile ricomporre in una visione d'insieme.

venerdì 10 ottobre 2014

David Harvey e l’accumulazione per espropriazione


Se si comincia a guardare alle pratiche di appropriazione di valore, si vede che entrano in gioco metodi extra-economici (violenza, esercizio del potere ecc.) che Marx ha analizzato nel I libro del Capitale parlando dell’accumulazione originaria. L’analisi marxiana dell’accumulazione originaria è quella della nascita della mano d’opera salariata, oggi l’analisi riguarda maggiormente il modo in cui il capitalismo recupera valore nella circolazione del flusso.
le modalità stesse attraverso cui si svolge l’esercizio dell’accumulazione: la “spoliazione”, ovvero un atto di mera “forza” o “violenza” reso possibile dal potere di cui dispone nuovamente la classe capitalista dominante. Questo primo significato della nozione ci dà una chiave importante per comprendere il tipo di lettura che ci propone Harvey delle dinamiche dell’attuale capitale globale: il ritorno dei processi di “accumulazione per spoliazione” al centro della riproduzione del capitale sta qui a indicare il ritorno della “violenza” (della coercizione extra-economica, ma si può anche dire di una “logica estrattiva”) nei dispositivi di sfruttamento capitalistici.

il capitalismo non si espande più attraverso un “dominio mediante egemonia”, un’espressione gramsciana ricorrente nei testi di Harvey e che avvicina la sua prospettiva a quella di Giovanni Arrighi, bensì anche e soprattutto, visto il divenire sempre più finanziario e improntato alla rendita del capitale, un “dominio mediante coercizione”.
Harvey propone la sua espressione come un necessario aggiornamento di quella di “accumulazione originaria” di Marx. A suo parere, l’espressione di Marx è troppo connotata da un’impronta, per così dire, storica. Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel considerare “l’accumulazione fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo modalità extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di appartenente al passato o agli albori del capitalismo,

poiché i processi di accumulazione originaria sono stati una costante della geografia storica del capitale”.
Dal suo punto di vista, dunque, è irragionevole definire dei processi economici tuttora in atto come “originari” o “primitivi”, ed è proprio per questo che egli propone l’idea di “accumulazione per spoliazione” al posto di “accumulazione originaria”.

l’espressione “accumulazione per spoliazione”, come anticipato, sembra enfatizzare più i “mezzi” dell’accumulazione originaria che non quello che per Marx era il suo fine essenziale. E’ l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di produzione, di riduzione (o di assoggettamento) del lavoro vivo in forza lavoro, ciò di cui deve assicurarsi ogni giorno il capitale, ed è qui che risiede la sua violenza costante e costitutiva. Se, come sostiene Harvey, i processi di accumulazione originaria non sono qualcosa che appartiene unicamente al passato del capitale è proprio perché il capitale deve ripetere questa “separazione originaria” ogni giorno e attraverso ogni mezzo necessario. Questa violenza – l’addomesticamento o imbrigliamento della forza lavoro – è stato da sempre il motore stesso della sua espansione e riproduzione: tanto dentro come fuori il mondo della “riproduzione allargata”. Si tratta di una dimensione del discorso marxiano lasciata piuttosto in ombra dalla prospettiva di Harvey: e questa marginalizzazione finisce per indebolire alla base le potenzialità di “accumulazione per spoliazione” in quanto significante chiave per la comprensione delle dinamiche dell’attuale comando capitalistico. (G. Giudici)                                    
http://gabriellagiudici.it/david-harvey-a-passignano-perugia/

 "Har­vey sostiene che le con­trad­di­zioni siano imma­nenti al capi­ta­li­smo, ne hanno pun­teg­giato lo svi­luppo, rap­pre­sen­tan­done un fat­tore dina­mico. Per affron­tare le con­trad­di­zioni il capi­tale, cioè un pre­ciso rap­porto sociale di pro­du­zione, ha fatto leva sia su fat­tori interni che esterni. Ha cioè modi­fi­cato ognuno dei tre grandi momenti di rea­liz­za­zione del pro­fitto: la pro­du­zione, il con­sumo e la cir­co­la­zione delle merci. Ha poi fatto leva sulla finanza lad­dove si pre­sen­tava un pro­blema di rea­liz­za­zione del pro­fitto per sovrap­pro­du­zione di merci, oppure ha favo­rito il cre­dito al con­sumo, met­tendo così in conto l’indebitamento sia delle imprese che dei sin­goli. La finanza ha inol­tre pro­dotto denaro a mezzo denaro. E se que­sti sono sto­ri­ca­mente i fat­tori interni, quelli esterni sono da cer­care nella tra­sfor­ma­zione per via poli­tica di aspetti del vivere in società in set­tori capi­ta­li­stici." (B. Vecchi)
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/4152-benedetto-vecchi-le-contraddizioni-di-david-harvey.html

mercoledì 8 ottobre 2014

La rivincita del capitale: 40 anni di RDT, 25 anni dopo - Vladimiro Giacché



"Negli anni Ottanta la produzione industriale per abitante era superiore a quella di tutti gli altri Paesi dell'Est (quasi doppia di quella dell'Ungheria e più che doppia di quella polacca). Prestazioni e servizi sociali, d'altra parte, erano molto più estesi che ad Ovest. Gli asili ospitavano più di 9 bambini in età prescolare su 10. C'era la piena occupazione, anche femminile: lavorava il 92 % delle donne in età da lavoro. La scuola era gratuita e garantita a tutti.

Il 7 ottobre 1989 la RDT era il paese economicamente più avanzato tra i paesi dell'Europa Orientale. Aveva 20 miliardi di marchi di debiti con l'estero, ma era tutt'altro che "in bancarotta” (“pleite”), come invece si continua a sostenere (20 miliardi di marchi sono una cifra ridicola se confrontata con i debiti pubblici odierni degli Stati europei, Germania inclusa).

Dalla fine dell'89 alla primavera 1992 furono distrutti 3,7 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato. E tra il 1992 e il 2009 è andato perduto un altro milione e mezzo di posti di lavoro a tempo pieno, il 27% del totale. Una parte di essi si è trasformata in posti di lavoro a part-time e sottopagati. Un’altra parte è andata a infoltire le schiere dei disoccupati. Oggi nella ex Germania Est vive un sesto della popolazione della Germania, ma la metà dei disoccupati. Nelle famiglie dell’Est c’è una percentuale di disoccupati doppia rispetto all’Ovest. E secondo uno studio della società di consulenza PricewaterhouseCoopers riportato il 27 agosto di quest'anno dalla "Thüringer Allgemeine" il numero degli occupati ad Est diminuirà di un altro 10 per cento entro il 2030.

La verità l'ha detta Joachim Ragnitz, dell'Ifo-Institut di Dresda, il 4 maggio scorso, in una sede insospettabile come il quotidiano "Welt am Sonntag": “L’Est non riuscirà in tempi prevedibili ad agganciare l’Ovest”. In tedesco la formulazione per “mancare l’aggancio” è “den Anschluss nicht schaffen”. Ma “Anschluss” è anche il termine che indica l’“annessione”. Il mancato “Anschluss” economico è il prezzo pagato dai cittadini dell’Est per il rapido “Anschluss” politico della RDT alla RFT."

martedì 7 ottobre 2014

Postdemocrazia e responsabilità della sinistra italiana - Stefano G. Azzarà



"...abbiamo finito per pensare il mondo con i pensieri che le classi dominanti ci hanno messo in testa, e a nominarlo con le loro parole."

"...sembra che Bertinotti ignori completamente il dibattito tra Togliatti, Della Volpe e Bobbio, nel corso del quale il segretario comunista aveva ribadito come per i comunisti le libertà individuali fossero altrettanto importanti dei diritti economico-sociali. Aggiungerei che sembra ignorare lo stesso Marx, il quale considera le conquiste del liberalismo come un presupposto, come un punto di partenza del quale denunciare e oltrepassare i limiti, ovvero le clausole d'esclusione nei confronti dei lavoratori manuali o dei sottouomini delle colonie, in direzione di una universalizzazione della libertà. Infine, sembra ignorare anche Gramsci, il quale sosteneva che il programma liberale integrale è diventato il programma minimo dei socialisti."


"La mia impressione è che il ciclo 1968-77 abbia molto a che fare con tutto ciò. È in quegli anni che si diffonde l'atteggiamento postmoderno nei confronti della storia. Perché la catastrofe del Novecento? Non era forse il progetto emancipativo moderno, per via della sua presunzione universalistica, intrinsecamente sbagliato? Non è il primato della ragione inevitabilmente totalitario, visto che si tratta di mettere le braghe al mondo e di imporre alla realtà un decorso artificiale anche a costo di prenderla a martellate se si ribella? Non è meglio concentrarsi sulle libertà individuali, sganciando la libertà di ciascuno da quella di tutti e spostandola dal terreno politico a quello della vita privata? Da qui la denuncia dell'idea di progresso e del prometeismo moderno, del quale il marxismo e il capitalismo sono solo due varianti intercambiabili (un'idea del vecchio Heidegger, a guardar bene). Se questo o quello pari sono, però, in fondo meglio vivere sotto il capitalismo, perché almeno ci si diverte di più."

http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/4130-stefano-g-azzara-postdemocrazia-e-responsabilita-della-sinistra-italiana.html

http://nblo.gs/10tviF