
In realtà, Heidegger – nella trattazione che questa frase contiene – non ha affatto intenzioni denigratorie nei confronti della scienza. Se mai, si tratta – come vedremo – di una delimitazione: una definizione dell’ambito entro il quale, secondo il filosofo, ama muoversi la scienza, descrivendo quei confini naturali che è poi la scienza stessa a darsi.
Heidegger, anzi, riflette se questi comodi confini siano giustificati, e sulle ragioni per le quali la scienza, invece, dovrebbe pensare, o perlomeno essere aiutata a farlo.
Sotteso a questa affermazione vi è in realtà il dibattuto concetto di neutralità della scienza. Scienza che secondo alcuni – come ad esempio lo scienziato atomico Werner Heisenberg [D. C. CASSIDY, Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 126] dovrebbe occuparsi della ricerca, dell’avanzare della conoscenza tecnica del genere umano, del “progresso”, applicando il metodo scientifico, che tanti successi e miglioramenti materiali ha apparentemente portato all’umanità negli ultimi secoli.
L’indubbio successo del metodo scientifico, e dello “spingere avanti la frontiera della conoscenza”, fraintesa essere quella esclusivamente materiale, ha portato al nascere di una sorta di franchigia, quasi un territorio franco: la ricerca, la scienza, si occupano di acquisire nuove conoscenze, che risulteranno comunque – assommate – in un progresso, contribuiranno in qualche modo al “Progresso”, quello con la P maiuscola: dovrebbero quindi essere libere da legacci ideologici ed impacci morali?
Spingendo all’estremo questo ragionamento scientista, così comune nella concezione di molti scienziati applicati, ogni scoperta, ogni nuova frontiera della “conoscenza” aperta, valgono di per sé.