La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
giovedì 20 ottobre 2016
mercoledì 19 ottobre 2016
martedì 18 ottobre 2016
Ventotene, l’Europa e il postmoderno*- Giovanna Cracco
*Da: http://www.rivistapaginauno.it/
“La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre
esigenze, dovrà essere socialista,” scrive Spinelli, “cioè dovrà proporsi
l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di
condizioni più umane di vita”

Nell’epoca postmoderna le grandi narrazioni universali
finalistiche e collettive che avevano legittimato il legame sociale non sono
più credibili perché hanno tradito le promesse
Imprescindibile Lyotard, quando si parla di postmodernismo.
Ne sono state date definizioni plurime, ma al filosofo francese si risale per
la prima: “Semplificando al massimo, possiamo considerare ‘postmoderna’
l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, scrive nel 1979 ne La
condizione postmoderna. Un’epoca che per Lyotard coincide con il
capitalismo avanzato e l’“informatizzazione della società”, cambiamenti
tecnologici che incidendo fortemente sul processo di ricerca e di trasmissione
delle conoscenze, generano la trasformazione del Sapere in merce; già l’èra
industriale ne aveva fatto forza produttiva, questo è un passaggio ulteriore.
“Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato
per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per
esse-re scambiato. Cessa di essere fine a se stesso, perde il proprio ‘valore
d’uso’.” (1)
In questa fase storica, le grandi narrazioni universali,
finalistiche e collettive che nella precedente epoca moderna avevano
legittimato il legame sociale – illuminismo, idealismo e marxismo, ma anche il
positivismo scientifico che si è accompagnato al capitalismo, esaltando la
tecnologia come motore dello sviluppo economico e del benessere
delle società – non sono più credibili, perché hanno tradito le promesse,
e l’agire dell’Uomo non appare più quel processo di emancipazione verso una
civiltà globale sempre più avanzata, libera ed egualitaria. La Storia stessa ha
delegittimato le metanarrazioni:
lunedì 17 ottobre 2016
domenica 16 ottobre 2016
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 - Friedrich Engels, Introduzione (1895)
[...]
Dopo la sconfitta del 1849 non condividemmo in nessun modo
le illusioni della democrazia volgare raccolta attorno ai governi provvisori
futuri in partibus. Questa contava su una vittoria rapida, decisiva una volta
per tutte, del "popolo" sugli "oppressori"; noi su una
lotta lunga, dopo l'eliminazione degli "oppressori", tra gli elementi
contraddittori che si celavano precisamente in questo "popolo". La
democrazia volgare aspettava la nuova esplosione dall'oggi al domani; noi
dichiaravamo già nell'autunno 1850 che almeno il primo capitolo del periodo
rivoluzionario era chiuso e che non vi era da aspettarsi nulla sino allo
scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per questo fummo messi al bando
come traditori della rivoluzione da quegli stessi che in seguito fecero tutti,
quasi senza eccezione, la pace con Bismarck, nella misura in cui Bismarck trovò
che ne valeva la pena.
Ma la storia ha dato torto anche a noi; ha rivelato che la
nostra concezione d'allora era una illusione. La storia è andata anche più
lontano; essa non ha soltanto demolito il nostro errore di quel tempo; essa ha
pure sconvolto le condizioni in cui il proletariato ha da lottare. Il modo di
combattere del 1848 è oggi sotto tutti gli aspetti antiquato, e questo è un
punto che in questa occasione merita di essere esaminato più da vicino.
Tutte le passate rivoluzioni hanno condotto alla
sostituzione del dominio di una classe con quello di un'altra; ma sinora tutte
le classi dominanti erano soltanto piccole minoranze rispetto alla massa del
popolo dominata. Così una minoranza dominante veniva rovesciata, un'altra
minoranza prendeva il suo posto al timone dello Stato, e rimodellava le
istituzioni politiche secondo i propri interessi. E ogni volta si trattava di
quel gruppo di minoranza che le condizioni dello sviluppo economico rendevano
atto e chiamavano al potere, e appunto per questo e soltanto per questo
avveniva che la maggioranza dominata partecipava al rivolgimento schierandosi a
favore di quella minoranza, oppure si adattava tranquillamente al rivolgimento
stesso. Ma se prescindiamo dal contenuto concreto di ogni caso, la forma comune
di tutte quelle rivoluzioni consisteva nel fatto che esse erano tutte
rivoluzioni di minoranze. Anche quando la maggioranza prendeva in esse una
parte attiva, lo faceva soltanto, coscientemente o no, al servizio di una
minoranza; questo fatto però, o anche solo il fatto dell'atteggiamento passivo
e della mancanza di resistenza della maggioranza, dava alla minoranza
l'apparenza di essere rappresentante di tutto il popolo.
sabato 15 ottobre 2016
Riflessioni su Foucault*- Paolo Di Remigio
La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo;
anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una
svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno
prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande
merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de
France1 è
di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la
doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni
’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e
narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe
riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori
dell'Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l'espressione «economia sociale
di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in
polemica con l'economia keynesiana; l'adorazione ordo-liberale della
concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della
natura fortemente competitivadell’Unione Europea2;
la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione inoccupabilità dei
lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo
americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della
competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare
dell'individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua
attività, qualunque essa sia, un'impresa3.
Non è il caso di riassumere il lavoro di Foucault: meglio leggerlo,
anzi studiarlo, per trarne il quadro dell'ideologia neoliberale nella sua
ossessiva pervasività; è invece il caso di chiedersi perché mai il libro non
sia diventato né un segnale d'allarme né un'arma di lotta politica. La risposta
può essere anticipata subito: Foucault condivide con il neoliberalismo e con il
marxismo il suo presupposto più interno: l'identità di libertà e natura,
ossia la concezione che la libertà sia una proprietà originaria dell'individuo fuori dal
contesto politico, determinato cioè come naturale. Perché la sua indagine
avesse risonanza politica, Foucault avrebbe dovuto esporre il neoliberalismo
confrontandosi a fondo con la natura dello Stato, mettendo in questione non
solo il liberalismo, ma lo stesso Marx, risalendo quindi a Hegel.
venerdì 14 ottobre 2016
OTTAVA BOLGIA INFERNALE*- Gianfranco Pala
Ottavo cerchio dell’inferno dantesco in
fondo a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino. Poi la
strada non la trovi da te, sprofonda all’inferno, che però non c’è.
Solo un <buzzurro> {*} come Salvini che nella sua
ignoranza non sa nemmeno l’italiano, giacché “traditore” è chi consegna libri e
pensieri ai loro avversarî e il fellone che ha commesso tradimento nei
confronti della
patria;
della causa,o dei compari di una lotta
merita una dura punizione, fino alla morte, o per dirla con la severità di Dante “se le mie parole esser
dien seme, che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo”. Ma i libri o i pensieri
di Carlo Azeglio Ciampi per chi e di chi erano? Certamente non per
proletari e comunisti, ma per banchieri e capitalisti internazionali, cui
semmai gli italiani si fossero omologati. E parimenti ciò è vero altresì per il
silente <convitato-di-pietra> Giorgio Napolitano, che qui non dovrebbe
entrare direttamente in gioco (ma che, come si dirà, <tomo tomo, cacchio
cacchio> si è dedicato e plasmato sugli stessi padroni e opposto ai medesimi
nemici). Quindi è palese l’ipocrisia del legaiolo – con il suo <cesso di
anima>, per dirla come il diavolo di Altàn – di manifestare “preghiera e
cordoglio” per la non prematura morte di Ciampi; lo storico e politico
analfabetismo del disumano guitto
<ruspista> lombardo ne delinea le magnifiche sorti, e regressive. Ossia
definire Ciampi “uno dei traditori dell’Italia e degli italiani, come
Napolitano, Prodi e Monti” non sono “parole choc,
a caldo”, di Matteo
Salvini sulla morte del presidente emerito della repubblica, il
quale a dire del legaiolo “si porta sulla coscienza il disastro di 50 milioni
di italiani, e come per Napolitano è uno da processare come traditore”. E neppure
sono “parole miserevoli” come esclamano le anime-benintenzionate del Pd, anche
dell’asinistra di coloro-che-lastricano-le-vie-dell’inferno. Poiché costoro
fingono di non sapere mentre Salvini – è chiaro – non sa proprio chi siano
realmente, da decenni, né Ciampi né Napolitano e via con coloro che sempre <osservano-gli-ordini-superiori>.
{* per spiegare alcuni termini, per chi non lo sapesse, non è male apprendere
che buzzurro viene dal
tedesco antico Butzen (moderno Putzer), in linguaggio popolare riferito agli immigrati
che decisero di fermarsi tra l’Esquilino e la zona ex Macao del rione Castro
pretorio, come ancora oggi; allora erano circa il 10% della popolazione romana
dell’epoca. Vennero perciò chiamati spazzacamini; caldarrostari, ambulanti
castagnari, montanari alpini semianalfabeti che nella stagione autunnale delle
castagne scendono in pianura, per venderle fresche o arrostite (per cui preliminarmente
pulivano le canne fumarie) e pulitori in genere; in Italia centrale equivale,
estensivamente in senso figurato, a termini dialettali quali
<ciafrujoni>, confusionari, casinisti, pasticcioni, ingarbugliatori, che
confondono le idee; a parti invertite, è il corrispettivo dell’epiteto terroni che i <nordici> affibbiano
con violenza verbale analoga all’uso di <buzzurro>, ma provocatore di
doppiosenso rivolto ai <sudici> [non si dimentichi che
<tombini-di-ghisa> uscendo coperto di merda dalle fogne, nel 2009 a
Pontida; cantò stonando "senti che puzza, scappano anche i cani, sono
arrivati i napoletani"; e adesso, per catturare un pugno di voti ... <sudici>,
dopo la felpa per <lampedusa> si è fatto sùbito stampare un’altra felpa con
su scritto <amatrice>!!], La parola <terroni> (e varianti
dialettali) proviene dallo spagnolo terrones
(zolle di terra, zappate dai <contadini>),
che in un più remoto passato in Toscana non era riferita ai <lavoratori
agricoli> servi della gleba, ma invece riguardava originariamente una
disputa tutta interna alla classe padronale tra i <proprietari terrieri>,
<latifondisti>, che con la terra avevano solo un <rapporto di
proprietà> non avendola mai lavorata, zappata, e i <bottegai> che si
ritevano dominati e vessati da quegli altri, proprietari privati della natura}.
giovedì 13 ottobre 2016
Studio su Hegel: Filosofia, Storia, Etica - Stefano Garroni
[5] - La filosofia in Hegel e il Weltbild in Holz
(AAVV, 7376: 266s) - nota che Biasutti sottolinea la necessità, per la
filosofia dialettica, di mettere in questione l’evidenza.
[5.1] - L’oggetto della filosofia -giusta AAVV,
7376: 267a- sembra una generalizzazione del <progetto cartesiano>, di cui
in des.doc.
[5.2] - Filosofia e storia -la filosofia, che vien
sempre dopo. (AAVV, 7376: 284s) -fino a che punto questa posizione dello
Hegel maturo si contrappone a quella del giovane Marx, che addirittura legifera
sul futuro della filosofia, indicandole la necessità di svolgere il ruolo di
eredità, che il proletariato dovrà assumersi? E’ proprio vero che, per Hegel,
la filosofia non ha alcun ruolo da svolgere nel presente? Comunque, questo è in
modo di presentarsi del paradosso di
Marx.
[5.3] - Hegel contro Reinhold, per la concezione
del <progresso>; inoltre, chiarissima l’attenzione di Hegel alla
<diversità> dei costrutti storici -qui, si tratta di filosofie. (AAVV,
7376: 287).
[5.4] - Secondo Hegel, “ogni autentica filosofia
conserva un permanente nucleo di verità, anche quando è caduta in desuetudine
la sua forma originaria...” (AAVV, 7376: 307).
mercoledì 12 ottobre 2016
Il tema del lavoro secondo Karl Marx*- Giulio Di Donato
Il lavoro dovrebbe essere, agli occhi di Marx,
“manifestazione di libertà”, “oggettivazione/realizzazione del soggetto”,
“libertà reale”. In tutte le forme storiche succedutesi, il lavoro ha però
sempre avuto (quale lavoro schiavistico, servile, salariato) un carattere
“repellente”, è stato sempre “lavoro coercitivo esterno”. In altre parole, non
si sono mai create le condizioni soggettive ed oggettive che gli permettessero
di diventare “attraente”, di costituire “l’autorealizzazione dell’individuo”.
[1]
Perché si ritorni alla sua vera e profonda essenza, deve
cessare di essere lavoro “antitetico” e divenire “libero”. Ciò non significa,
ribadisce Marx, che esso possa diventare, come vorrebbe Fourier, un mero gioco;
un “lavoro realmente libero, per es. comporre, è al tempo stesso la cosa
maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia”.
E tanto più serio e intensivo sarà il lavoro quando esso diventerà veramente
“universale”, cioè processo di produzione consapevolmente istituito e
controllato dagli uomini “come attività regolatrice di tutte le forze
naturali”. [2]
Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido,
delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che
l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i
suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo
universale; produce solo sotto l’imperio del bisogno fisico immediato, mentre
l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto
quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo
riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente
al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo
prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la natura e il bisogno della
specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni
specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto;
quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza. [3]
martedì 11 ottobre 2016
Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano*- Cristina Corradi
* Questo testo è già apparso in P. P. Poggio (a cura), L’ALTRONOVECENTO.
COMUNISMO ERETICO E PENSIERO CRITICO, vol. II, IL SISTEMA E I
MOVIMENTI- EUROPA 1945-1989, Fondazione L. Micheletti-Jaca Book, Milano
2011, pp. 223-247. Si ringrazia la Fondazione Micheletti e l’editore. http://www.consecutio.org/
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=09CqeHs4W44
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=09CqeHs4W44

(Il saggio mira a distinguere
i profili teorici presenti all’interno dell’operaismo, la corrente del marxismo
italiano che, negli anni ’60, si propone quale alternativa rivoluzionaria alla
strategia togliattiana della via italiana al socialismo e alla politica
culturale del Pci che adotta una problematica democratica, antifascista e
populista in luogo di una problematica socialista, marxista, operaia. La
sociologia politica di Raniero Panzieri e del gruppo dei “Quaderni rossi”, che
fa riferimento al Capitale e ai rapporti sociali di produzione per analizzare
il capitalismo fordista-keynesiano, mette a fuoco l’intreccio perverso tra
razionalità tecnocratica e illusioni democratiche, rifiuta la concezione
progressista della storia e la visione acritica del progresso tecnologico,
mantiene un saldo ancoraggio alla teoria marxiana del valore. La rivoluzione
copernicana del gruppo di “Classe operaia” si propone come operazione di
rottura più che di rivitalizzazione del marxismo: il pensiero operaio di Mario
Tronti segna il passaggio da una prospettiva neomarxista ad una filosofia della
classe operaia, la cui particolare tonalità culturale deriva dall’incrocio con
la Nietzsche-Heidegger Renaissance e dall’uso di un dispositivo
attivistico che trasforma il rapporto di produzione nel prodotto di un’attività
soggettiva. Negli anni ’70, mentre il paradigma dell’autonomia del politico
accompagna il processo di riconversione post-marxista del ceto politico del
Pci, la teoria dell’operaio sociale di Negri, che incontra il movimento del
’77, esplicita la sua vocazione oltremarxiana aprendosi alla filosofia francese
della differenza e anticipando le tesi del postmoderno e del postfordismo)
L’operaismo è una corrente del marxismo italiano che nasce
in risposta alla crisi interna e internazionale del movimento operaio esplosa
nel ’56. Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri sono i teorici più noti
della corrente che, formatasi negli anni Sessanta intorno alle riviste
“Quaderni rossi” e “Classe operaia”, contribuisce in misura rilevante alla
formazione di una nuova sinistra, protagonista della lunga stagione di lotte
operaie e studentesche che si susseguono dal secondo biennio rosso ’68-’69 al
movimento del ’77 1. L’analisi della
composizione di classe, l’uso dell’inchiesta operaia e della conricerca come
strumenti di lavoro politico, la lettura della critica dell’economia politica
come scienza dell’antagonismo di classe, una storiografia innovativa delle
lotte operaie sono considerati i suoi contributi più significativi 2
lunedì 10 ottobre 2016
domenica 9 ottobre 2016
Ranking e lotta di classe*- Roberto Ciccarelli

Un paio di settimane fa ho visto la puntata Il
pianeta dei robot di Presa diretta, una delle poche
trasmissioni Tv che fanno inchiesta in Italia. Bella trasmissione, e se siete
interessati potete rivederla qui. Peccato che abbia accreditato la solita versione
apocalittica della cosiddetta “ideologia californiana”.
Per Richard Barbrook e Andy Cameron, autori
venti anni fa dell’omonimo libro, la cosiddetta Californian
Ideology è quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale
yuppie su cui fonda l’intero immaginario della Silicon Valley. Questo amalgama
degli opposti si rispecchia nella fede indiscussa nel potenziale emancipatorio
delle nuove tecnologie dell’informazione, nella credenza che la robotica e
l’automazione renderanno inutile la forza lavoro, e nella previsione che con la
cancellazione di milioni di posti di lavoro (dai trasporti alla logistica, fino
alla sanità e tutto il resto) non ci sarà modo di guadagnare da un’occupazione. A meno che non ci sia un reddito di base universale.
In questa miscela di cibernetica, economia liberista e
controcultura libertaria, frutto della bizzarra fusione tra la cultura
bohémienne di San Francisco e la nuova industria hi-tech, in effetti il reddito
di base è un tema di discussione; per Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, autori
de La nuova rivoluzione delle macchine, Google,
Facebook, Apple e gli altri giganti dovrebbero inoltre pagare più tasse,
argomento attualissimo anche in Europa dopo lo scontro tra la Commissione Ue e
il governo irlandese sui maxi-sconti fiscali garantiti per anni alla Apple. Ma
nel dibattito reale della Silicon Valley, le cose non stanno proprio così.
I “nuovi feudatari” della rete, accettano sì l’idea di un
reddito base universale, ma a condizione che non sia la Silicon Valley a pagare
il conto: è lo Stato che dovrebbe cancellare ogni forma di aiuto economico pubblico
per convertire i fondi in assegni da dare direttamente ai privati.
Nell’illusione di diventare un imprenditore tecnologico di successo, uno “startupperoe”, lo Stato diventa quindi l’erogatore di
assegni guadagnati sulle piattaforme del capitalismo interconnesso: il welfare
sarà il supporto sociale delle nuove agenzie di servizi online, e i diritti
sociali verranno legati alla partecipazione del consumatore che produce
informazione (prosumer) ai ritmi della macchina.
Leggi tutto: http://www.prismomag.com/ranking-lotta-di-classe/
sabato 8 ottobre 2016
Pedro de Alcantara Figueira: NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA - Descartes e Il Materialismo Rivoluzionario*- Maurizio Brignoli
*Da: http://www.contraddizione.it/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/cartesio-d-henrich-p-ricoeur-e-lojacono.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/cartesio-d-henrich-p-ricoeur-e-lojacono.html

C’è una questione – che potremmo chiamare la
questione per eccellenza – che il lettore comune si aspetta sempre di
incontrare nelle opere dei filosofi e nei libri che parlano di loro: qual è il
significato della nostra esistenza?
A differenza di ciò che pensano i filosofi
di professione, ho ritenuto che Descartes avesse una risposta molto semplice e
del tutto convincente a tale domanda. Non ho fatto lo stesso cammino che tali
filosofi percorrono nor-malmente. Non ho costretto il lettore a fare
elucubrazioni sul più che famoso: Penso, dunque sono. Non ho usato la terminologia
abituale – metafisica, epistemologia e altre parole ricercate – il cui
significato generalmente il lettore non comprende bene, ma non ha il coraggio
di ammetterlo. È bene ricordare che Descartes raramente usa termini filosofici,
di cui non aveva bisogno per farsi capire, e che, anzi, ripudiava. Li
identificava con coloro – che chiamava dotti o filosofi – cui non importava
affatto di essere capiti, tranne che dai loro pari. L’opinione che Descartes
aveva di tali filosofi – gli scolastici – è che trattavano solo di cose
inutili, la prima delle quali era la loro stessa filosofia.
È su questo punto – su cui vorrei si
prestasse particolare attenzione – che Descartes dà la sua risposta alla questione
per eccellenza. E lo fa in una maniera molto semplice, senza ricorrere a
nessuna terminologia che comunemente si considera filosofica. Lo fa in una
maniera che si oppone totalmente ai canoni stabiliti dal sapere costituito. Semplicemente
afferma che è necessario fare una filosofia che sia utile all’umanità, e che
abbia come principio di verifica della verità il criterio dell’utilità.
Descartes dà questa risposta proprio perché
aveva sempre in mente, potremmo perfino dire, ossessivamente, la ricerca del
perfezionamento della vita umana. Quale sarebbe allora, per lui, il significato
della vita? Nelle condizioni in cui si trovava l’uomo europeo, alle prese con
tutte le difficoltà che un’epoca di trasformazioni profonde impone a tutti, il
significato della vita, per lui, era qualcosa che solo la lotta contro il
passato sarebbe stata in grado di definire.
Descartes – il Descartes che qui presentiamo
al lettore – prese partito per questa lotta.
È in questo modo che vorremmo che il lettore
leggesse il nostro libro su una delle glorie maggiori della Francia e su un
uomo che dedicò integralmente la sua vita al bene dell’umanità, in un momento
in cui la sua esistenza come società organizzata correva un grande pericolo."
(Pedro de Alcântara Figueira)
INTRODUZIONE
serenamente e con
rispetto chi
come moneta infida
pesa la vostra parola! […]
Oh bello lo scuoter
del capo
su verità
incontestabili! […]
Ma d’ogni dubbio il
più bello
è quando coloro che
sono
senza fede, senza
forza, levano il capo e
alla forza dei loro
oppressori
non credono più!
[Bertolt Brecht, Lode
del dubbio, 1932]
venerdì 7 ottobre 2016
Legge elettorale, Costituzione, Democrazia*- Un discorso di Palmiro Togliatti
*(dal discorso pronunciato alla Camera l’8 dicembre
1952, in cui furono avanzate le eccezioni di incostituzionalità avverso la
legge elettorale presentata dal ministro degli Interni Mario Scelba, poi nota
come legge “truffa”). Ripubblicato in Luciano Canfora "La trappola. Il vero volto del maggioritario"
Sellerio https://www.facebook.com/maurizio.bosco.18/notes
L’unico precedente è quello della legge Acerbo. E non tocco
ancora la sostanza; tocco soltanto il modo come si è discusso. Quando venne
approntata la legge Depretis per la introduzione dello scrutinio di lista e
l’allargamento del suffragio, la presentazione fu della fine del maggio 1880,
l’approvazione fu nel mese di giugno 1881. La legge venne in Parlamento nel
mese di dicembre 1880, dopo sette mesi dalla presentazione.
La legge Giolitti sull’allargamento del suffragio, sino a
renderlo praticamente universale, presentata nel giugno 1911, venne rinviata
alla discussione in aula nel maggio 1912.
Sulla legge Nitti, che confermò il suffragio universale e
introdusse lo scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale nel 1019, le
discussioni incominciarono nell’aula nel novembre del 1918, e nelle Commissioni
si discusse dal marzo a luglio 1919.
Il solo precedente è dunque quello della legge Acerbo,
discussa in un numero di sedute che non so nemmeno se fosse inferiore a quelle
che sono state tenute dalla nostra prima Commissione per discutere la legge
attuale.
E perché, onorevole Presidente, faccio questa osservazione?
Perché l’eccezionalità del dibattito rivela l’eccezionalità del contenuto e la
consapevolezza precisa, nel Governo e in coloro che lo sostengono, di questa
eccezionalità, la quale deriva dal fatto che si tratta di una legge che tocca e
lede l’ordinamento costituzionale dello Stato. Ci troviamo di fronte, cioè, a
una legge eccezionale. Questa è la prima cosa di cui occorre che il paese si renda
consapevole. E del resto voi stessi state compiendo atti tali che non avranno
altro risultato che di rendere consapevole il paese dell’eccezionalità della
misura che proponete.
Qui mi si permetta dunque di esprimere ancora una volta una
vivace protesta per il modo come nella Commissione il dibattito si è svolto,
senza tra l’altro che gli oppositori della legge avessero la soddisfazione – e
non si tratta di un piacere ma di un diritto, - di ascoltare una spiegazione
ragionata da parte del Governo, del presentatore di questa legge che è il
ministro dell’interno, del perché essa è costruita in questo modo.
Per un'etica del riconoscimento*- Paolo Bartolini intervista Roberto Finelli
*Da: http://megachip.globalist.it/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/11/trame-del-riconoscimento-in-hegel.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/un-parricidio-compiuto-un-parricidio-al.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/11/trame-del-riconoscimento-in-hegel.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/un-parricidio-compiuto-un-parricidio-al.html
Proverei a rispondere a questa prima, classica,
domanda su ciò che è vivo e ciò che è morto nell'opera di Karl Marx attraverso
il riferimento ai due titoli dei miei libri che scandiscono i miei studi sul
pensiero marxiano: Un parricidio mancato (Boringhieri) del 2005 e Un parricidio compiuto(Jaca Book) del 2014 (entrambi
già impliciti e anticipati nel mio libro più sinteticamente generale su Marx
del 1987,Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su
Marx, Bulzoni, Roma). Nel Parricidio mancato ho
voluto evidenziare quanto la foga del ribellismo giovanile unita a una non
profonda conoscenza della filosofia di Hegel, comune a una buona parte del
movimento delloJunghegelianismus degli anni '30 e '40 dell'800,
abbiano sollecitato Marx a un troppo facile e corrivo rovesciamento
dell'idealismo di quello Hegel che, con la sua collocazione dal 1818
all'Università di Berlino, era divenuto il pontefice massimo, assai più che
l'amico-nemico Schelling, della filosofia e della cultura tedesca postkantiana.
Uccidere quel padre metaforico significava, sul
piano più proprio del confronto tra singole individualità, superarlo nel
primato dell'egemonia filosofica, così come, sul piano più largamente culturale
e politico, rovesciare lo spirito nellamateria, la teoria nella prassi,
la filosofia contemplativa e speculativa nell'azione del proletariato
rivoluzionario.
giovedì 6 ottobre 2016
Il revisionismo storico*- Luciano Canfora
*Prolusione al III Congresso del PdCI - Rimini, febbraio
2004 http://www.sitocomunista.it/
Leggi anche: http://temi.repubblica.it/micromega-online/nel-nome-di-j-p-morgan-le-ragioni-economiche-della-controriforma-costituzionale/
"Il regime fascista, che porta semplicemente all'estremo limite il declino e la reazione impliciti in ogni capitalismo imperialista, divenne indispensabile, quando la degenerazione del capitalismo annullò ogni possibilità d'illusioni su un miglioramento del tenore di vita del proletariato. La dittatura fascista significa l'aperto riconoscimento della tendenza all'impoverimento che le più ricche democrazie imperialiste cercano ancora di nascondere. Mussolini e Hitler perseguitano il marxismo con tanto odio proprio perché il loro regime è la più orrenda conferma dell'analisi marxista."
Lev Trockij, Il pensiero vivo di Karl Marx (Il collettivo)
Vorrei esordire ricordando una verità elementare: che cioè
la storia la scrivono i vincitori. E poiché la lunga guerra europea e poi
mondiale incominciata nel 1914 e sviluppatasi in più fasi è finita, dopo vari
rivolgimenti, paci apparenti, cambi di fronte, con la sconfitta dell'Unione
Ssovietica nel 1991, è evidente che per ora, e per lungo tempo ancora, la
storia che prevarrà sarà quella scritta dai nemici dell'Unione Sovietica e
quindi dell'antifascismo.
Non stupisca quel "quindi": l'antifascismo, anche non comunista, ebbe
sempre una considerazione rispettosa della storia e del ruolo dell'URSS.
Non è casuale che un capofila del revisionismo storiografico come François
Furet, nel suo troppo vezzeggiato pamphlet Il passato di un'illusione,
abbia presentato reiteratamente l'antifascismo europeo come "l'utile
idiota" di Stalin. E la sua opera non è rimasta senza seguito, ora che
saldamente la grande stampa e salvo rare eccezioni la grande editoria stanno
passando nelle mani di coloro che riscrivono la storia appunto nell'ottica degli
ultimi vincitori.
Per l'Europa borghese, corresponsabile dell'agosto '14 e levatrice perciò della
rivoluzione, fu appunto, sin da allora, il comunismo il principale problema. La
nascita del fascismo, e poi dei fascismi, fu la risposta estrema e pienamente
avallata dalle classi dominanti nei confronti di tale "grande
pericolo".
Due scene tornano alla mente, emblematiche in questo senso:
- la sfilata delle camicie nere a Napoli pochi giorni prima della marcia su
Roma e tra loro, in camicia bianca, Enrico De Nicola con il braccio levato nel
saluto romano;
- e circa due anni dopo, Benedetto Croce, che vota la fiducia al governo
Mussolini, pur dopo il delitto Matteotti.
mercoledì 5 ottobre 2016
martedì 4 ottobre 2016
Non c’è crisi in Paradiso. Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump* – Fabrizio Salmoni**
Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente
la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi
facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale
contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici
più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli
individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si
attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le
minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i
gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. Un minestrone di ingredienti
indistinti in cui le classi sociali vengono identificate essenzialmente con la
dicotomia colletti blu e bianchi e “mondo delle imprese” (corporate world)
mentre di middle class si parla per segnalarne la centralità “elettorale”, la
perdita di potere d’acquisto, la sua discesa nella scala sociale.
Chi qui in Europa segue più attentamente le cronache della
contesa americana con un occhio criticamente smaliziato non può evitare di
notarne il paradosso più evidente: un elettorato fatto
prevalentemente di bianchi poveri a forte componente operaia e contadina voterà
in massa contro i propri interessi per un candidato miliardario portandolo
probabilmente alla presidenza. Come può accadere? Cosa può aver rovesciato i tradizionali
ruoli di rappresentanza politica tra i due maggiori partiti? Non sono forse i
Democratici ad avere sempre rappresentato, dalla fine della Ricostruzione post
Guerra Civile, lo stato sociale, i sindacati, le minoranze affamate di
riconoscimento e diritti civili, la cultura inclusiva, insomma l’anima
“progressista” della nazione mentre i Repubblicani si sono sempre connotati
come i difensori del laissez faire economico, come rappresentanti delle
corporation, del big business, e infine del capitalismo finanziario selvaggio e
globale? Come è possibile che un proletario, indebitato fino al collo, privo di
garanzie sindacali, di assistenza sanitaria, di garanzie pensionistiche, con la
minaccia dell’ipoteca bancaria sulla casa, con i figli sempre più condannati
dal lavoro precario e sottopagato a rimanere bloccati nella scala sociale
malgrado le promesse del sogno americano, si schieri con la parte politica che
per propria natura gli nega un’esistenza dignitosa?
lunedì 3 ottobre 2016
domenica 2 ottobre 2016
LA TEORIA DELLE ONDE LUNGHE E LA CRISI DEL CAPITALISMO CONTEMPORANEO*- Michel Husson
(dicembre 2013 -Trad. di Titti Pierini )
Non vi è certamente modo migliore di rendere omaggio a Ernest Mandel che applicarne il metodo, quello di un marxismo vivo, non dogmatico. D’altronde, la profondità della crisi attuale rende ancor più indispensabile la rivalutazione critica degli strumenti d’analisi che Mandel ci ha lasciato. Il presente contributo cercherà quindi di rispondere a questa questione: la teoria delle onde lunghe costituisce un quadro adeguato per l’analisi dell’attuale crisi, della sua genesi e della nuova fase che apre?
Una volta richiamata a grandi linee questa teoria, cercheremo di applicarla al complesso della fase neoliberista del capitalismo, alternando considerazioni teoriche e osservazioni pratiche. Condurremo questo esame secondo due linee direttrici. La prima è che il capitalismo neoliberista corrisponde a una fase recessiva il cui tratto specifico essenziale è la capacità del capitalismo di ristabilire il saggio di profitto, nonostante un saggio di accumulazione stagnante e mediocri aumenti di produttività. La seconda è che non ci sono le condizioni del passaggio a una nuova onda espansiva e la fase che si apre è quella di una “regolazione caotica”.
Onde lunghe
La teoria delle onde lunghe ha costituito inizialmente il tema affrontato nel Capitolo 4 de El capitalismo tardÍo [“Il tardo-capitalismo”, o “La terza età del capitalismo”] (Mandel, 1972 – v. Bibliografia finale]) ed è poi stata sviluppata in una serie di lavori, in particolare nel libro Las ondas largas del desarrollo capitalista [“Le onde lunghe dello sviluppo capitalistico”] (Mandel, 1986). Una delle impostazioni essenziali di questa teoria è che il capitalismo ha una storia, e che questa non obbedisce a un funzionamento ciclico. Essa porta a un susseguirsi di fasi storiche, contrassegnate da caratteristiche specifiche, in cui si alternano fasi espansive e fasi recessive. Non si tratta di un’alternanza meccanica, non basta attendere 25 o 30 anni. Se Mandel parla di onda anziché di ciclo è perché il suo approccio non rientra nello schema, generalmente attribuito – probabilmente a torto – a Kondratiev, dei movimenti regolari e alterni dei prezzi e della produzione.
Uno dei punti importanti di questa teoria è il fatto di rompere la simmetria delle inversioni: il passaggio dalla fase espansiva a quella recessiva è “endogeno”, nel senso che risulta dal gioco dei meccanismi interni del sistema. Il passaggio dalla fase recessiva a quella espansiva è, viceversa, “esogeno”, non automatico, e presuppone la riconfigurazione del contesto sociale e istituzionale. L’idea chiave, qui, è che il passaggio alla fase espansiva non è dato in partenza e che va ricostruito un nuovo “ordine produttivo” (Dockès, Rosier, 1983). Questo prende il tempo che occorre, e non si tratta quindi di un ciclo analogo a quello congiunturale, la cui durata può collegarsi alla durata di vita del capitale fisso. Ecco perché questo approccio non affida alcun primato alle innovazioni tecnologiche; nella definizione di questo nuovo ordine produttivo giocano un ruolo essenziale le trasformazioni sociali (rapporti di forza capitale-lavoro, grado di socializzazione, condizioni di lavoro, ecc.).
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