Da: https://www.ospiteingrato.unisi.it - Roberto Finelli insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre e dirige la rivista on-line “Consecutio (Rerum) temporum. Hegeliana. Marxiana. Freudiana” (http://www.consecutio.org)
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“CRITICA” TRA HEGEL E MARX - Roberto Fineschi
Critica e totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna come intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel.
Già Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà Oggettiva, indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire dalla tesi secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore intrinseco della costruzione di una totalità, giacchè solo attraverso il progressivo autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la verità di un intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi pretesa di un lato solo particolare o di una configurazione parziale di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo, perché, non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi e a trapassare in altro.1 La critica qui, ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del sapere ed emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio avviso, la natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola, fino ad estremizzarla in un purissimo negativo, che non nega alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del nulla/negazione.
Marx ha accolto da Hegel tale definizione di critica intrinseca allo strutturarsi totalitario della realtà secondo un fattore di universalizzazione, ma ha mutato radicalmente l’identità e la natura di tale soggetto universalizzante. Infatti a differenza del Nulla/Negazione in cui si risolve l’Assoluto/Spirito di Hegel, Marx ha fatto soggetto a destinazione totalizzante della vita e della società contemporanea il «Capitale». Das Kapital è un soggetto a destinazione universalizzante perché è denaro, quantità di ricchezza astratta che cresce su sé stessa, e che, per la sua natura meramente quantitativa, ha in sé l’obbligo, pena il suo venir meno come capitale, di una valorizzazione e di una accumulazione tendenzialmente illimitata. Questa natura intrinsecamente universale del capitale – che Marx ha definito come il concetto del «capitale in generale» – non è, ovviamente, come tutti i concetti e le dimensioni universali, immediatamente percepibile, non può essere cioè oggetto immediato dei sensi. Tant’è che ogni singolo capitale si presenta come capitale determinato, diverso da tutti gli altri capitali e, nella sua particolarità, sempre materialmente immerso nella produzione di beni economici specifici e differenziati. Eppure l’essenza interiore, invisibile e tendenzialmente universale propria del concetto di capitale, si fa concreta e visibile attraverso la lotta e lo stimolo incessante della concorrenza, che obbliga ogni capitale individuale a superare costantemente i suoi limiti. Della concorrenza da un lato con gli altri capitali per l’espansione del mercato e la costante innovazione tecnologica e con la classe lavoratrice dall’altro per condurla costantemente da sussunzione formale a sussunzione reale.
Comprendere il Capitale di Marx significa a mio avviso comprendere la dialettica di astratto e concreto, di universale e particolare, di invisibile e di visibile, di interno ed esterno, di Uno e dei molti, che lo struttura. Significa cioè comprendere una dialettica che è in primo luogo di essenza ed apparenza, per la quale la ricchezza astratta e a tendenza di universalizzazione propria del capitale colonizza, saccheggia e svuota di autonomia il mondo del concreto ma nello stesso tempo lo utilizza come mondo della superficie per nasconderne, dietro un’apparenza fatta di cose concrete e di liberi agenti individuali del mondo, la sua essenza e costrizione di soggetto universale.
Buona parte della complessa e varia tradizione dei marxismi sia del ’900 che contemporanei, secondo la mia opinione, o non ha visto o ho ampiamente trascurato tale tipologia di dialettica, di essenza ed apparenza, anteponendogli la tradizionale dialettica della contraddizione, secondo la quale quella capitalistica è una formazione storico-sociale destinata al superamento, visto che costringe all’espropriazione/alienazione una soggettività lavoratrice, che non potrà che volere riappropriarsi di ciò di cui viene privata.2
Ma sembra evidente che dialettica della contraddizione e dialettica di essenza-apparenza rimandano a due assai diverse interpretazioni della società nella quale viviamo e a due radicalmente diverse teorie della soggettività storica in essa operanti.
La prima, la dialettica della contraddizione, quale canone classico del marxismo-leninismo, vede come soggetto della storia moderna una forza-lavoro la cui ricchezza umana, sociale ed economico-produttiva viene alienata ed espropriata dal capitale fino a creare una scissura di opposti non ulteriormente sostenibile (e dunque contraddittoria in sé medesima) da quella soggettività fabbrile e produttrice dell’intero. La seconda, la dialettica dell’astrazione, vede invece come soggetto il capitale e la sua pulsione a realizzarsi, attraverso il superamento dei limiti che incontra e lo svuotamento/colonizzazione del mondo concreto, quale soggetto totale e totalitaristico della società, capace di plasmare della sua logica monetario-accumulativa tutti i luoghi essenziali della produzione e riproduzione sociale.
Nell’opera di Marx sono presenti, a mio avviso, entrambe le dialettiche, non conciliate né integrate, e questo ha causato e causa tuttora profondi contrasti e confusioni interpretative. Ma per quello che qui interessa dire, è alla seconda che appare opportuno rivolgersi per una comprensione più adeguata del mondo contemporaneo e dello spazio e della funzione, in esso, della critica.
La potenza del capitale come produttore e diffusore di un’astrazione reale implica che corpi, menti, natura siano rese oggetti di una sussunzione reale: attraversati cioè e mediati da una logica unidimensionale di riduzione a misura quantitativa e a criteri di commercializzazione e scambiabilità. Ma sussunzione reale, in una dialettica non della contraddizione ma dell’astrazione, significa, come s’è detto, svuotamento dell’interiore e sovradeterminazione dell’esteriore, mortificazione dell’interno e celebrazione sovratono dell’esterno, in una dialettica appunto tra profondità e superficie, per la quale, come ha scritto assai bene a suo tempo Fredric Jameson, rimangono del mondo concreto solo delle silhouettes di superficie, che, con la loro apparenza luccicosa, occultano e mistificano la sostanza dell’essenza che le anima in profondità.3
Ed è qui che si depone, in tale dialettica di interno/esterno, io credo, il significato più attuale della dottrina del feticismo di Marx, che deve essere letto oggi non più come feticismo della merce ma come, assai più propriamente, feticismo del capitale. Giacchè il feticismo della merce, com’è esposto dallo stesso Marx nel primo capitolo del Capitale, rimanda ad una dialettica della contraddizione, dove i soggetti sono i produttori che, scambiando sul mercato, socializzano attraverso cose e dunque reificano la loro socialità. Mentre il feticismo del capitale vede come soggetto il capitale medesimo e la sua produzione che, attraverso lo svuotamento/superficializzazione del mondo, produce l’apparenza di un mondo agito da liberi individui che lavorano e scambiano merci e beni concreti. Fino a produrre, a tutt’oggi, l’apparenza di un lavoro informatico-cognitivo, che, anziché essere dipendente dal programma delle macchine informatiche, sarebbe la messa in opera delle funzioni più creativo-linguistiche dell’essere umano, ricco di tutte le sue presunte potenzialità di creatura comune di genere e di transindividualità.
Ora, da tutto ciò consegue che il campo e la funzione della critica non può che collocarsi, precisamente, nello snodo tra essenza ed apparenza, che è snodo propriamente di opposti, perché le strutture di relazioni asimmetriche e violente tra classi, proprie dell’essenza capitalistica, si manifestano alla superficie come rovesciate nei loro contrari, di relazioni di equivalenza, codificate dal diritto, tra individualità libere ed eguali, o, appunto, come nel caso delle nuove tecnologie, l’uso comandato ed eterodiretto di lavoro mentale si manifesta come attività, invece, creativa e linguistico-calcolante di una mente che ha cessato di “lavorare”, ormai solo per comunicare e per elaborare solo simboli alfa-numerici.
Del resto parlare del capitale come fattore storico-sociale a destinazione universale e totalizzante non può che significare che il capitale produca direttamente, con la sua medesima produzione economica, anche i contenuti della coscienza sociale generalizzata, ossia le forme e i modi dell’apprensione conoscitiva del mondo. Lasciandoci alle spalle gli arcaismi marxiani di struttura e sovrastruttura, insieme a tutta l’impalcatura, da filosofia della storia a tesi predestinate, del materialismo storico, ciò che qui va detto è infatti che il capitale si fa fattore totalizzante di realtà quando con la sua produzione economica è, insieme e senza mediazione alcuna: 1) produzione di beni e merci atti a soddisfare bisogni; 2) produzione di plusvalore e di rapporti asimmetrici tra classi; 3) produzione di falsa coscienza e di forme generalizzate di ideologia.
Oggi con la sussunzione reale al capitale di esseri umani, valori d’uso e natura, con lo svuotamento del concreto da parte dell’astratto e la superficializzazione del mondo che ne consegue, il capitale produce direttamente identità apparenti di soggettività, modi di conoscenza legati alla superficie dell’esperire e modalità collettive di comportamento. Secondo quanto un autore, pure lontano dalla frequentazione approfondita del Capitale di Marx come Antonio Gramsci, aveva ben compreso nelle pagine di Americanismo e fordismo quando scriveva che con la rivoluzione tecnologica di Taylor e la produzione di massa, il capitalismo americano non aveva più bisogno della mediazione degli intellettuali, per procurare consenso, perché produceva direttamente, insieme ai nuovi beni di consumo, una nuova tipologia di soggettività umana, con nuovi orientamenti morali e nuovi modelli di comportamento. Con una riflessione geniale che, va detto, anticipava e superava di gran lunga le riflessioni dei francofortesi che, se avevano pur compreso la natura totalitaristica del capitalismo, vincolati e limitati, com’erano per altro, dal paradigma lukacsiano del feticismo della merce, hanno ben messo a fuoco la dinamica pervasiva dell’industria culturale, ma, privi di una teoria dell’astrazione reale nella produzione e del feticismo del capitale che ne consegue (cfr. in tal senso le drammatiche ingenuità della teoria dell’astrazione reale di Sohn Rethel, incredibilmente retrocessa nell’Atene del IV sec. e fatta principio fondativo della filosofia), non hanno mai stretto un’intima connessione tra produzione di valore, svuotamento del concreto e forme della coscienza ideologica.
Invece quello che qui maggiormente interessa dire è che il capitale, quando si fa soggetto a tendenza totalizzante, produce direttamente, attraverso la specificità del suo feticismo, che non è appunto quello della merce, direttamente forme di umanità e visioni del mondo, Weltanschauungen. Fino a plasmare oggi la pretesa identità di un soggetto umano come capitale autovalorizzantesi, ossia come imprenditore di sé stesso che, con un’attitudine solo calcolante, ha da procedere nel suo vivere solo ad acquisire ed accumulare competenze da scambiare sul mercato. O ancor di più a sollecitare, attraverso una partecipazione subalterna ai nuovi sistemi «forza lavoro mentale/macchina dell’informazione», sollecitare l’adesione all’ultima ideologia del mondo come «infosfera», cioè alla credenza mitica per cui il mondo consisterebbe in un costante ed enorme processo di elaborazione di informazioni e che in tale ambito la stessa intelligenza umana dovrebbe essere ormai considerata come una macchina computazionale che processa, calcola ed elabora informazioni, tanto da poter essere progressivamente sostituita dall’intelligenza artificiale, cioè da macchine che processano informazioni a una velocità sempre più incomparabile rispetto a quella umana.
Il capitale è dunque soggetto di totalizzazione perché, oltre a produrre economia ed ontologia sociale (quanto a divisione e riproduzione di classi), produce anche gnoseologia, cioè modi e forme generalizzate di conoscenza. Ossia produce – ora che la forza lavoro è sempre più forza lavoro mentale – intellettualità di massa, la quale, mentre lavora, produce, allo stesso tempo, dissimulazione e falsificazione del proprio operare. E per questo oggi il capitale si costituisce, assai meno come nesso di opposizione e contraddizione sociale, e assai più come nesso di dissimulazione, dove l’apparenza, come si diceva, rovescia e risignifica costantemente l’essenza.
Per questo, proprio perché l’astrazione del capitale produce, attraverso il doppio movimento dello svuotamento del concreto e della sovradeterminazione della superficie, direttamente intellettualità di massa, agli intellettuali di professione, ai maîtres à penser, non lascia altro che la conferma di tale suo operare svuotante e superficializzante. Lascia cioè il compito di produrre pensieri, filosofie, configurazioni ideali che siano ispirate al principio della smaterializzazione del mondo e che si vietino ogni oltrepassamento nel verso della materialità sociale. Tanto da potersi facilmente e schematicamente affermare che, di fondo, tutta l’alta cultura dell’ultimo quarantennio ha celebrato l’epopea di un’assenza di strutturazione, di ogni gerarchia possibile, di ogni sistematica della realtà, per il darsi di un accadere sempre evenemenziale, esito di parallelogrammi di forze e di significazioni sempre cangianti e mai concluse in una qualche permanenza e identità. Né dunque è stato un caso se tale autosequestrarsi della cultura in una propria smaterializzata autoreferenzialità4 abbia avuto come massimo evento inaugurale, almeno nell’ultimo cinquantennio, la filosofia dell’«Essere» e della «differenza ontologica» di Martin Heidegger, la cui genialità reazionaria è consistita nel riproporre come principio dell’intendere e del vivere una categoria arcaica ed astrattamente metafisica come quella di Essere, il cui superamento critico aveva invece costituito la condizione prima di ogni svolgimento positivo sia della filosofia antica di Platone ed Aristotele sia della migliore filosofia moderna.
Insomma, per concludere queste brevi note, la funzione della critica oggi è, a mio avviso, quella di ritornare – dopo i riti celebrativi dell’ermeneutica e di un Assoluto di linguaggio, coniugato in tutte le varianti possibili – ad ispirarsi ad uno sforzo teorico capace di confrontarsi con l’ontologia della totalizzazione che il capitale ha posto in essere con l’attuale globalizzazione. A patto di superare, torna a dirsi, l’horror vacui che tutta la cultura della decostruzione e dei rizomi, dell’heideggerismo e del lacanismo, dell’althusserismo e del transindividuale, ha disseminato riguardo alle nozioni di soggettività, di totalità e di sistema, ed avendo ben chiaro di contro (ma senza cadere nell’altro estremo della mitologia operaista del soggetto come moltitudine o come comunanza linguistica di genere), che verosimilmente mai nella storia umana s’è costituito una soggettività, come quella contemporanea del capitale, così capace di tradursi in soggetto totale e pervasivo di ogni luogo, materiale e mentale, del nostro vivere.
Note
1 Sulla genesi e la struttura di questa concezione hegeliana mi permetto di rimandare al mio Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1803) [1995], Lecce, Pensa Multimedia, 2009.
2 Anche per questa interpretazione del Capitale e dell’intera opera di Marx rinvio ai miei testi: Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Roma, Bulzoni, 1986; Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014. Ma cfr. anche C. Corradi, Marx e la realtà dell’astratto, in Ead., Storia dei marxismi in Italia, Roma, manifestolibri, 2005.
3 Cfr. F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero, la logica culturale del tardo capitalismo [1991], trad. it. di M. Manganelli, Roma, Fazi, 2007.
4 Cfr. in tal senso M. Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura Critica, capitale e totalità nel tardo Occidente, Macerata, Quodlibet, 2012; Id., Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, Roma, manifestolibri, 2018.
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