Su Hegel politico. - Stefano Garroni -
Hegel e noi - Norberto Bobbio
Due paragrafi da Hegel*- Paolo Di Remigio
Critica, capitale e totalità - Roberto Finelli
Vedi anche: " Hegel "- Vittorio Hosle
"La fenomenologia dello spirito nel pensiero si Hegel" - Francesco Valentini (https://www.teche.rai.it/1990/06/la-fenomenologia-dello-spirito-nel-pensiero-hegel/)
1. Una fine e un inizio
«La fine di qualcosa»: così il grande pianista canadese Glenn Gould, rivolgendosi al pubblico prima dell’inizio di uno dei suoi più straordinari concerti, definì la musica di Bach. Il pensiero di Hegel rappresenta l’ultimo grande tentativo sistematico della storia della filosofia, un’ambizione che già la generazione di filosofi successiva abbandonò. Da questo punto di vista la filosofia hegeliana è davvero anch’essa «la fine di qualcosa». Ma d’altra parte è innegabile che il pensiero di Hegel abbia esercitato un’enorme influenza sui filosofi successivi. Alcuni aspetti della sua filosofia hanno esercitato un potente influsso sulla storia – non soltanto del pensiero – sino ai giorni nostri. La filosofia di Hegel è quindi sia una fine che un inizio. Per questo motivo, e per un motivo più importante: perché, come vedremo più avanti, nel suo pensiero la fedeltà alla tradizione filosofica, la continuità rispetto a essa, si unisce a un forte elemento di rottura, nientemeno che rispetto a un principio cardine della tradizione filosofica quale quello di identità.
Il pensiero di Hegel, al pari di quello di tutti i grandi pensatori, fa parte del patrimonio culturale dell’umanità. Allo stesso modo di un monumento storico, di un dipinto, di un brano musicale. In quanto tale, fa parte di una storia. Ma il suo significato non si esaurisce in essa, eccede ogni interpretazione – e proprio per questo è in grado di parlare a generazioni diverse, di divenire alimento di un nuovo pensiero. Il pensiero di Hegel fa parte anche di noi, perché è inserito nella tradizione culturale in cui noi stessi pensiamo. Talvolta ridotto a frammenti, a singoli concetti, a frasi isolate, ma comunque già presente in noi inconsapevolmente anche prima dell’inizio di ogni lavoro interpretativo. Del resto proprio Hegel, che pur negava che un singolo enunciato fosse in grado di esprimere una verità filosofica, aveva una spiccata capacità – sconosciuta ad altri filosofi – di condensare pensieri in brevi sentenze. Frasi come «Tutto ciò che è reale è razionale», «Il vero è il tutto», sono familiari anche a chi non abbia studiato approfonditamente il suo pensiero. Qui però ci soccorre un altro celebre detto hegeliano: «ciò che è noto, per ciò stesso non è conosciuto». Non possiamo dire di conoscere il significato di quegli enunciati se non siamo in grado di capire che cosa Hegel intendesse per «realtà», «razionalità», «verità» e «totalità». Anzi, proprio l’apparente familiarità con questi (e altri) concetti può essere fuorviante, non meno di quanto accada con certe parole straniere che hanno un suono simile alle nostre, ma un significato del tutto diverso. I traduttori chiamano queste parole «i falsi amici». Anche in filosofia dobbiamo guardarci dai «falsi amici».
Gli usi possibili di Hegel sono molti: nel suo pensiero si possono ricercare tanto l’istanza sistematica (ossia una lettura unitaria del mondo) quanto concetti utili per la comprensione della storia, tanto un’interpretazione delle scoperte scientifiche del suo tempo quanto una teoria dello Stato e della società. Ma una grande filosofia fa qualcosa di molto più importante di tutto questo: ridisegna il mondo, riconfigura il mondo, cambia il nostro modo di vederlo. Anche quando si parla degli strumenti per pensare che una filosofia ci pone a disposizione (quasi che si potesse usare il pensiero di un filosofo come si adopera un utensile), in fondo, se si parla seriamente, si parla di questo.
Su quali linee ridisegna il mondo Hegel? Quali sono le caratteristiche, i tratti caratterizzanti del suo pensiero?
2. Caratteri generali della filosofia hegeliana
Prima caratteristica: un pensiero anti-dicotomico. La filosofia hegeliana rifiuta le dicotomie: gli o…o, gli aut aut, le alternative secche, bloccate. Il ragionare per alternative secondo Hegel caratterizza il procedere dell’«intelletto», che separa le cose, crea opposizioni astratte. Intendiamoci, Hegel non pensa che questo modo di procedere sia assolutamente sbagliato (anche questo sarebbe un modo di pensare intellettualistico!). Al contrario: il modo di procedere dell’intelletto che separa e astrae (il metodo analitico) è fondamentale per la conoscenza scientifica. Esso è però insufficiente perché è unilaterale: in quanto tale, può consentirci di comprendere alcuni fenomeni – in particolare alcune strutture della realtà, relativamente poco complicate – ma non i fenomeni più importanti della vita, della storia e della società, e tantomeno la realtà nel suo insieme. Per comprendere i fenomeni più complessi e importanti del reale e per fare filosofia occorre la «ragione». La ragione è capace di pensare la complessità, in quanto è capace di pensare la «contraddizione», ossia di concepire nella loro unità le determinazioni contraddittorie di cui sono intessute le realtà più complesse. In questo senso Hegel nella Scienza della logica afferma che «il pensiero della contraddizione è il momento essenziale del concetto». Su questo aspetto cruciale della filosofia hegeliana tornerò più avanti.
Seconda caratteristica: il rapporto della filosofia con la storia. Il pensiero di Hegel individua uno stretto rapporto tra storia e filosofia. In due sensi. Primo: Hegel avversa le filosofie che, presupponendo che la verità sia eterna, contrappongono la storia al pensiero. Al contrario, egli vede uno stretto rapporto tra filosofia e conoscenza storica. Per intendere lo sviluppo del pensiero è importante conoscere la storia, a cominciare dalla stessa storia della filosofia. Secondo: per Hegel ogni filosofia ha uno stretto rapporto con la propria epoca: «la filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri» è altro un detto hegeliano divenuto celebre.
Da questo molti interpreti hanno tratto la conclusione di uno Hegel “storicista”. Questo però non è vero, in almeno due sensi importanti. Hegel non è storicista, se si intende lo storicismo come giustificazionismo storico: per Hegel un’istituzione, una realtà storica non si giustifica per il solo fatto di essere il prodotto di una storia, di determinate circostanze. Chi, come la scuola storica del diritto, cerca di far passare «per una giustificazione universale» l’«origine di un’istituzione in determinate circostanze», finisce secondo Hegel per dimostrare il contrario di ciò che vorrebbe: «che cioè, poiché tali circostanze non ci sono più, l’istituzione ha perduto il suo senso e il suo diritto». Ma Hegel non è storicista neppure in un altro senso: per Hegel la conoscenza della struttura e della funzione di una determinata realtà non si identifica con la conoscenza della sua genesi. Al contrario, Hegel contrappone metodo genetico e metodo sistematico-concettuale del conoscere. Nella sua concezione della conoscenza filosofica la risposta alla domanda «che cosa?» ha un ruolo centrale, e non si risolve nella risposta alla domanda «come?», e neppure nella risposta alla domanda «perché?». Questo distingue l’approccio di Hegel sia da quello della tradizione storicistica che da quello di importanti correnti della filosofia del secondo Novecento, prima tra tutte l’ermeneutica. E lo avvicina per contro al filosofo analitico canadese William Dray, il quale, in un famoso dibattito sul metodo delle scienze storiche che si svolse tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del secolo scorso, rivendicò l’importanza per la spiegazione storica della risposta alla domanda «che cosa?», e quindi della «spiegazione per mezzo di un concetto generale piuttosto che per mezzo di una legge generale», della «classificazione» anziché della esibizione della genesi di un determinato fenomeno storico.
Ma vediamo quindi più da vicino il concetto di «spiegazione» in Hegel. Per Hegel «spiegare» un oggetto significa in generale dare una definizione appropriata della sua struttura (meglio: un insieme coerente di definizioni), delimitarne le differenze rispetto ad altri. Quando parla di «spiegazione» di un fenomeno, Hegel non pensa a spiegazioni genetico-causali (come e perché si è prodotto quel fenomeno), ma alla comprensione della sua costituzione: la sfida è riuscire a dire cosa sia, a darne una definizione che sia in grado di caratterizzarlo. Inoltre, le categorie che possiamo adoperare per spiegare (nel senso appunto di definire, caratterizzare) un determinato livello del reale non sono adatte a spiegare le modalità di funzionamento del livello superiore. Come afferma Hegel stesso nell’Enciclopedia: «non si deve adoperare una categoria valida per gradi inferiori al fine di spiegare gli altri». Per usare un concetto introdotto nel dibattito in epoca successiva a quella di Hegel, potremmo dire che Hegel è “anti-riduzionista”.
Terza caratteristica: il razionalismo di Hegel. Anche questo tema è stato molto dibattuto. Hegel ritiene che la ragione sia in grado di comprendere la realtà, che il pensiero sia in grado di conoscere la verità. Ma come si giunge alla verità? Hegel rifiuta tre strade battute dalle filosofie precedenti. Innanzitutto, la verità non si trova all’inizio della filosofia: alla verità non si perviene attraverso l’intuizione, con un «colpo di pistola» immediato, attraverso il misticismo; la verità è cosa del tutto diversa dal sapere profondo e incomunicabile caro a certi romantici. In secondo luogo, la verità non coincide neanche con le evidenze dell’esperienza quotidiana e del senso comune (che per Hegel sono «rappresentazioni» e non «concetti»). La verità, infine, non è neppure una costruzione deduttiva/assiomatica, come quelle della matematica o della logica simbolica.
Per Hegel la verità è invece il risultato di un approfondimento, di uno scavo nelle implicazioni delle categorie del pensiero, dalle più semplici alle più complesse, in un processo in cui le prime rimandano, conducono (e secondo Hegel necessariamente) alle seconde: l’insufficienza di una categoria ci spinge a passare a categorie più adeguate alla conoscenza del reale. Possiamo quindi dire che la verità sia un punto di arrivo? Sì, ma un punto di arrivo che deve tenere presente anche il percorso che ha condotto a esso. Per Hegel infatti la verità è sistema, è il completo dispiegarsi dell’insieme delle categorie: in questo senso Hegel afferma che «il Vero è l’intero» (das Ganze, «il Tutto”).
Per questo motivo Hegel considera la stessa contrapposizione di vero e falso come una opposizione di carattere intellettualistico. Questa concezione è applicata da Hegel anche alla storia della filosofia nel suo complesso. Nella storia dei sistemi filosofici il vero non è contrapposto al falso: al contrario, gli è realmente superiore in quanto lo ricomprende entro di sé, nell’ambito della propria cornice intellettuale. Qui c’è, potremmo dire, un esercizio di «egemonia» da parte della forma di pensiero superiore, che capisce i punti di forza dell’avversario (ossia della filosofia precedente che sta confutando), li ricomprende e metabolizza, relativizzandoli e rendendoli parte del proprio sistema di pensiero. «Principio della vera filosofia – afferma Hegel – è il contenere in sé tutti i princìpi particolari». Quello che vale per la storia della filosofia vale anche per i singoli concetti. Secondo il metodo della «negazione determinata» i concetti precedenti si rivelano insufficienti, ma non sono negati, azzerati: al contrario ne risulta un concetto nuovo «superiore e più ricco» di quello superato. Un esempio paradigmatico di questo modo di procedere è rappresentato dalle prime categorie della Scienza della logica.
Quarta caratteristica: il pensiero di Hegel è sistematico, mira alla costruzione di un «sistema della scienza» capace di abbracciare la realtà nel suo insieme in uno sguardo sintetico e unitario. Per Hegel «un filosofare senza sistema non può essere scientifico». Hegel è l’ultimo filosofo che abbia nutrito quest’ambizione e sia riuscito a perseguirla costruendo un complesso edificio sistematico (i tentativi successivi nella stessa direzione – si pensi a Nicolai Hartmann o György Lukacs, o anche a Niklas Luhmann – appaiono meno articolati e complessi). Il sistema filosofico che ha in mente Hegel è un insieme di sottosistemi (logica, filosofia della natura, filosofia dello spirito), ciascuno relativamente chiuso in sé: Hegel a questo riguardo nell’Enciclopedia parla di «un circolo di circoli», proprio per indicare la relativa compiutezza in sé di ciascuna delle tre sfere che compongono il sistema più complessivo. Il sistema, come esposto da Hegel nella sua Enciclopedia, include i «concetti fondamentali delle scienze particolari» e non entra nel dettaglio di esse. Quindi le critiche incentrate sulla presunta intenzione del filosofo tedesco di insegnare il loro mestiere agli scienziati sono fuori bersaglio. La questione essenziale è però un’altra: è in generale praticabile questo approccio sistematico al conoscere nel suo complesso? La filosofia successiva a Hegel ha in genere risposto negativamente a questo interrogativo.
Quinta caratteristica: un pensiero della totalità. Nella disputa tra olismo e riduzionismo, tra pensiero della totalità e individualismo metodologico, Hegel si colloca nettamente nel primo schieramento. Le totalità non sono un’invenzione del nostro pensiero, ma hanno realtà autonoma e non sono riducibili alla somma delle loro parti: lo Stato è qualcosa di reale, la società non è soltanto un insieme di individui, l’organismo non è riducibile alle sue membra. Il comportamento degli organismi viventi e poi dell’uomo non sono riconducibili semplicemente a reazioni fisico-chimiche. Allo stesso modo, il funzionamento della società non è comprensibile in base al comportamento dei singoli. Ogni sfera (o livello) della realtà ha una sua autonoma legalità di funzionamento, nessuna è semplicemente riconducibile alle leggi che regolano il funzionamento delle sue parti o dei livelli precedenti (che per Hegel sono anche inferiori in senso qualitativo). Conseguentemente, ognuna di esse richiede uno specifico modello di spiegazione. In tal modo il pensiero della totalità si articola in Hegel in una serie di livelli di realtà di crescente complessità e perfezione.
3. Dialettica e contraddizione
L’ultima caratteristica che desidero trattare è quella più comunemente associata al pensiero di Hegel: il pensiero hegeliano è dialettico. Ma attenzione: è lo stesso Hegel a dirci che ci sono due tipi di dialettica.
Il primo tipo di dialettica è quella che possiamo definire «dell’intelletto»; si tratta di una dialettica che resta ferma all’opposizione-contraddizione tra le categorie, e concepisce questa opposizione come un gioco a somma zero (per cui gli opposti si annullano, si escludono ed eliminano a vicenda). A questo tipo di dialettica appartiene la parte della Critica della Ragion Pura chiamata «dialettica trascendentale», nella quale Kant mostra come si possano argomentare alcuni enunciati tra loro contraddittori: ad esempio, tanto che il mondo sia finito quanto che sia infinito, tanto che l’uomo sia libero quanto che il suo agire sia necessitato. Per intendere l’importanza storica di questa posizione di Kant bisogna fare un passo indietro, e accennare al primato del principio d’identità e al contestuale rifiuto della contraddizione stabiliti dalla logica classica. La logica classica ci dice che ogni nostro ordinato ragionamento si basa sul principio di identità. È un principio che non dice granché – si limita a dirci che una cosa è uguale a se stessa – ma è pur sempre un punto di partenza ineludibile per far ordine nei nostri pensieri. Non è davvero un caso che le leggi fondamentali del pensiero care alla logica classica, sviluppatasi a partire da Aristotele, siano state codificate nei principii d’identità e di non contraddizione. Se il primo di essi sancisce l’importanza essenziale dell’identità, col secondo la contraddizione è messa addirittura fuori gioco, esclusa dall’ambito del ragionamento corretto. La contraddizione è la negazione, il nemico del pensiero. Ora, è proprio su questo punto che con Kant le cose cambiano: il fatto che io possa argomentare allo stesso modo enunciati opposti, tra loro contraddittori, conduce all’impossibilità di determinare la questione su un piano puramente razionale, ossia di decidere quale dei due enunciati sia vero e quale falso. La contraddizione in questo modo diviene uno scomodo compagno di viaggio della ragione, che si incarica di rammentarle i suoi limiti insuperabili.
Hegel muove da un esplicito riconoscimento a Kant: l’affermazione kantiana «della necessità delle contraddizioni» è «di valore epocale» nella storia della filosofia, è «uno dei progressi più importanti e profondi della filosofia moderna». Ma a questo riconoscimento fa immediatamente seguito una critica: Kant, ammessa la necessità della contraddizione, l’ha addossata al pensiero. Per Kant, osserva Hegel, è il pensiero che necessariamente cade in contraddizione con se stesso su argomenti quali la libertà o non libertà del volere, sul fatto che il mondo sia finito o infinito, e così via. Questa soluzione è per Hegel «banale» e «ingenua», e denota un’eccessiva «tenerezza per le cose del mondo»: seguendo l’impostazione di Kant, infatti, «non deve essere il mondo ad avere in sé la macchia della contraddizione, ma tale macchia deve spettare soltanto alla ragione pensante, all’essenza dello spirito».
Per Hegel, invece, la contraddizione non è nel pensiero, ma nelle cose: «Tutte le cose sono in se stesse contraddittorie». «Ogni realtà effettiva – argomenta Hegel nell’Enciclopedia – contiene in sé determinazioni opposte; perciò conoscere un oggetto o, più esattamente, concepire un oggetto vuol dire prendere coscienza di quell’oggetto come unità concreta di determinazioni opposte». Insomma, la contraddizione è nel mondo e non soltanto nel pensiero: in altri termini, essa non rappresenta un semplice stallo del pensiero. Al contrario: il pensiero – se è vero pensiero – riesce a sostenere e a risolvere la contraddizione: «lo spirito è ciò che è così forte da poter sopportare la contraddizione; ma anche ciò che è anche capace di risolverla».
È qui che entra in gioco il secondo tipo di dialettica, quello per cui la contraddizione è risolta in una sintesi superiore: questo tipo di dialettica caratterizza la ragione, e denota la sua superiorità rispetto all’intelletto.
Abbiamo così una grande linea di demarcazione che passa tra le diverse strutture della realtà e tra le diverse categorie del pensiero. Da una parte abbiamo le strutture (della realtà) e le categorie (del pensiero) che non riescono a sostenere la contraddizione, e quindi soccombono: l’essere vivente a un certo punto muore perché non riesce più conservarsi nel rapporto con il mondo esterno, a sostenere la contraddizione del suo rapporto con esso. Lo stesso accade al modo di ragionare tipico dell’intelletto, il «pensiero formale» che «torce subito via lo sguardo» dalla contraddizione, e così – osserva Hegel – «non fa che passare dalla contraddizione alla negazione astratta». In questo caso è il pensiero stesso che non riesce a far fronte alla contraddizione, a comprenderla, e quindi subisce uno scacco.
Vi sono per contro strutture e categorie che riescono a sostenere la contraddizione: la capacità degli esseri viventi di procurarsi del cibo e più in generale di resistere nel costante confronto con il mondo esterno sono altrettanti esempi della capacità di sostenere la contraddizione. Un altro esempio è rappresentato dalla presenza a sé della coscienza umana e dalla sua capacità, sia nell’attività teorica che in quella pratica, di appropriarsi dell’oggettività, negandone in tal modo l’indipendenza rispetto al soggetto. Lo stesso accade quando una cultura riesce ad assimilare elementi di altre culture entro il proprio orizzonte, o quando una filosofia supera una filosofia precedente incorporandone, ricomprendendone le tesi essenziali all’interno del proprio ragionamento: il superamento (Aufhebung) è qui una negazione che è al tempo stesso conservazione.
Per definire questa capacità di sostenere la contraddizione Hegel usa di preferenza due formulazioni: «mantenersi in unità con sé nell’altro» ed «essere presso di sé nell’altro». È questa capacità che individua tanto l’autonomia del vivente rispetto all’esteriorità quanto quella del pensiero, e più in particolare della ragione, rispetto al suo oggetto. Allo stesso modo, l’Io è definito da Hegel come quella cosa «impossibile» che è «al tempo stesso, relazione semplice a sé e, assolutamente, relazione ad altro», e «il vero infinito» come «l’unità di se stesso e del finito».
Con questi enunciati contraddittori Hegel esprime la ricorsività, la relazione a se stesso nel rapporto con l’altro, che caratterizzano gli esseri viventi, la soggettività umana e in generale il mondo storico e del pensiero (quello che Hegel designa con la parola «spirito”). È questa autorelazione che contraddistingue tanto l’autonomia di ogni essere vivente rispetto all’esteriorità quanto quella del pensiero, e più in particolare della ragione, rispetto al suo oggetto.
In questo modo la capacità di sostenere la contraddizione diviene il carattere distintivo di alcuni specifici enti e strutture del reale: si tratta degli esseri dotati di «soggettività», ossia capaci – in gradi diversi – di autodeterminarsi, di essere relativamente autonomi rispetto al mondo esterno e in grado di dominarlo: «soggetto» è per Hegel per l’appunto «un ente che ha la contraddizione di sé in se stesso ed è capace di sostenerla».
Detto in altri termini: per Hegel la contraddizione è onnipresente nel reale. Essa può essere aperta o superata. La contraddizione aperta indica l’insufficienza (Hegel direbbe: la «finitezza”) di determinate strutture di pensiero (e della realtà), la contraddizione superata indica la capacità, propria di certe strutture del pensiero (e della realtà), di attuare vittoriosamente un confronto con l’esterno.
La contraddizione aperta (dispiegata, patente, non risolta) segnala l’imperfezione di una determinata struttura del reale, i limiti inerenti a un periodo storico, o l’insufficienza di una determinazione di pensiero (o di un modo di pensare). Ad esempio, la compresenza di diritto privato e autocrazia imperiale ai tempi dell’antica Roma rappresenta secondo lo Hegel delle Lezioni sulla filosofia della storia una contraddizione, per cui «questo diritto privato è perciò ugualmente un non sussistere della persona, un non riconoscerla, e questo stato di diritto una completa mancanza di diritto». Per Hegel questa contraddizione è «la miseria del mondo romano», che porterà al superamento della corrispondente forma di Stato. Per quanto riguarda il pensiero, un esempio dell’incapacità di pensare la contraddizione si ha quando l’intelletto, pensando che «una cosa consti di molte materie indipendenti», è impotente di fronte alla «contraddizione del sussistere indipendente delle molte materie in uno»: qui il pensiero «si perde nella salda non-identità dei pensieri» (ossia nella loro contrapposizione, da cui non riesce a uscire), e finisce per disperare «di poter giungere da sé anche a risolvere la contraddizione in cui esso stesso si è posto». A questo punto la fissità delle categorie dell’intelletto si dimostra incapace di superare lo stallo del pensiero: deve entrare in campo la ragione, che è capace di dominare concettualmente le contraddizioni del reale.
La capacità di intendere il reale nella sua complessità, comprendendone e dominandone le contraddizioni, è precisamente ciò che distingue il pensiero speculativo: «il pensare speculativo – scrive Hegel nella Scienza della logica – consiste solo in questo, che il pensiero tiene ferma la contraddizione e nella contraddizione se stesso», anziché lasciarsi «dominare dalla contraddizione, e a causa di questa lasciare che le sue determinazioni si risolvano solo in altre, oppure nel nulla». Questa è la contraddizione superata. Più in generale, per Hegel il «superare» (Aufheben) – ossia negare e conservare al tempo stesso – la contraddizione, è «l’intimo, più oggettivo momento della vita e dello spirito, per cui un soggetto, una persona, un essere libero è tale». Per Hegel, come leggiamo nelle Lezioni di estetica, «la forza della vita, e ancor più la potenza dello spirito, consistono proprio nel porre in sé, nel sopportare e superare la contraddizione». L’ambito di applicazione di questo modello concettuale nel pensiero di Hegel come si vede è molto ampio, in quanto abbraccia la natura organica e l’intero mondo storico-umano. La capacità dell’individuo di rimanere presso di sé nella contraddizione assume in Hegel anche il carattere di un ideale di forza morale, come emerge da un altro passo delle lezioni di estetica: «l’intensità e la profondità della soggettività si fanno tanto maggiori quanto più infinito e ampio è il distaccarsi reciproco delle circostanze e quanto più dilaceranti sono le contraddizioni, in cui però essa deve rimanere saldamente in se stessa».
Ho già accennato al fatto che nella storia della filosofia e nella logica hegeliane il superamento della contraddizione assume l’aspetto di un continuo processo di approfondimento e contestualizzazione delle categorie in contesti di significato superiori e più ampi. In questo senso, la stessa dialettica hegeliana può essere vista, seguendo il suggerimento di un interprete attento quale John Niemeyer Findlay, come «un commento di ordine superiore a una posizione di pensiero precedentemente raggiunta»; è ancora Findlay a osservare che quello che fa Hegel è qui «in effetti straordinariamente simile a quello che si fa nella sintattica o nella semantica di oggi, o in analoghe discipline formali, quando si passa da un discorso in un linguaggio a un discorso su quel linguaggio, quando si rende un linguaggio un linguaggio-oggetto di un meta-linguaggio».
4. Usi di Hegel: dal marxismo alla cibernetica
Questo processo di approfondimento – forse a dispetto delle stesse intenzioni di Hegel – non può avere un punto di arrivo definitivo e assoluto. È questa la radice teorica della contrapposizione di metodo e sistema, ossia dell’uso del metodo di Hegel contro il suo stesso sistema, che caratterizza le discussioni sull’eredità filosofica di Hegel nei decenni successivi alla sua morte. Questa contrapposizione è alimentata anche da una specifica interpretazione dello stesso metodo hegeliano, che diviene prevalente nel secondo Ottocento e finisce per essere condivisa sia dai seguaci che dai critici di Hegel: un’interpretazione secondo la quale la dialettica hegeliana, e in particolare il concetto di contraddizione, vanno letti in termini temporali e non logici. In base a questa lettura le contraddizioni emergono e si risolvono nel tempo, dando vita a nuove formazioni sia naturali che storiche. Così lo storico della filosofia Kuno Fischer può affermare che Hegel «è il filosofo del XIX secolo, infatti è il filosofo della teoria dell’evoluzione», mentre un critico di Hegel come Friedrich Nietzsche scrive addirittura che «senza Hegel non ci sarebbe Darwin». Si tratta di un’evidente forzatura del pensiero hegeliano, se pensiamo che Hegel non soltanto affermò esplicitamente che la dimensione dello sviluppo nel tempo doveva considerarsi estranea al mondo naturale, ma ravvisò precisamente in questa fissità del mondo naturale uno dei motivi di inferiorità della natura stessa nei confronti del mondo storico-sociale.
L’uso di Hegel da parte del marxismo risente della presenza di questa proiezione della dialettica su un piano temporale.
In particolare per Friedrich Engels nel sistema hegeliano «per la prima volta, e questo è il suo grande merito, tutto quanto il mondo naturale, storico e spirituale venne presentato come un processo, cioè in un movimento, in un cambiamento, in una trasformazione, in uno sviluppo che mai hanno tregua». In coerenza con questa interpretazione, Engels legge in chiave temporale la fluidità delle categorie hegeliane, considerando la contraddizione come un qualcosa destinato a risolversi nel tempo.
In Karl Marx questa lettura della dialettica hegeliana si riflette soprattutto nella concezione del processo storico per cui il passaggio da una forma sociale a una superiore è determinato dalla «contraddizione» che insorge tra i «rapporti di produzione esistenti» e le «forze produttive e materiali della società». Ma il rapporto di Marx con il pensiero di Hegel non è riducibile a questo aspetto. Nel periodo in cui attendeva alla sua opera maggiore, Il capitale, Marx scrisse a Engels: «quanto al metodo di lavoro mi ha reso un grandissimo servizio il fatto che per puro caso mi ero riveduto la Logica di Hegel»; e in effetti l’uso delle categorie hegeliane è evidente nel testo a stampa, e ancora più chiaro negli studi preparatori della sua opera maggiore. La concezione del capitale come un «processo di autovalorizzazione» deve molto a Hegel, come pure la definizione del capitale come «totalità», «soggetto» e «fine a se stesso». Per Marx la produzione del capitale «si muove tra contraddizioni continuamente superate, ma altrettanto costantemente poste», cosicché si può ben dire che il capitale sia «esso stesso la contraddizione in processo». È evidente qui l’uso che Marx fa di categorie hegeliane per intendere il modo di produzione capitalistico.
Non senza ragione Lenin nei suoi Quaderni filosofici poté quindi affermare: «non si può comprendere a pieno Il capitale di Marx, e in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata attentamente e capita tutta la logica di Hegel». Per Lenin «la dialettica vera e propria è lo studio della contraddizione nell’essenza stessa degli oggetti: non soltanto le apparenze, ma anche le essenzialità delle cose sono transeunti, mobili, fugaci, separate da limiti solo convenzionali». In questa affermazione sono presenti tanto l’idea di contraddizione in senso logico, quanto il concetto di una contraddizione che si risolve nel tempo. E nel breve scritto A proposito della dialettica, Lenin criticò il marxista russo Plechanov, ma anche lo stesso Engels, per non aver preso abbastanza sul serio il concetto dell’«identità degli opposti», in cui egli ravvisava una vera e propria «legge della conoscenza»: la «identità» o «unità» degli opposti era infatti per Lenin «il riconoscimento (la scoperta) di tendenze contraddittorie, che si escludono reciprocamente, opposte, in tutti i fenomeni e i processi della natura (spirito e società compresi)». Secondo Lenin «condizione della conoscenza di tutti i processi del mondo nel loro ‘automovimento’, nel loro sviluppo spontaneo, nella loro vivente realtà» è appunto «la conoscenza di essi come unità degli opposti»: quindi, questa la sua conclusione, la dialettica può ben essere considerata come la «teoria della conoscenza» di Hegel e del marxismo.
L’uso e la reinterpretazione delle categorie hegeliane non fu un’esclusiva del marxismo di ascendenza europea. Anche Mao Zedong scrisse un importante saggio Sulla contraddizione, in cui ravvisò nell’idea che «lo sviluppo è determinato dalle contraddizioni interne» una tesi centrale della «dialettica materialistica». Per Mao «la causa fondamentale dello sviluppo delle cose non si trova fuori di esse ma dentro di esse, nella natura contraddittoria insita nelle cose stesse». Ovviamente, non si tratta qui di una concezione di interesse teorico, ma pratico: «la concezione dialettica del mondo insegna anzitutto agli uomini a osservare e analizzare correttamente il movimento delle contraddizioni nelle diverse cose, e a indicare, sulla base di questa analisi, i metodi per risolvere le contraddizioni». Di grande importanza pratica è per Mao anche l’ulteriore distinzione tra «contraddizione principale» e «contraddizioni secondarie»: «in ogni processo di sviluppo di una cosa complessa esistono numerose contraddizioni, tra cui vi è necessariamente una contraddizione principale; la sua esistenza e il suo sviluppo determinano o influenzano lo sviluppo delle altre contraddizioni».
Ho voluto richiamare l’interpretazione della dialettica di Hegel proposta da alcuni dei principali esponenti del pensiero marxista perché essa rappresenta un caso esemplare di ripresa, uso e al tempo stesso trasformazione delle categorie hegeliane da parte della tradizione culturale successiva. Questa rivisitazione della dialettica hegeliana ha finito spesso per sovrapporsi al pensiero di Hegel e per essere identificata con esso. Tale identificazione non è corretta perché, come abbiamo visto, il marxismo pone un accento sulla temporalità dei processi estraneo a Hegel, e anche perché – inevitabilmente – rielabora e incorpora nel proprio orizzonte teorico solo una parte del vasto repertorio concettuale del filosofo tedesco. D’altra parte, il valore di questo come degli altri usi possibili di Hegel non può essere stabilito principalmente sulla base della correttezza filologica e della fedeltà all’orizzonte teorico del filosofo tedesco, ma su quella della coerenza e della tenuta teorica complessiva del sistema di pensiero all’interno del quale i concetti hegeliani sono inseriti.
Nella seconda metà del Novecento, il pensiero di Hegel ha trovato un sempre minor seguito tra i filosofi in senso stretto. Per contro, gli sviluppi delle scienze della vita, della società e dell’informazione hanno riproposto l’interesse di alcune categorie chiave della sua filosofia.
In particolare, la cibernetica (progenitore diretto dell’intelligenza artificiale), con il suo studio dei meccanismi autocorrettivi (omeostasi) nei sistemi complessi, ha sostituito circuiti causali alle semplici catene causali e dischiuso una nuova comprensione del funzionamento dei sistemi viventi così come della mente e dei sistemi sociali. L’incapacità della «causalità lineare» (quella che traiamo dall’esperienza della nostra vita quotidiana, e anche l’unica nota all’epoca di Hegel) di spiegare la complessità di un organismo vivente e la stessa dinamica evolutiva delle specie è ormai un dato acquisito: a questa causalità lineare e alle sue catene casuali si è sostituito ormai da decenni il concetto di circuiti o reti causali, come evidenziato tra gli altri da Franz Wuketits. In questo nuovo orizzonte di ricerca, non è sorprendente trovare nelle opere dell’antropologo e sociologo britannico Gregory Bateson un’affermazione di sapore hegeliano come questa: «Quando le sequenze diventano circolari (o più complesse), la descrizione o proiezione di queste sulla logica, che è atemporale, diventa contraddittoria. Si generano paradossi che la logica non può tollerare». Anche qui, come nel caso del marxismo, il recupero – consapevole o meno – di categorie hegeliane è reso possibile dall’introduzione della temporalità.
L’approccio antiriduzionistico di Hegel trova èco nella definizione stessa di «sistema complesso» da parte del fisico tedesco Hermann Haken: «possiamo anche definire i sistemi complessi proprio come quei sistemi il cui comportamento non può essere compreso in maniera semplice a partire dal comportamento dei loro elementi». Anche la concezione degli organismi come «sistemi aperti» proposta dal biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy nella sua Teoria generale dei sistemi – ma lo stesso si potrebbe dire del concetto di «autopoiesi» proposto successivamente da Humberto Maturana e Francisco Varela – è pienamente compatibile con il concetto hegeliano del vivente: «ogni organismo è in sostanza un sistema aperto. Esso si mantiene in uno stato continuo di flusso verso l’interno e verso l’esterno, di costruzione mediante componenti e di disgregazione di tale costruzione, senza mai trovarsi, per tutto il tempo in cui vive, in uno stato di equilibrio chimico e termodinamico, ma conservandosi in un cosiddetto stato stazionario ben distinto da uno stato d’equilibrio». L’autoconservazione del vivente nella processualità e attraverso la processualità è così espressa da Gregory Bateson: è «l’intera massa di processi interrelati detta vita a operare per mantenere il nostro oggetto [di osservazione] in uno stato di cambiamento che garantisca il persistere di alcune costanti necessarie, come la temperatura del corpo, la circolazione sanguigna, la glicemia o addirittura la vita stessa». Non stupisce che lo stesso Bateson per questa via finisca col dissolvere le cose stesse, suggerendo «l’idea che vedere il mondo in termini di cose sia una distorsione suffragata dalla lingua e che la visione corretta del mondo sia in termini delle relazioni dinamiche che governano lo sviluppo».
Ritroviamo questa dissoluzione delle cose in processi negli scritti di Bertolt Brecht, che non è stato soltanto uno dei maggiori poeti del Novecento, ma anche uno dei più profondi interpreti della filosofia hegeliana. Nel suo Me-Ti. Libro delle svolte, una raccolta di sentenze che imita la forma dei testi classici della filosofia cinese, si legge infatti questa definizione della dialettica (che Brecht ribattezza «il Grande Metodo”): «Il Grande Metodo permette di riconoscere nelle cose dei processi e di utilizzare questi processi». In Brecht troviamo, in conformità alla tradizione marxista cui aderisce, un forte accento sulla contraddizione come connessa alla processualità e al mutamento nel tempo delle cose: così la formulazione «Uno non è soltanto uguale a uno, ma anche non uguale a uno» secondo Brecht «esprime il fatto che non si può trovare una cosa che si possa indurre a restare fedele a se stessa per molto tempo» (corsivo mio). Ma al tempo stesso in Brecht non manca un richiamo alla contraddizione logica : «Se diciamo ‘La scienza è la scienza’, questa formula è valida, a quanto sembra, perché la stessa parola è usata due volte. Ma la stessa parola designa cose diverse, e non solo in tempi diversi» (corsivo mio). La sintesi tra l’elemento della processualità e quello della contraddizione è data dalla comprensione del carattere drammatico e conflittuale del cambiamento, e dal fatto che questo tipo di cambiamento, e non una situazione di stasi, nella realtà rappresenta la regola, non l’eccezione: «Nel Grande Metodo la quiete è solo un caso limite del conflitto (ein Grenzfall des Streits)», scrive Brecht con parole che sembrano riecheggiare il motto eracliteo secondo cui «il conflitto (πóλεμος) è il padre di tutte le cose».
5. Conclusione: un risultato che è un ritorno
Processo, mutamento, conflitto. Al termine del nostro percorso, la rivincita hegeliana della contraddizione sull’identità sembra pervenire al suo estremo approdo: a porre in questione l’esistenza delle cose in quanto tali, per di più dissolvendole in un fluire mosso e contrastato. Vi è però da chiedersi se quello che ci appare come un punto di approdo, come un risultato, non sia in realtà al tempo stesso un ritorno. Più precisamente, un ritorno alle lontane origini della dicotomia identità/contraddizione, ossia alla convinzione eraclitea che «nessuna cosa è, invero, mai, bensì sempre diviene», e che quindi «tutte le cose sono e non sono»: convinzione che Aristotele nella sua Metafisica aveva ritenuto «impossibile» precisamente sulla base del principio di non contraddizione. “Impossibile”, chioserebbe Hegel, come l’Io e come le diverse forme della soggettività. In effetti, cos’altro è in ultima analisi la dialettica hegeliana se non la negazione di quella “impossibilità”?
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