lunedì 16 luglio 2018

Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  

Da: Attilio Esposto e Mario Tiberi (A cura di), “Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo storico”, Meridiana Libri, 1995, pp. 25-42.  
http://gondrano.blogspot.com - Fernando_Vianello è stato un economista e accademico italiano. 
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/1978-la-svolta-delleur.html 
                       https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/la-multinazionale-ecumenica-eugenio.html 


Introduzione.

«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).

L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).

2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero. 

Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.

domenica 15 luglio 2018

Panafricanismo e comunismo: intervista ad Hakim Adi

Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com - Link all’intervista originale in francese Période 
Intervista realizzata da Selim Nadi. - Hakim Adi (Ph.D. SOAS, London University) è autore di West Africans in Britain 1900-1960: Nationalism, Pan-Africanism and Communism (Londra, 1998); coautore di (con Marika Sherwood) di The 1945 Manchester Pan-African Congress Revisited (Londra, 1995) e Pan-African History: Political Figures from Africa and the Diaspora since 1787 (Londra, 2003). Si è occupato ampiamente della storia politica moderna dell’Africa e della diaspora africana, in particolare degli africani in Gran Bretagna. Inoltre, ha scritto tre libri di storia per bambini. Attualmente sta lavorando ad un documentario sulla West African Students’ Union http://www.wasuproject.org.uk. Il suo ultimo volume, Pan-Africanism and Communism: The Communist International, Africa and the Diaspora, 1919-1939, è stato pubblicato dalla Africa World Press nel 2013. Nel 2014 il suo libro per bambini The History of the African and Caribbean Communities in Britain è stato ristampato per la terza volta.
Parallelamente alla storia dominante dei partiti comunisti europei, incentrata sulla classe operaia metropolitana, è possibile rintracciare la traiettoria sotterranea di quei militanti comunisti e panafricani, minoritari nei loro partiti, ma sostenuti da Mosca nel periodo tra le due guerre. Si tratta di un epoca nella quale i giovani partiti comunisti sono dominati, per quanto riguarda la metropoli, da Bianchi e, nelle colonie, da coloni. Al fine di combattere l’opportunismo e lo sciovinismo, più o meno espliciti, di questi militanti, l’Internazionale comunista procedette alla strutturazione di una serie di organizzazioni transnazionali, incaricate di coordinare l’attività rivoluzionaria circa la «questione nera»: Sudafrica, colonie dell’Africa nera, segregazione negli Stati Uniti, ecc. Hakim Adi racconta in questa intervista una storia inedita, ovvero quella di un originale incontro tra                                                                                       comunismo, nazionalismo nero e panafricanismo. 

Come definiresti il panafricanismo?
Il panafricanismo può essere considerato, al contempo, come un’ideologia e come un movimento sfociante dalle lotte comuni degli afro-discendenti, tanto in Africa quanto nella diaspora africana, contro lo schiavismo, il colonialismo così come contro il razzismo anti-africano e le diverse forme di eurocentrismo che lo accompagnano. I termini «panafricano» e «panafricanismo» non sono emersi fino alla fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma era già presente una forma embrionale di panafricanismo nel XVIII secolo,  in organizzazioni abolizioniste come la British-based Sons of Africa, gestita da ex-schiavi africani quali Olaudah Equiano e Ottobah Cugoano, che riconoscevano la necessità per gli africani di unirsi al fine di difendere interessi comuni.
Il panafricanismo ha assunto differenti forme in diverse epoche, ma la sua caratteristica fondamentale è consistita nel riconoscimento del fatto che gli africani, quelli del continente come quelli della diaspora, devono far fronte a forme comuni di oppressione, sono impegnati in una lotta comune per la liberazione e, dunque, condividono un destino comune. Il panafricanismo, quindi, riconosce la necessità dell’unità tra africani al fine di liberarsi, ma anche il desiderio di unità del continente africano. In generale, difende l’idea secondo la quale gli africani della diaspora condividono un’origine comune con quelli del continente, riconoscendo ai primi il diritto al ritorno nella loro patria d’origine. 
In Pan-Africanism and Communism, non mi sono occupato principalmente all’epoca in cui il movimento panafricano era guidato da personalità come Garvey o Du Bois. Da parte del Comintern tale panafricanismo era percepito in maniera critica, come essenzialmente riformista e incapace di condurre alla liberazione africana. Ciò nondimeno, il Comintern, sotto l’influenza dei comunisti neri, adotto aspetti del panafricanismo, in particolare l’idea per cui gli africani condividevano forme di oppressione ed erano impegnati in una lotta comune. Ugualmente, difendeva l’idea di Stati Uniti socialisti d’Africa. È inoltre doveroso ricordare che, nel periodo tra le due guerre mondiali, alcuni leader panafricani erano anche, si pensi a George Padmore, membri dell’Internazionale comunista.
In quale misura la Rivoluzione d’ottobre del 1917 ha avuto un impatto sull’Africa e la diaspora africana? Perché la Rivoluzione russa ha avuto una tale influenza sull’Egitto e il Sudafrica?

venerdì 13 luglio 2018

ONG: Organizzazioni Non poco Governative, il braccio disarmante del potere transnazionale.- Gianfranco Pala

Da: la Contraddizione n. 84 (2001) https://rivistacontraddizione.wordpress.com/  - gianfrancopala è un economista italiano. 
Leggi anche: https://rivistacontraddizione.wordpress.com/2018/11/25/tiremm-innanz/ 

La “Casa” ovvero la Cosa dell’Altro mondo

Freedom house: questo è il nome, brillantissimo, di una delle più cospicue Ong [le cosiddette organizzazioni non governative!], segnalatasi per le sue ripetute operazioni a pro del grande capitale transnazionale – e a propaganda di esso – e delle istituzioni sovrastatuali che l’assecondano; essa dice di sé: “è una organizzazione non profit e non di parte, una voce chiara per la democrazia e la libertà nel mondo, che opera sull’in­tero pianeta per diffondere la libertà politica ed economica”. Quanto al suo carattere “governativo”, che invoca “libertà” e “de­mocrazia” per l’universo mondo, non c’è ombra di dubbio, dalla forma di governo nazionale a quella sovranazionale. Per quei pochi che ancora non sono avvezzi alla lingua inglese, è bene far osservare che “freedom house” sta a significare semplicemente “casa della libertà”! Si soppesi, perciò, quanta sia la fantasia con cui il prof. Buttiglione abbia suggerito al cav. Berlusconi il nome per il suo “polo” – in perfetto allineamento Cia.

Che la “n” di codeste organizzazioni stia per “non poco”, anziché per il preteso “non”, l’abbiamo già ripetutamente detto, ancorché non sistematicamente [cfr. nn. 46, 47, 60, 72-75, 77, 80, 81, 83]. Merita adesso con maggiore precisione riepilogare il tutto per fare il punto sulle loro caratteristiche “gove­rnative”; queste sono tese sia a procurare vantaggi economici al grande capitale, quello soprattutto che vola all’estero, sia a bieche operazioni di “copertura”, che in italiano convien chiamare di “spionaggio”, di propaganda, ovvero di filtro per attività illecite (finanziamenti neri, traffico di droga, fornitura di armi, ecc). La subordinazione che asseconda la falsa coscienza dell’“umanitario” apre una fetta di mercato, come si dirà più oltre, attraverso la formazione di varie O(n)g, banche etiche, isti­tuzioni (come Medici senza frontiere), fondazioni come quel­la “per una società aperta” di Soros, ecc., le quali agevolano la stratificazione di un mercato finanziario paral­lelo e funzionale alle grandi linee creditizie.

Quello “umanitario” è un mercato facile, redditizio e di sicura espansio­ne. Nell’era del capitale transnazionale, “aiuto” equivale a guadagno, e pertanto i gestori degli “aiuti” debbono azionare microimprenditori, anche individuali, per rispondere agli interessi della macroeconomia dominante. I movimenti di classe e il lo­ro sviluppo teorico non possono ignorare l’ampiezza e la portata mondiale di questa messinscena e aggressione antiproletaria, che non è solo menzogna o dispotismo ma soprattutto utile, profitto. Ma proprio per la complessità di tali funzioni “governative”, conviene procedere con ordine, cominciando da quelle economiche per finire con quelle maggiormente legate ai servizi segreti.

Una precisazione è opportuna prima di procedere. Va da sé – come è normale – che si può mandar salva dall’impostazione stessa delle critiche, che precede, e dal loro successivo sviluppo quella piccola minoranza di Ong che certamente c’è e che prosegue con relativa indipendenza nella sua lotta di classe antimperialistica. Non per nulla codeste organizzazioni antagoniste non ricevono fondi da Bm, Fmi o istituzioni “governati­ve” usamericane ed europee, e si sostengono solo assai limitatamente con l’autofinanziamento militante. Tut­tavia non li ricevono neppure organizzazioni “volontarie” minori che con la lotta di classe non hanno nulla a che fare, anzi; esse pretendono di diffondere l’ideolo­gia “buonista” e caritatevole, del soccorso ai diseredati, agli umili e ai poveri, secondo cui non ci sono “né buoni, né cattivi” [come sostengono, nettamente al contrario di noi, quelli di Emergency], ideologia che fa il paio con la sparizione “neo-revisionistica” delle differenze tra destra e sinistra

Ma, appunto per questo – cioè la loro scarsissima forza, ossia la loro disarmante debolezza – rispetto all’invadenza delle grandi O(n)g [paradossalmente, si può dire che tra queste la meno compromessa potrebbe essere proprio una delle più antiche organizzazioni, ricca di suo, Amnesty international, nonostante le sue frequenti “amnesie” filoamericane di contro alla sua ferrea memoria anticomunista] legate alle transnazionali e alle organizzazioni sovrastatuali, l’infima minoranza di quelle piccole e autonome può ben poco, oggi, sotto il predominio del modo capitalistico della produzione sociale: questa è esattamente la stessa cosa che si può dire a proposito degli “ec­toplasmi” delle esistenti organizzazioni politiche comuniste sparse nel mondo e nei singoli paesi.

Va anche premesso a scanso di equivoci – ma ciò dovrebbe spiegare molte cose ai “comunisti” – che mai le O(n)g hanno preteso di porsi in antitesi al modo di produzione capitalistico, e mai perciò hanno rivendicato la proprietà delle condizioni oggettive della produzione. Ma non sono neppure arrivate almeno ad “ac­cettare” negativamente il sistema capitalistico, a es. come i sindacati di classe i quali fanno della lotta economica sulle condizioni antagonistiche del lavoro salariato il loro fulcro. Molti nell’“asinistra” affrontano la questione solo nel suo aspetto esterno incombente [Bm e Fmi] e non nei suoi potenziali aspetti “dal basso”, accompagnando il pentimento degli ex marxisti e la loro conversione al “nuovismo”. Cosicché America latina, Europa dell’Est, Africa, possano essere portati dagli organismi sovrastatuali come “testimonianze” del trionfo del “libero mercato” e della “crisi del marxismo”.

Si può anche rammentare quanto ebbe a scrivere Marx [per le Istruzioni ai delegati Ail, nel 1864 – cfr. L’inchiesta operaia, la Città del Sole, Napoli 1994-2000], a proposito delle piccole cooperative. “Ristretto tuttavia alle forme insignificanti in cui i singoli schiavi salariati possono ela­borarlo con i loro sforzi individuali, il sistema cooperativo non trasformerà mai la società capita­listica. Per modificare la produzione sociale in un unico sistema vasto e armonioso di lavoro li­bero e cooperativo, si richiedono cambiamenti sociali generalicambiamenti delle condizioni generali della società che non saranno mai realizzati se non con il trasferimento delle forze or­ganizzate della società, cioè il potere dello stato, dai capitalisti e dai proprietari fondiari ai pro­duttori stessi”.

La magnifica invenzione 

martedì 10 luglio 2018

Libertà e destino nella tragedia greca - Salvatore Natoli

Da: Teatro Franco Parenti - Salvatore_Natoli è un docente e filosofo italiano. 
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/06/antigone-o-i-rischi-della.html 
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html 
                       https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/07/essenza-e-forma-nellintroduzione-alla.html#more 



“Ma l’uomo è davvero vincolato a un’ineluttabile necessità? Oppure ha possibilità di scelta e se prende quelle sbagliate lo fa perché troppo presume di sé e ignora o trascura il precetto delfico “conosci te stesso”. E così non riesce a trovare la propria misura, o forse non si mette neppure a cercarla. Ma l’apprende dal dolore: il dolore è, infatti, sapere, il sapere dolore. Per dirla con Nietzsche, i Greci scoprirono la misura solo perché videro l’abisso. È lo sfondo tragico che ha svelato all’uomo come la sua pretesa di dismisura possa a ogni momento perderlo.” 

domenica 8 luglio 2018

ESSENZA E FORMA NELL'INTRODUZIONE ALLA FENOMENOLOGIA HEGELIANA - Stefano Garroni

Da: mirko.bertasi Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. - https://www.facebook.com/groups 
E’ possibile ascoltare le registrazioni audio degli incontri in collaborazione con Stefano Garroni andando su questo canale di Youtube: http://www.youtube.com/user/mirkobe79
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2010/12/sulla-vorrede-hegeliana-stefano-garroni.html
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/la-tenda-di-pitagora-carlo-sini.html                   

1 - Nella Vorrede (prefazione) di un’opera filosofica, si crede erroneamente –così nota Hegel[1] - di poterne indicare l’essenza (intesa come lo scopo,  che l’A. si è prefissato; il rapporto, in cui si trova la sua trattazione rispetto ad altri lavori, che hanno affrontato lo stesso argomento ed, in fine, il risultato a cui l’opera è pervenuta), contrapponendola, tale essenza, allo sviluppo, che la ricerca ha seguito per giungere ai suoi risultati. Ma ciò, avverte Hegel, non è confacente rispetto alla natura della cosa (cioè, l’essenza della filosofia)  ed è, perfino, contrario allo scopo (dunque, la messa in chiaro di codesta essenza).

Richiamandosi, di fatto, anche ad un orientamento, che fu dello scetticismo antico, e continuando a riflettere sulla Vorrede di un’ opera filosofica, Hegel chiarisce che offrire un’informazione storica a proposito della tendenza e della posizione (che caratterizzano la filosofia in questione), del (suo) contenuto generale e dei (suoi) risultati, oppure prender le mosse da un insieme ordinato di asserzioni ed assicurazioni, assunte e proposte senz’altro circa il vero[2],  “non rappresentano il modo adatto di esporre la verità filosofica.”

Insomma, ciò su cui Hegel vuol richiamare l’attenzione è che, partendo dall’essenza stessa della filosofia –che consiste nell’includere entro di sé il particolare-, si inferisce erroneamente che sia proprio nello scopo e nei risultati finali[3], che quell’essenza si mostra più chiaramente, relegando, invece, ai margini, perché inessenziale,  “lo                                                                                                          sviluppo dell’indagine”, che ha condotto a quello scopo e a quegli esiti.

Un analogo errore vien commesso anche riguardo la scienza (Hegel fa l’esempio della biologia), quando si crede che conoscere scientificamente equivalga a conoscere “parti separate dei corpi” –le quali, però, proprio perché così indagate, “risultano prive di vita” ed è chiaro che, fissa questa angolatura, la ricerca continua di una conoscenza più dettagliata del particolare non può far uscire dal limite di impostazione iniziale.[4]

Già da queste prime battute possiamo ricavare due osservazioni, destinate ad essere approfondite nel proseguo  del testo.

venerdì 6 luglio 2018

GRAZIE DI TUTTO DOMENICO LOSURDO

Da: https://materialismostorico.blogspot.com/2018/07/domenico-losurdo-1941-2018 - https://domenicolosurdo.blogspot.com/2018/07/

Dall'intervista che chiude il libro di Stefano G. Azzarà L''humanité commune : Dialectique hégélienne, critique du libéralisme et reconstruction du matérialisme historique chez Domenico Losurdo (Delga, Paris 2012).

Domanda. Come incide questa debolezza teorica sullo stato della sinistra attuale? L'Europa si confronta oggi con trasformazioni imponenti che stanno mutando il volto del mondo. Sono trasformazioni che riguardano i rapporti di forza internazionali sul piano politico e su quello economico, ma anche l'equilibrio tra Stato e mercato, la natura della democrazia, le grandi migrazioni. La sinistra non sembra avere oggi né idee, né prospettive politiche.

Losurdo. Con la crisi prima e col crollo poi del «socialismo reale», in Occidente e in Italia in modo particolare la sinistra ha smarrito ogni reale autonomia. Sul piano storico ha sostanzialmente desunto dai vincitori il bilancio storico del Novecento. Due sono i punti centrali di tale bilancio: per larghissima parte della sua storia, la Russia sovietica è il paese dell'orrore e persino della follia criminale. Per quanto riguarda la Cina, il prodigioso sviluppo economico che si verifica a partire dalla fine degli anni 70 non ha nulla a che fare col socialismo ma si spiega soltanto con la conversione del grande paese asiatico al capitalismo. A partire da questi due capisaldi ogni tentativo di costruire una società post-capitalistica è oggetto di totale liquidazione e persino di criminalizzazione, e l'unica possibile salvezza risiede nella difesa o nel ristabilimento del capitalismo. E paradossale, ma sia pure con sfumature e giudizi di valore talvolta diversi, questo bilancio viene spesso sottoscritto dalla sinistra, compresa quella «radicale».

Ancora più grave è la subalternità di cui la sinistra dà prova sul piano più propriamente teorico. Nell'analizzare la grande crisi storica che si sviluppa nel Novecento, l'ideologia dominante evita accuratamente di parlare di capitalismo, socialismo, colonialismo, imperialismo, militarismo. Queste categorie sono considerate troppo volgari. I terribili conflitti e le tragedie del Novecento sono invece spiegate con l'avvento delle «religioni politiche» (Voegelin), delle «ideologie» e degli «stili di pensiero totalitari» (Bracher), dell«assolutismo filosofico» ovvero del «totalitarismo epistemologico» (Kelsen), della pretesa di «visione totale» e di «sapere totale» che già in Marx produce il «fanatismo della certezza» (Jaspers), della «pretesa di validità totale» avanzata dalle ideologie novecentesche (Arendt). Se questa è l'origine della malattia novecentesca, il rimedio è a portata di mano: è sufficiente un'iniezione di «pensiero debole», di «relativismo» e di «nichilismo» (penso al Vattimo degli anni Ottanta). In tal modo non solo la sinistra fornisce il suo bravo contributo alla cancellazione di capitoli fondamentali di storia: i massacri e i genocidi coloniali sono stati tranquillamente teorizzati e messi in pratica in un periodo di tempo in cui il liberalismo si coniugava spesso con l'empirismo e il problematicismo; prima ancora dell'avvento del pensiero forte novecentesco, la prima guerra mondiale ha imposto col terrore a tutta la popolazione maschile adulta la disponibilità e la prontezza ad uccidere e ad essere uccisi. Per di più, come medico per eccellenza della malattia novecentesca viene spesso celebrato Nietzsche, che pure si attribuisce il merito di essersi opposto «ad una falsità che dura da millenni» e che aggiunge: «Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata» (Ecce homo, Perché io sono un destino, 1). Così enfatica è l'idea di verità, che coloro i quali sono riluttanti ad accoglierla sono da considerare folli: sì, si tratta di farla finita con le «malattie mentali» e con il «manicomio di interi millenni» (L'Anticristo, § 38). D'altro canto, il presunto campione del «pensiero debole» e del «relativismo» non esita a lanciare parole d'ordine ultimative: difesa della schiavitù quale fondamento ineludibile della civiltà; «annientamento di milioni di malriusciti»; «annientamento delle razze decadenti»! La piattaforma teorico-politica suggerita a suo tempo da Vattimo ma che Vattimo stesso pare oggi mettere in discussione - mi sembra insostenibile da ogni punto di vista.

Altre correnti del pensiero dominante indicano il rimedio alle tragedie del Novecento non già nel relativismo, ma, al contrario, nel recupero della saldezza delle norme morali, sacrificate da comunisti e nazisti sull'altare del machiavellismo e della Realpolitik (Aron e Bobbio) ovvero della filosofia della storia e della presunta necessità storica (Berlin e Arendt). Nella sinistra e nella stessa sinistra radicale (si pensi a «Empire» di Hardt e Negri) è divenuta un punto di riferimento soprattutto Arendt. Rimossa o sottoscritta è la liquidazione a cui lei procede di Marx e della rivoluzione francese con la connessa celebrazione della rivoluzione americana (e il conseguente indiretto omaggio al mito genealogico che trasfigura gli Usa quale «impero per la libertà», secondo la definizione cara a Jefferson, che pure era proprietario di schiavi). In questo caso ancora più assordante è il silenzio sulla tradizione colonialista e imperialista alle spalle delle tragedie del Novecento. Arendt condanna lidea di necessità storica nella rivoluzione francese, e soprattutto in Marx e nel movimento comunista; dimentica però che il movimento comunista si è formato nel corso della lotta contro la tesi del carattere ineluttabile e provvidenziale dell'assoggettamento e talvolta dell'annientamento delle «razze inferiori» ad opera dell'Occidente, si è formato nel corso della lotta contro il «partito del destino», secondo le definizione cara a Hobson, il critico inglese dell'imperialismo, letto e apprezzato da Lenin. Arendt contrappone negativamente la rivoluzione francese, sviluppatasi all'insegna dell'idea di necessità storica, alla rivoluzione americana, che trionfa all'insegna dell'idea di libertà. In realtà l'idea di necessità storica agisce con modalità diverse in entrambe le rivoluzioni: se in Francia viene considerata ineludibile anche l'emancipazione degli schiavi, che è in effetti è sancita dalla Convenzione giacobina, negli Usa il motivo del Manifest Destiny consacra la conquista dell'Ovest, inarrestabile nonostante la riluttanza e la resistenza dei pellerossa, già agli occhi di Franklin destinati dalla «Provvidenza» ad essere spazzati via.

Arendt muore nel 1975, non ancora settantenne. In questa morte precoce c'è un elemento paradossale di fortuna sul piano filosofico. Solo successivamente intervengono gli sviluppi storici che falsificano totalmente la piattaforma teorica della filosofa scomparsa: a partire dalla presidenza Reagan sono proprio gli Stati Uniti a impugnare la bandiera della filosofia della storia contro l'Urss e i paesi che si richiamano al comunismo, destinati a finire nella «spazzatura della storia» e comunque collocati ai giorni nostri lo proclamano Obama e Hillary Clinton «dalla parte sbagliata della storia». Più longevi ma meno fortunati sul piano filosofico sono i devoti di Arendt, che continuano a ripetere la vecchia filastrocca, senza accorgersi del radicale rovesciamento di posizioni che nel frattempo si è verificato sul piano mondiale.
Subalterna sul piano del bilancio storico così come delle categorie filosofiche, la sinistra (compresa quella radicale) è chiaramente incapace di procedere a un'«analisi concreta della situazione concreta». Tanto più, se teniamo presente che alla catastrofe teorico-politica ha contribuito ulteriormente una mossa sciagurata, quella che contrappone negativamente il «marxismo orientale» al «marxismo occidentale». Alle spalle di questa mossa agisce una lunga e infausta tradizione. In Italia, subito dopo la rivoluzione d'ottobre, Filippo Turati, che continua a fare professione di marxismo, non riesce a vedere nei Soviet null'altro che l'espressione politica di un«orda» barbarica (estranea e ostile all'Occidente). A partire dagli anni 70 del secolo scorso, la divaricazione tra marxisti orientali e marxisti occidentali ha visto contrapporsi da un lato marxisti che esercitano il potere e dall'altro marxisti che sono all'opposizione e che si concentrano sempre più sulla «teoria critica», sulla «decostruzione», anzi sulla denuncia del potere e dei rapporti di potere in quanto tali, e che progressivamente nella loro lontananza dal potere e dalla lotta per il potere ritengono di individuare la condizione privilegiata per la riscoperta del marxismo «autentico». E una tendenza che ai giorni nostri raggiunge il suo apice nella tesi formulata da Holloway, in base alla quale il problema reale è di «cambiare il mondo senza prendere il potere»! A partire da tali presupposti, cosa si può capire di un partito come il Partito comunista cinese che, gestendo il potere in un paese-continente, lo libera dalla dipendenza economica (oltre che politica), dal sottosviluppo e dalla miseria di massa, chiude il lungo ciclo storico caratterizzato dall'assoggettamento e annientamento delle civiltà extra-europee ad opera dell'Occidente colonialista e imperialista, dichiarando al tempo stesso che tutto ciò è solo la prima tappa di un lungo processo all'insegna della costruzione di una società post-capitalistica?

giovedì 5 luglio 2018

- IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE. Classe, genere e natura. - Riccardo Bellofiore

Da: http://www.palermo-grad.com - il-rosso-il-rosa-e-il-verde - riccardo.bellofiore è docente di "Analisi Economica", "Economia Monetaria" e "International Monetary Economics" e "Dimensione Storica in Economia: le Teorie" presso il Dipartimento di Scienze Economiche "Hyman P. Minsky" dell'Università di Bergamo. (Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/economia-per-i-cittadini-riccardo.html 

      Qui il video dell'incontro: https://www.facebook.com/418633548290438/videos/1057843317702788/

Le idee contenute in questo contributo sono state presentate a Roma, il 27-28 febbraio 1988 al seminario “Emergenza ambientale, crisi delle politiche, movimenti”; esse hanno anche costituito l’oggetto di una discussione svoltasi a Torino nella sede del C.r.i.c.. Solo la cortese insistenza dei compagni di Roma e di Torino mi spinge a mettere per iscritto delle riflessioni che sento ancora insufficienti; ma gioca anche un po’ la convinzione che vada superata una situazione come quella italiana attuale in cui il rapporto tra marxismo, femminismo e pensiero verde è per lo più di indifferenza, di ostilità o al meglio di ossequio di maniera. Ringrazio Stefano Alberione, Maria Teresa Fenoglio, Roberto Finelli e Mimmo Porcaro per i commenti, i consensi e i dissensi. A Marco Revelli sono debitore di un ringraziamento particolare: le discussioni sulle questioni qui trattate sono state così tante, e l’impressione di porsi spesso interrogativi comuni è stata tale, che mi è difficile distinguere ciò che è mio e ciò che è suo nelle opinioni che avanzo, e facendolo rischierei di attribuirgli opinioni che non condivide ed è bene rimangano di mia responsabilità. 

Considerazioni inattuali su centralità operaia e nuovi movimenti 

"​Il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento naturale dell’uomo è divenuto umano, ossia fino a che punto la sua umana essenza gli è diventata esistenza naturale, fino a che punto la sua umana natura gli è diventata naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il bisogno dell’uomo è divenuto umano bisogno; fino a che punto, dunque, l’altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo, e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità."  
(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 225. Corsivi nel testo) 

"Don’t you know 
They’re talkin’ about a revolution
It sounds like a whisper"
(Tracy Chapman,Talkin’ bout a revolution
                                                                                           Introduzione

Nell’ultimo decennio vi è stata una sostanziale disattenzione, quando non inimicizia, tra quel che rimaneva del marxismo critico e le culture femminista ed ambientalista. Nelle pagine che seguono vorrei provare, dal mio punto di vista, ad interrompere questa sorta di reciproco disinteresse, nel modo forse più scomodo: entrando nel merito del pensiero rosa e del pensiero verde, presentandone un inizio di critica, e ciononostante accettando la sfida lanciata dal femminismo e dai verdi: convinto, come sono, che gli attacchi portati in questi anni dai cosiddetti nuovi movimenti alla cultura della sinistra, vecchia e nuova, siano spesso tutt’altro che infondati. I lettori (e le lettrici) giudicheranno se il tentativo sia troppo coraggioso o troppo ingenuo.

Anticipo subito, per chiarezza, il punto di vista da cui parto ed il filo del ragionamento. Il mio discorso si regge su due convinzioni: che non siano esaurite tutte le potenzialità della rilettura ‘operaista’ del marxismo che ha permeato parte della nuova sinistra italiana (e dunque anche chi, come me, ha mosso i primi passi politici nel “manifesto”); e che non vi sia contraddizione ma rapporto fecondo tra ‘questo’ marxismo e la rottura operata dal sessantotto. Sono però anche convinto che ciò che c’è di positivo in questa recente tradizione possa vivere solo se essa esercita su se stessa una pesante riflessione autocritica.

Nella mia riflessione tenterò di impiegare le nozioni di uguaglianza, di democrazia e di libertà come una cartina di tornasole, o se volete come una sorta di controllo di qualità, del potenziale emancipativo tanto dei movimenti che si rifanno alla classe operaia quanto dei cosiddetti nuovi movimenti, e dunque anche di quelle riflessioni che vogliono far capo alle cosiddette nuove soggettività. La tesi centrale del mio ragionamento è che tanto dentro il pensiero femminista quanto dentro il pensiero verde sono presenti non poche, e preoccupanti, ambiguità: si incontrano spesso argomentazioni che recuperano il valore delle differenze fuori o contro l’eguaglianza; ed è possibile individuare dentro l’uno e l’altro tendenze antiegualitarie e, forse, persino antidemocratiche. Non può essere nascosto, in altri termini, un potenziale esito conservatore e reazionario delle cultura della differenza sessuale e dell’emergenza ambientale. 

mercoledì 4 luglio 2018

La grande lezione di ERNST BLOCH - Pierluigi Vuillermin

Da: https://sinistrastoriaeteoria.myblog.it - https://esseresinistra.wordpress.com/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/09/psicologia-delle-folle-1895-prima-parte.html
                    https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/01/freud-e-la-massenpsychologie-stefano.html


Weimar e noi (attraverso Bloch) - (2011)
1. Premessa (anti-borghese)

Secondo l’Economist (notizia di qualche tempo fa) per la prima volta nella storia dell’umanità circa metà della popolazione mondiale è entrata a far parte della middle class. Ebbene, ne ha fatta di strada la vecchia piccola borghesia negli ultimi due secoli. Nelle aree emergenti dell’Impero la sua avanzata è incessante. In nome del progresso, essa sostiene la crescita economica e predica le virtù democratiche del benessere materiale. In Occidente, invece, si constata il declino dei ceti medi. Con la competizione globale, l’incubo del declassamento, in casa propria, è una minaccia costante. Ora, questa “nuova borghesia globale” è ancora una classe rivoluzionaria, nel significato tradizionale del concetto? Tanto per essere chiari, citando Hermann Broch, spaventevole progresso, quello alla cui testa marcia il piccolo borghese. La domanda che guida la presente rilettura del libro di Ernst Bloch Eredità del nostro tempo, è molto semplice. In un’epoca di crisi dove vanno politicamente i ceti medi impoveriti? La vicenda della Repubblica di Weimar è risaputa. Mentre l’operaio disoccupato guardava a Mosca, l’impiegato disoccupato si affidò a Hitler. Sappiamo tutti come andò a finire. La questione è tuttora di grande e urgente attualità. Soprattutto oggi, in tempi di recessione economica e conflitto sociale. Di recente il quotidiano La Stampa, recensendo un saggio del sociologo Arnaldo Bagnasco sul ceto medio, così titolava: la classe media lascia il salotto e va alla guerra. In buona sostanza l’autore dell’articolo sosteneva che, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, di incertezza e insicurezza, la classe media abbandona i suoi comodi rifugi e scende rabbiosamente in piazza a lottare in difesa dei diritti o dei privilegi, a seconda del punto di vista. Un po’ in tutta Europa, infatti, stiamo assistendo a manifestazioni e proteste, a volte anche molto violente, da parte di ampi strati di quella popolazione che si considera classe media. Certo, più che con la rivoluzione abbiamo a che fare con rivolte. Così almeno sembra. Differenza non da poco. Tuttavia questo generale malcontento dei ceti medi rischia di prendere una deriva reazionaria e protofascista.

Come ha acutamente ricordato Benedetto Vecchi sul manifesto, vengono in mente gli scenari iperrealisti alla James G. Ballard. In Millenium People la classe media, strangolata da mutui e indebitamento, sopraffatta dalla riduzione dello stato sociale, rincari ingiustificati e da un proibitivo costo della vita, si trasforma in una massa inferocita, pronta a bruciare e distruggere ogni cosa, persino le proprie lussuose ville, simbolo della mentalità borghese. Oppure, incubo ancora peggiore, nel Regno a venire, la ribellione paranoide della piccola borghesia occidentale prende tinte razziste e xenofobe contro gli alieni venuti da fuori.

martedì 3 luglio 2018

Conflittualità intercapitalistica (anarchia della produzione) - Gianfranco Pala


Da: L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole  la Contraddizione 


Un segno distintivo e caratteristico del modo di produzione capitalistico è dato dalla molteplicità dei capitali in reciproca conflittualità. Senza tale molteplicità conflittuale – come un’illusoria compatta unicità – esso neppu­re sarebbe concepibile. Da codeste contraddizioni promana la caducità, sia ricorrente che tendenziale, del siste­ma e lo stesso antagonismo di classe tra borghesia e proletariato che è l’altro, e il più esteriore e apparente, segno distintivo.

Con lo sviluppo del mercato mondiale – nell’epoca dell’imperialismo – il capitale (che Marx definiva “indu­striale” in generale) si presenta in misura crescente “fuso” con la sua forma monetaria (e pure con la sua forma merce) nella figura di capitale finanziario. Per tale motivo, sempre più compiutamente il capitale complessivo sociale è determinato duplicemente e contraddittoriamente, nel senso anzidetto: da un lato, di contro al proleta­riato, esso deve essere concepito come classe, come capitale collettivo, entità unica e intera; ma dall’altro, en­tro la formazione economica sociale capitalistica in tutta la sua complessità e articolazione, esso non può che essere costituito dalle  singole individualità dei molteplici capitali particolari, tra loro contrapposti nelle diver­se forme funzionali.

Questo duplicità contraddittoria caratterizza l’anarchia del modo di produzione capitalisti­co, fondato appunto sulla molteplicità e individualità dei capitali.

La divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci indipendenti l’uno dall’altro, e ciò permane e si accresce anche con il passaggio al capitalismo monopolistico finanziario su scala mondiale. La distribuzione tra le differenti attività sociali di lavoro di codesti produttori capitalistici di merci e dei loro mezzi di produzione è piuttosto arbitraria e casuale, e acuisce le difficoltà del sistema ogni volta che tale casualità moltiplica le interruzioni del ciclo complessivo del capitale. Perciò, pro­prio contro questa dispersione del capitale complessivo sociale in molti capitali individuali agisce l’attrazione di questi ultimi, la concentrazione di capitali già formati – il processo di fusioni e acquisizioni – che cerca di su­perare la loro autonomia individuale. Codesta è una vera lotta attraverso l’espropriazione del capitalista da par­te del capitalista, la trasformazione di molti capitali minori in molti capitali più grossi, la centralizzazione del capitale.

lunedì 2 luglio 2018

- “L’attualità del Capitale – Nel bicentenario della nascita di Karl Marx” - É.Balibar, G.Marramao, A.M.Iacono, C.Giorgi, C.Offe, A.Del Re, R.Bellofiore, S.Petrucciani, L.Basso, P.Favilli, L.Pennacchi, G.Cesarale, A.Montebugnoli, R.Finelli, A.Amendola.

Da: fondazione basso 
Questo seminario intende rileggere il lascito di Marx e in particolare del Capitale alla luce di questioni che oggi rendono particolarmente vive le analisi marxiane, facendo di questa opera uno strumento irrinunciabile al fine di comprendere le dinamiche del capitalismo contemporaneo. Non a caso negli ultimi anni Marx torna ad essere interrogato da più parti del globo e le sue categorie interpretative tornano ad essere utilizzate per far luce sia sui rapporti di dominio odierni, sia sui conflitti e le lotte che sfidano le dinamiche, i dispositivi e l’organizzazione dell’attuale capitalismo. I temi proposti intendono interrogare il Capitale alla luce del presente, sulla base dell’assunto che il pensiero di Marx è stato ed è ancora, più che mai nel contesto odierno, un metodo per interpretare e per pensare ad una trasformazione possibile. «Leggere Il Capitale» è ancora all’ordine del giorno.



ÉtienneBalibar, L’attualità del Capitale di Marx (11,50)
Giacomo Marramao, General Intellect: il cervello sociale come bene comune (47,50)
Alfonso Maurizio Iacono, La cooperazione (1,26,50)
Chiara Giorgi, L’interpretazione di Lelio Basso (1,56,00)
Claus Offe, The liberal democracy ‘cube’ under the onslaught of populist politics (2,27,13)
Alisa Del Re, Inchiesta operaia e riproduzione (3,43,53)
Stefano Petrucciani, Reificazione: le avventure di un concetto (4,22,20)
Luca Basso, Lo Stato nel Capitale fra genealogia e pratica politica (4,51,58)
Paolo Favilli, Il Capitale e la storia: appunti (5,24,25)
Laura Pennacchi, Feticismo della merce e alienazione (6,02,42)
Giorgio Cesarale, Logica e processo conoscitivo nel Capitale (6,41,22)
Alessandro Montebugnoli, La questione della produzione materiale (7,07,35)
Roberto Finelli, Il Capitale come Soggetto. Il circolo del presupposto-posto (7,35,36)
Adalgiso Amendola, Produzione di merci/produzione di soggettività (8,05,05)
Riccardo Bellofiore, Teoria del valore e critica dell’economia politica: la riscoperta del Capitale come teoria monetaria dello sfruttamento (8,32,00)

domenica 1 luglio 2018

- Chi sono i sovranisti-costituzionalisti e cosa vogliono veramente - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 


Mondializzazione e sovranismo: due strategie per mantenere in vita il sistema capitalistico?

Scrive il sociologo francese Jean-Claude Paye su Voltairenet.org che lo scontro tra i democratici e la maggioranza dei repubblicani può essere interpretato come il “conflitto tra due tendenze del capitalismo statunitense, quella portatrice dei valori della mondializzazione e quella che sprona per rilanciare lo sviluppo industriale di un paese economicamente in declino”. Questo conflitto nasce per il fatto che negli ultimi vent’anni, a causa della grave crisi della Russia e dell’arretratezza della Cina, gli Stati Uniti sono stati l’unica superpotenza, ruolo ormai messo in discussione dal risorgere e dall’avanzamento dei paesi rivali. Questo cambiamento di situazione richiede da parte degli Stati Uniti un ripensamento della strategia internazionale, se vogliono rimanere sempre al vertice, come pretende la loro classe dirigente.
La scelta adottata da Trump è quella di rilanciare il suo paese in declino, deindustrializzato a causa della libera circolazione dei capitali e della mondializzazione neoliberale (imposte e volute dalle loro transnazionali), portando avanti politiche di carattere protezionistico – come si è visto negli ultimi tempi –, mandando in frantumi le istituzioni multilaterali (per esempio, il ritiro dalla Commissione dei diritti umani), cercando di stabilire trattati bilaterali, che beneficino l’economia statunitense (come sostiene Alberto Negri); inoltre, come vari analisti scrivono, tentando di ridurre il disavanzo commerciale con la Cina e con la Germania, favorendo il ritorno dei capitali fuggiti e finanziando il rinnovamento delle infrastrutture deteriorate da anni di abbandono.
Sebbene Trump si proponesse misure più energiche, non ha potuto fare di più che beneficiare i redditi più elevati [1], tendenza inaugurata da Reagan, e agevolare il ritorno dei capitali detassati, per fare un favore alle transnazionali, che andranno ad ingrossare gli investimenti finanziari, non trovando altre possibilità di valorizzarsi.
In questo nuovo contesto cambia anche la logica della guerra, essendo diversi i mezzi per tentare di mantenere in vita il ruolo di potenza unica statunitense (obiettivo di entrambe le fazioni). Nel caso del protezionismo di Trump la guerra è utilizzata per accendere conflitti locali che possano indebolire nazioni concorrenti e ostacolare lo sviluppo di progetti globali, come la famosa via della seta fattasi sempre più concreta dopo il vertice del gruppo di Shanghai [2]. La guerra totale resta sullo sfondo ed è impiegata come arma per ottenere vantaggi all’economia statunitense, come d’altra parte viene messo in evidenza dal segretario della difesa di Trump, James Mattis, il quale ha recentemente dichiarato: “È la concorrenza tra le grandi potenze – e non il terrorismo – che ora è l’obiettivo prioritario per la sicurezza nazionale americana”.
Da parte loro, confondendo aspetto militare e aspetto economico, strategia e tattica, i democratici considerano la guerra fine a se stessa e sono disposti a portarla alle estreme conseguenze, non preoccupandosi che essa si dipani fino alla “ascesa degli estremi limiti”, che nella contemporaneità per la presenza della bomba nucleare può significare la “guerra assoluta”.
Fatte le debite contestualizzazioni, credo che questa stessa logica terrificante, scaturente dal tardo capitalismo, valga anche per l’opposizione tra l'élite europea e mondialista e i nuovi partiti sovranisti e addirittura costituzionalisti sorti un po’ ovunque in Europa. La mia analisi si limiterà alla situazione italiana.