venerdì 6 luglio 2018

GRAZIE DI TUTTO DOMENICO LOSURDO

Da: https://materialismostorico.blogspot.com/2018/07/domenico-losurdo-1941-2018 - https://domenicolosurdo.blogspot.com/2018/07/

Dall'intervista che chiude il libro di Stefano G. Azzarà L''humanité commune : Dialectique hégélienne, critique du libéralisme et reconstruction du matérialisme historique chez Domenico Losurdo (Delga, Paris 2012).

Domanda. Come incide questa debolezza teorica sullo stato della sinistra attuale? L'Europa si confronta oggi con trasformazioni imponenti che stanno mutando il volto del mondo. Sono trasformazioni che riguardano i rapporti di forza internazionali sul piano politico e su quello economico, ma anche l'equilibrio tra Stato e mercato, la natura della democrazia, le grandi migrazioni. La sinistra non sembra avere oggi né idee, né prospettive politiche.

Losurdo. Con la crisi prima e col crollo poi del «socialismo reale», in Occidente e in Italia in modo particolare la sinistra ha smarrito ogni reale autonomia. Sul piano storico ha sostanzialmente desunto dai vincitori il bilancio storico del Novecento. Due sono i punti centrali di tale bilancio: per larghissima parte della sua storia, la Russia sovietica è il paese dell'orrore e persino della follia criminale. Per quanto riguarda la Cina, il prodigioso sviluppo economico che si verifica a partire dalla fine degli anni 70 non ha nulla a che fare col socialismo ma si spiega soltanto con la conversione del grande paese asiatico al capitalismo. A partire da questi due capisaldi ogni tentativo di costruire una società post-capitalistica è oggetto di totale liquidazione e persino di criminalizzazione, e l'unica possibile salvezza risiede nella difesa o nel ristabilimento del capitalismo. E paradossale, ma sia pure con sfumature e giudizi di valore talvolta diversi, questo bilancio viene spesso sottoscritto dalla sinistra, compresa quella «radicale».

Ancora più grave è la subalternità di cui la sinistra dà prova sul piano più propriamente teorico. Nell'analizzare la grande crisi storica che si sviluppa nel Novecento, l'ideologia dominante evita accuratamente di parlare di capitalismo, socialismo, colonialismo, imperialismo, militarismo. Queste categorie sono considerate troppo volgari. I terribili conflitti e le tragedie del Novecento sono invece spiegate con l'avvento delle «religioni politiche» (Voegelin), delle «ideologie» e degli «stili di pensiero totalitari» (Bracher), dell«assolutismo filosofico» ovvero del «totalitarismo epistemologico» (Kelsen), della pretesa di «visione totale» e di «sapere totale» che già in Marx produce il «fanatismo della certezza» (Jaspers), della «pretesa di validità totale» avanzata dalle ideologie novecentesche (Arendt). Se questa è l'origine della malattia novecentesca, il rimedio è a portata di mano: è sufficiente un'iniezione di «pensiero debole», di «relativismo» e di «nichilismo» (penso al Vattimo degli anni Ottanta). In tal modo non solo la sinistra fornisce il suo bravo contributo alla cancellazione di capitoli fondamentali di storia: i massacri e i genocidi coloniali sono stati tranquillamente teorizzati e messi in pratica in un periodo di tempo in cui il liberalismo si coniugava spesso con l'empirismo e il problematicismo; prima ancora dell'avvento del pensiero forte novecentesco, la prima guerra mondiale ha imposto col terrore a tutta la popolazione maschile adulta la disponibilità e la prontezza ad uccidere e ad essere uccisi. Per di più, come medico per eccellenza della malattia novecentesca viene spesso celebrato Nietzsche, che pure si attribuisce il merito di essersi opposto «ad una falsità che dura da millenni» e che aggiunge: «Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata» (Ecce homo, Perché io sono un destino, 1). Così enfatica è l'idea di verità, che coloro i quali sono riluttanti ad accoglierla sono da considerare folli: sì, si tratta di farla finita con le «malattie mentali» e con il «manicomio di interi millenni» (L'Anticristo, § 38). D'altro canto, il presunto campione del «pensiero debole» e del «relativismo» non esita a lanciare parole d'ordine ultimative: difesa della schiavitù quale fondamento ineludibile della civiltà; «annientamento di milioni di malriusciti»; «annientamento delle razze decadenti»! La piattaforma teorico-politica suggerita a suo tempo da Vattimo ma che Vattimo stesso pare oggi mettere in discussione - mi sembra insostenibile da ogni punto di vista.

Altre correnti del pensiero dominante indicano il rimedio alle tragedie del Novecento non già nel relativismo, ma, al contrario, nel recupero della saldezza delle norme morali, sacrificate da comunisti e nazisti sull'altare del machiavellismo e della Realpolitik (Aron e Bobbio) ovvero della filosofia della storia e della presunta necessità storica (Berlin e Arendt). Nella sinistra e nella stessa sinistra radicale (si pensi a «Empire» di Hardt e Negri) è divenuta un punto di riferimento soprattutto Arendt. Rimossa o sottoscritta è la liquidazione a cui lei procede di Marx e della rivoluzione francese con la connessa celebrazione della rivoluzione americana (e il conseguente indiretto omaggio al mito genealogico che trasfigura gli Usa quale «impero per la libertà», secondo la definizione cara a Jefferson, che pure era proprietario di schiavi). In questo caso ancora più assordante è il silenzio sulla tradizione colonialista e imperialista alle spalle delle tragedie del Novecento. Arendt condanna lidea di necessità storica nella rivoluzione francese, e soprattutto in Marx e nel movimento comunista; dimentica però che il movimento comunista si è formato nel corso della lotta contro la tesi del carattere ineluttabile e provvidenziale dell'assoggettamento e talvolta dell'annientamento delle «razze inferiori» ad opera dell'Occidente, si è formato nel corso della lotta contro il «partito del destino», secondo le definizione cara a Hobson, il critico inglese dell'imperialismo, letto e apprezzato da Lenin. Arendt contrappone negativamente la rivoluzione francese, sviluppatasi all'insegna dell'idea di necessità storica, alla rivoluzione americana, che trionfa all'insegna dell'idea di libertà. In realtà l'idea di necessità storica agisce con modalità diverse in entrambe le rivoluzioni: se in Francia viene considerata ineludibile anche l'emancipazione degli schiavi, che è in effetti è sancita dalla Convenzione giacobina, negli Usa il motivo del Manifest Destiny consacra la conquista dell'Ovest, inarrestabile nonostante la riluttanza e la resistenza dei pellerossa, già agli occhi di Franklin destinati dalla «Provvidenza» ad essere spazzati via.

Arendt muore nel 1975, non ancora settantenne. In questa morte precoce c'è un elemento paradossale di fortuna sul piano filosofico. Solo successivamente intervengono gli sviluppi storici che falsificano totalmente la piattaforma teorica della filosofa scomparsa: a partire dalla presidenza Reagan sono proprio gli Stati Uniti a impugnare la bandiera della filosofia della storia contro l'Urss e i paesi che si richiamano al comunismo, destinati a finire nella «spazzatura della storia» e comunque collocati ai giorni nostri lo proclamano Obama e Hillary Clinton «dalla parte sbagliata della storia». Più longevi ma meno fortunati sul piano filosofico sono i devoti di Arendt, che continuano a ripetere la vecchia filastrocca, senza accorgersi del radicale rovesciamento di posizioni che nel frattempo si è verificato sul piano mondiale.
Subalterna sul piano del bilancio storico così come delle categorie filosofiche, la sinistra (compresa quella radicale) è chiaramente incapace di procedere a un'«analisi concreta della situazione concreta». Tanto più, se teniamo presente che alla catastrofe teorico-politica ha contribuito ulteriormente una mossa sciagurata, quella che contrappone negativamente il «marxismo orientale» al «marxismo occidentale». Alle spalle di questa mossa agisce una lunga e infausta tradizione. In Italia, subito dopo la rivoluzione d'ottobre, Filippo Turati, che continua a fare professione di marxismo, non riesce a vedere nei Soviet null'altro che l'espressione politica di un«orda» barbarica (estranea e ostile all'Occidente). A partire dagli anni 70 del secolo scorso, la divaricazione tra marxisti orientali e marxisti occidentali ha visto contrapporsi da un lato marxisti che esercitano il potere e dall'altro marxisti che sono all'opposizione e che si concentrano sempre più sulla «teoria critica», sulla «decostruzione», anzi sulla denuncia del potere e dei rapporti di potere in quanto tali, e che progressivamente nella loro lontananza dal potere e dalla lotta per il potere ritengono di individuare la condizione privilegiata per la riscoperta del marxismo «autentico». E una tendenza che ai giorni nostri raggiunge il suo apice nella tesi formulata da Holloway, in base alla quale il problema reale è di «cambiare il mondo senza prendere il potere»! A partire da tali presupposti, cosa si può capire di un partito come il Partito comunista cinese che, gestendo il potere in un paese-continente, lo libera dalla dipendenza economica (oltre che politica), dal sottosviluppo e dalla miseria di massa, chiude il lungo ciclo storico caratterizzato dall'assoggettamento e annientamento delle civiltà extra-europee ad opera dell'Occidente colonialista e imperialista, dichiarando al tempo stesso che tutto ciò è solo la prima tappa di un lungo processo all'insegna della costruzione di una società post-capitalistica?

giovedì 5 luglio 2018

- IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE. Classe, genere e natura. - Riccardo Bellofiore

Da: http://www.palermo-grad.com - il-rosso-il-rosa-e-il-verde - riccardo.bellofiore è docente di "Analisi Economica", "Economia Monetaria" e "International Monetary Economics" e "Dimensione Storica in Economia: le Teorie" presso il Dipartimento di Scienze Economiche "Hyman P. Minsky" dell'Università di Bergamo. (Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/economia-per-i-cittadini-riccardo.html 

      Qui il video dell'incontro: https://www.facebook.com/418633548290438/videos/1057843317702788/

Le idee contenute in questo contributo sono state presentate a Roma, il 27-28 febbraio 1988 al seminario “Emergenza ambientale, crisi delle politiche, movimenti”; esse hanno anche costituito l’oggetto di una discussione svoltasi a Torino nella sede del C.r.i.c.. Solo la cortese insistenza dei compagni di Roma e di Torino mi spinge a mettere per iscritto delle riflessioni che sento ancora insufficienti; ma gioca anche un po’ la convinzione che vada superata una situazione come quella italiana attuale in cui il rapporto tra marxismo, femminismo e pensiero verde è per lo più di indifferenza, di ostilità o al meglio di ossequio di maniera. Ringrazio Stefano Alberione, Maria Teresa Fenoglio, Roberto Finelli e Mimmo Porcaro per i commenti, i consensi e i dissensi. A Marco Revelli sono debitore di un ringraziamento particolare: le discussioni sulle questioni qui trattate sono state così tante, e l’impressione di porsi spesso interrogativi comuni è stata tale, che mi è difficile distinguere ciò che è mio e ciò che è suo nelle opinioni che avanzo, e facendolo rischierei di attribuirgli opinioni che non condivide ed è bene rimangano di mia responsabilità. 

Considerazioni inattuali su centralità operaia e nuovi movimenti 

"​Il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento naturale dell’uomo è divenuto umano, ossia fino a che punto la sua umana essenza gli è diventata esistenza naturale, fino a che punto la sua umana natura gli è diventata naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il bisogno dell’uomo è divenuto umano bisogno; fino a che punto, dunque, l’altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo, e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità."  
(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 225. Corsivi nel testo) 

"Don’t you know 
They’re talkin’ about a revolution
It sounds like a whisper"
(Tracy Chapman,Talkin’ bout a revolution
                                                                                           Introduzione

Nell’ultimo decennio vi è stata una sostanziale disattenzione, quando non inimicizia, tra quel che rimaneva del marxismo critico e le culture femminista ed ambientalista. Nelle pagine che seguono vorrei provare, dal mio punto di vista, ad interrompere questa sorta di reciproco disinteresse, nel modo forse più scomodo: entrando nel merito del pensiero rosa e del pensiero verde, presentandone un inizio di critica, e ciononostante accettando la sfida lanciata dal femminismo e dai verdi: convinto, come sono, che gli attacchi portati in questi anni dai cosiddetti nuovi movimenti alla cultura della sinistra, vecchia e nuova, siano spesso tutt’altro che infondati. I lettori (e le lettrici) giudicheranno se il tentativo sia troppo coraggioso o troppo ingenuo.

Anticipo subito, per chiarezza, il punto di vista da cui parto ed il filo del ragionamento. Il mio discorso si regge su due convinzioni: che non siano esaurite tutte le potenzialità della rilettura ‘operaista’ del marxismo che ha permeato parte della nuova sinistra italiana (e dunque anche chi, come me, ha mosso i primi passi politici nel “manifesto”); e che non vi sia contraddizione ma rapporto fecondo tra ‘questo’ marxismo e la rottura operata dal sessantotto. Sono però anche convinto che ciò che c’è di positivo in questa recente tradizione possa vivere solo se essa esercita su se stessa una pesante riflessione autocritica.

Nella mia riflessione tenterò di impiegare le nozioni di uguaglianza, di democrazia e di libertà come una cartina di tornasole, o se volete come una sorta di controllo di qualità, del potenziale emancipativo tanto dei movimenti che si rifanno alla classe operaia quanto dei cosiddetti nuovi movimenti, e dunque anche di quelle riflessioni che vogliono far capo alle cosiddette nuove soggettività. La tesi centrale del mio ragionamento è che tanto dentro il pensiero femminista quanto dentro il pensiero verde sono presenti non poche, e preoccupanti, ambiguità: si incontrano spesso argomentazioni che recuperano il valore delle differenze fuori o contro l’eguaglianza; ed è possibile individuare dentro l’uno e l’altro tendenze antiegualitarie e, forse, persino antidemocratiche. Non può essere nascosto, in altri termini, un potenziale esito conservatore e reazionario delle cultura della differenza sessuale e dell’emergenza ambientale. 

mercoledì 4 luglio 2018

La grande lezione di ERNST BLOCH - Pierluigi Vuillermin

Da: https://sinistrastoriaeteoria.myblog.it - https://esseresinistra.wordpress.com/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/09/psicologia-delle-folle-1895-prima-parte.html
                    https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/01/freud-e-la-massenpsychologie-stefano.html


Weimar e noi (attraverso Bloch) - (2011)
1. Premessa (anti-borghese)

Secondo l’Economist (notizia di qualche tempo fa) per la prima volta nella storia dell’umanità circa metà della popolazione mondiale è entrata a far parte della middle class. Ebbene, ne ha fatta di strada la vecchia piccola borghesia negli ultimi due secoli. Nelle aree emergenti dell’Impero la sua avanzata è incessante. In nome del progresso, essa sostiene la crescita economica e predica le virtù democratiche del benessere materiale. In Occidente, invece, si constata il declino dei ceti medi. Con la competizione globale, l’incubo del declassamento, in casa propria, è una minaccia costante. Ora, questa “nuova borghesia globale” è ancora una classe rivoluzionaria, nel significato tradizionale del concetto? Tanto per essere chiari, citando Hermann Broch, spaventevole progresso, quello alla cui testa marcia il piccolo borghese. La domanda che guida la presente rilettura del libro di Ernst Bloch Eredità del nostro tempo, è molto semplice. In un’epoca di crisi dove vanno politicamente i ceti medi impoveriti? La vicenda della Repubblica di Weimar è risaputa. Mentre l’operaio disoccupato guardava a Mosca, l’impiegato disoccupato si affidò a Hitler. Sappiamo tutti come andò a finire. La questione è tuttora di grande e urgente attualità. Soprattutto oggi, in tempi di recessione economica e conflitto sociale. Di recente il quotidiano La Stampa, recensendo un saggio del sociologo Arnaldo Bagnasco sul ceto medio, così titolava: la classe media lascia il salotto e va alla guerra. In buona sostanza l’autore dell’articolo sosteneva che, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, di incertezza e insicurezza, la classe media abbandona i suoi comodi rifugi e scende rabbiosamente in piazza a lottare in difesa dei diritti o dei privilegi, a seconda del punto di vista. Un po’ in tutta Europa, infatti, stiamo assistendo a manifestazioni e proteste, a volte anche molto violente, da parte di ampi strati di quella popolazione che si considera classe media. Certo, più che con la rivoluzione abbiamo a che fare con rivolte. Così almeno sembra. Differenza non da poco. Tuttavia questo generale malcontento dei ceti medi rischia di prendere una deriva reazionaria e protofascista.

Come ha acutamente ricordato Benedetto Vecchi sul manifesto, vengono in mente gli scenari iperrealisti alla James G. Ballard. In Millenium People la classe media, strangolata da mutui e indebitamento, sopraffatta dalla riduzione dello stato sociale, rincari ingiustificati e da un proibitivo costo della vita, si trasforma in una massa inferocita, pronta a bruciare e distruggere ogni cosa, persino le proprie lussuose ville, simbolo della mentalità borghese. Oppure, incubo ancora peggiore, nel Regno a venire, la ribellione paranoide della piccola borghesia occidentale prende tinte razziste e xenofobe contro gli alieni venuti da fuori.

martedì 3 luglio 2018

Conflittualità intercapitalistica (anarchia della produzione) - Gianfranco Pala


Da: L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole  la Contraddizione 


Un segno distintivo e caratteristico del modo di produzione capitalistico è dato dalla molteplicità dei capitali in reciproca conflittualità. Senza tale molteplicità conflittuale – come un’illusoria compatta unicità – esso neppu­re sarebbe concepibile. Da codeste contraddizioni promana la caducità, sia ricorrente che tendenziale, del siste­ma e lo stesso antagonismo di classe tra borghesia e proletariato che è l’altro, e il più esteriore e apparente, segno distintivo.

Con lo sviluppo del mercato mondiale – nell’epoca dell’imperialismo – il capitale (che Marx definiva “indu­striale” in generale) si presenta in misura crescente “fuso” con la sua forma monetaria (e pure con la sua forma merce) nella figura di capitale finanziario. Per tale motivo, sempre più compiutamente il capitale complessivo sociale è determinato duplicemente e contraddittoriamente, nel senso anzidetto: da un lato, di contro al proleta­riato, esso deve essere concepito come classe, come capitale collettivo, entità unica e intera; ma dall’altro, en­tro la formazione economica sociale capitalistica in tutta la sua complessità e articolazione, esso non può che essere costituito dalle  singole individualità dei molteplici capitali particolari, tra loro contrapposti nelle diver­se forme funzionali.

Questo duplicità contraddittoria caratterizza l’anarchia del modo di produzione capitalisti­co, fondato appunto sulla molteplicità e individualità dei capitali.

La divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci indipendenti l’uno dall’altro, e ciò permane e si accresce anche con il passaggio al capitalismo monopolistico finanziario su scala mondiale. La distribuzione tra le differenti attività sociali di lavoro di codesti produttori capitalistici di merci e dei loro mezzi di produzione è piuttosto arbitraria e casuale, e acuisce le difficoltà del sistema ogni volta che tale casualità moltiplica le interruzioni del ciclo complessivo del capitale. Perciò, pro­prio contro questa dispersione del capitale complessivo sociale in molti capitali individuali agisce l’attrazione di questi ultimi, la concentrazione di capitali già formati – il processo di fusioni e acquisizioni – che cerca di su­perare la loro autonomia individuale. Codesta è una vera lotta attraverso l’espropriazione del capitalista da par­te del capitalista, la trasformazione di molti capitali minori in molti capitali più grossi, la centralizzazione del capitale.

lunedì 2 luglio 2018

- “L’attualità del Capitale – Nel bicentenario della nascita di Karl Marx” - É.Balibar, G.Marramao, A.M.Iacono, C.Giorgi, C.Offe, A.Del Re, R.Bellofiore, S.Petrucciani, L.Basso, P.Favilli, L.Pennacchi, G.Cesarale, A.Montebugnoli, R.Finelli, A.Amendola.

Da: fondazione basso 
Questo seminario intende rileggere il lascito di Marx e in particolare del Capitale alla luce di questioni che oggi rendono particolarmente vive le analisi marxiane, facendo di questa opera uno strumento irrinunciabile al fine di comprendere le dinamiche del capitalismo contemporaneo. Non a caso negli ultimi anni Marx torna ad essere interrogato da più parti del globo e le sue categorie interpretative tornano ad essere utilizzate per far luce sia sui rapporti di dominio odierni, sia sui conflitti e le lotte che sfidano le dinamiche, i dispositivi e l’organizzazione dell’attuale capitalismo. I temi proposti intendono interrogare il Capitale alla luce del presente, sulla base dell’assunto che il pensiero di Marx è stato ed è ancora, più che mai nel contesto odierno, un metodo per interpretare e per pensare ad una trasformazione possibile. «Leggere Il Capitale» è ancora all’ordine del giorno.



ÉtienneBalibar, L’attualità del Capitale di Marx (11,50)
Giacomo Marramao, General Intellect: il cervello sociale come bene comune (47,50)
Alfonso Maurizio Iacono, La cooperazione (1,26,50)
Chiara Giorgi, L’interpretazione di Lelio Basso (1,56,00)
Claus Offe, The liberal democracy ‘cube’ under the onslaught of populist politics (2,27,13)
Alisa Del Re, Inchiesta operaia e riproduzione (3,43,53)
Stefano Petrucciani, Reificazione: le avventure di un concetto (4,22,20)
Luca Basso, Lo Stato nel Capitale fra genealogia e pratica politica (4,51,58)
Paolo Favilli, Il Capitale e la storia: appunti (5,24,25)
Laura Pennacchi, Feticismo della merce e alienazione (6,02,42)
Giorgio Cesarale, Logica e processo conoscitivo nel Capitale (6,41,22)
Alessandro Montebugnoli, La questione della produzione materiale (7,07,35)
Roberto Finelli, Il Capitale come Soggetto. Il circolo del presupposto-posto (7,35,36)
Adalgiso Amendola, Produzione di merci/produzione di soggettività (8,05,05)
Riccardo Bellofiore, Teoria del valore e critica dell’economia politica: la riscoperta del Capitale come teoria monetaria dello sfruttamento (8,32,00)

domenica 1 luglio 2018

- Chi sono i sovranisti-costituzionalisti e cosa vogliono veramente - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 


Mondializzazione e sovranismo: due strategie per mantenere in vita il sistema capitalistico?

Scrive il sociologo francese Jean-Claude Paye su Voltairenet.org che lo scontro tra i democratici e la maggioranza dei repubblicani può essere interpretato come il “conflitto tra due tendenze del capitalismo statunitense, quella portatrice dei valori della mondializzazione e quella che sprona per rilanciare lo sviluppo industriale di un paese economicamente in declino”. Questo conflitto nasce per il fatto che negli ultimi vent’anni, a causa della grave crisi della Russia e dell’arretratezza della Cina, gli Stati Uniti sono stati l’unica superpotenza, ruolo ormai messo in discussione dal risorgere e dall’avanzamento dei paesi rivali. Questo cambiamento di situazione richiede da parte degli Stati Uniti un ripensamento della strategia internazionale, se vogliono rimanere sempre al vertice, come pretende la loro classe dirigente.
La scelta adottata da Trump è quella di rilanciare il suo paese in declino, deindustrializzato a causa della libera circolazione dei capitali e della mondializzazione neoliberale (imposte e volute dalle loro transnazionali), portando avanti politiche di carattere protezionistico – come si è visto negli ultimi tempi –, mandando in frantumi le istituzioni multilaterali (per esempio, il ritiro dalla Commissione dei diritti umani), cercando di stabilire trattati bilaterali, che beneficino l’economia statunitense (come sostiene Alberto Negri); inoltre, come vari analisti scrivono, tentando di ridurre il disavanzo commerciale con la Cina e con la Germania, favorendo il ritorno dei capitali fuggiti e finanziando il rinnovamento delle infrastrutture deteriorate da anni di abbandono.
Sebbene Trump si proponesse misure più energiche, non ha potuto fare di più che beneficiare i redditi più elevati [1], tendenza inaugurata da Reagan, e agevolare il ritorno dei capitali detassati, per fare un favore alle transnazionali, che andranno ad ingrossare gli investimenti finanziari, non trovando altre possibilità di valorizzarsi.
In questo nuovo contesto cambia anche la logica della guerra, essendo diversi i mezzi per tentare di mantenere in vita il ruolo di potenza unica statunitense (obiettivo di entrambe le fazioni). Nel caso del protezionismo di Trump la guerra è utilizzata per accendere conflitti locali che possano indebolire nazioni concorrenti e ostacolare lo sviluppo di progetti globali, come la famosa via della seta fattasi sempre più concreta dopo il vertice del gruppo di Shanghai [2]. La guerra totale resta sullo sfondo ed è impiegata come arma per ottenere vantaggi all’economia statunitense, come d’altra parte viene messo in evidenza dal segretario della difesa di Trump, James Mattis, il quale ha recentemente dichiarato: “È la concorrenza tra le grandi potenze – e non il terrorismo – che ora è l’obiettivo prioritario per la sicurezza nazionale americana”.
Da parte loro, confondendo aspetto militare e aspetto economico, strategia e tattica, i democratici considerano la guerra fine a se stessa e sono disposti a portarla alle estreme conseguenze, non preoccupandosi che essa si dipani fino alla “ascesa degli estremi limiti”, che nella contemporaneità per la presenza della bomba nucleare può significare la “guerra assoluta”.
Fatte le debite contestualizzazioni, credo che questa stessa logica terrificante, scaturente dal tardo capitalismo, valga anche per l’opposizione tra l'élite europea e mondialista e i nuovi partiti sovranisti e addirittura costituzionalisti sorti un po’ ovunque in Europa. La mia analisi si limiterà alla situazione italiana.

mercoledì 27 giugno 2018

- Crisi della sinistra, ruolo dei comunisti e restaurazione neo-liberale - Stefano G. Azzarà

Da; https://www.lacittafutura.it

Intervista di marco paciotti a Stefano Azzarà, professore di storia della filosofia contemporanea e storia della filosofia politica all’Università di Urbino e direttore della rivista “materialismo storico”, su lotta teorica e contro-informazione, fascismo e “rossobrunismo”, Potere al Popolo e crisi della sinistra in Italia.

D. Stefano, da anni ti troviamo in prima linea sul fronte ideologico della lotta di classe. Tra gli strumenti che metti a disposizione c’è una rivista, di cui sei fondatore e direttore scientifico: “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”. Un titolo che richiama i fondamenti stessi del marxismo che tra il popolo tutto, non solo quello che lavora solo con le mani, non gode di ottima salute. Da cosa nasce, dunque, l’esigenza di un’iniziativa così controcorrente e qualè stata la reazione del mondo accademico italiano ed internazionale?
R. In prima linea mi pare troppo. Diciamo dal divano, visto che non faccio più militanza attiva dal 2009, quando sono stato espulso da Rifondazione Comunista…
Il marxismo come materialismo storico, che è una cosa ben diversa dall’economismo oltre il quale molti compagni non riescono ad andare, ha rappresentato un salto nell’evoluzione delle forme di coscienza dell’umanità che dobbiamo considerare irreversibile: come è accaduto dopo la rivoluzione scientifica copernicana, dopo il marxismo nulla può essere più come prima nell’analisi della realtà; chiunque pretenda di capire il mondo senza confrontarsi con esso, sia pure per contestarlo, difficilmente potrebbe essere preso sul serio. Questo vale anche in ambito accademico, dove coloro che vogliano studiare la società e le sue forme espressive non possono evitare, anche volendo, di utilizzare il concetto di classe sociale.
Il materialismo storico tuttavia non è soltanto uno strumentario scientifico ma ha anche una dimensione politica essenziale. In questo senso, per capire il suo stato di salute nella società e nell’accademia noi non possiamo che applicare autoriflessivamente il marxismo a se stesso. Il marxismo è stato anche la teoria che più di ogni altra ha guidato il processo di unificazione delle classi subalterne nel corso di 150 anni di storia, conducendole nell’edificazione di un nuovo tipo di regime politico in Russia – la prima forma di potere popolare nella storia del genere umano – nelle guerre di liberazione dal dominio coloniale, nella conquista della democrazia moderna in Occidente. Sotto questo aspetto, esso è espressione della maturità relativa dei rapporti di produzione, i quali ad un certo punto in quella fase hanno generato il loro soggetto antagonista e hanno anche stimolato la sua visione del mondo.

mercoledì 20 giugno 2018

Alle radici delle crisi: limiti e contraddizioni del capitale - Vladimiro Giacché

vladimiro-giacche è un filosofo ed economista italiano.

Per Marx la radice ultima delle crisi consiste nella contraddizionetra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Il modo di produzione capitalistico da un lato tende verso il massimo sviluppo delle forze produttive (questo è secondo Marx anche il suo principale merito storico). D’altro lato, i rapportidi produzione e di proprietà che lo contraddistinguono (ossia il lavoro salariato, l’appropriazione privata della ricchezza prodotta, e l’orientamento della produzione al profitto anziché al soddisfacimento dei bisogni sociali) inceppano periodicamente lo sviluppo delle stesse forze produttive, creando sovrapproduzione di capitale (un accumulo di capitale che non riesce a trovare adeguata valorizzazione) e sovrapproduzione di merci (un accumulo di merci che non riescono a essere vendute a un prezzo tale da remunerare adeguata-mente il capitale impiegato per produrle).

La crisi è il momento in cui tale contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si manifesta e, al tempo stesso, il mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale: «le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato» (p. 154). Profitto e accumulazione vengono ripristinati per mezzo della distruzione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera.

Ma vediamo più da vicino i due lati della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione.

martedì 19 giugno 2018

Antigone, o i rischi della secolarizzazione - Mauro Bonazzi

Da: Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano - mauro-bonazzi insegna Storia della filosofia antica.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2017/09/antigone-di-sofocle-vittorio-cottafavi.html
                      https://ilcomunista23.blogspot.com/2017/08/tragedia-come-paideia-eva-cantarella.html
                        https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/06/edipo-la-conoscenza-e-il-destino-mauro.html
Leggi anche:      https://air.unimi.it/retrieve/handle/2434/142291/119966/10%20bonazzi.pdf




Nella secolarizzazione della tradizione europea la religione è stata interpretata come una forma di devozione personale. Dopo la massima espansione capitalistica e la parallela crisi culturale e politica, la religione cristiana ha ripreso un suo senso molto ampio come insegnamento morale e come contenuto politico. Una forte accentuazione di questa caratteristica è nella religione dell'Islam, l'altra grande religione monoteistica con al centro l'idea di salvezza. Ma il mondo è molto più ampio, e miliardi di persone, in India come in Cina, esercitano forme religiose o naturalistiche o confuciane. Conoscere queste culture fa capire il mondo contemporaneo. 

lunedì 18 giugno 2018

il capitalismo è in crisi, ma come cercherà di uscirne? - Paolo Massucci



L'articolo "Scatta l'ansia da rincaro per 237 trilioni di debito globali" di Morya Longo, pubblicato su "il Sole 24 Ore" del 15/06/2018 tratta di una questione di grande portata, inerente l'attuale economia capitalistica mondiale, che qualsiasi analisi marxista non può ignorare.

Si tratta del fatto che il debito globale, cresciuto più velocemente del PIL negli ultimi 10 anni, a fine 2017 ha raggiunto la cifra"astronomica" di 237 mila miliardi di dollari.

L'articolo parte dal fatto che, nel mondo della finanza, ci sono alcune preoccupazioni sulla sostenibilità del debito a seguito della fine della politica espansiva (caratterizzata dal QE e da tassi di sconto bassissimi o addirittura negativi) che ha caratterizzato negli ultimi anni la politica monetaria delle principali banche centrali (ad esempio USA, UE, inglese, giapponese): la politica più restrittiva -o meno espansiva- inevitabilmente impatterà sul costo di questo gigantesco debito.

Si pensi, per una rappresentazione più intuitiva, che 237 mila mld di dollari corrispondono, su 6 mld della popolazione mondiale, a un debito teorico di 39 mila dollari a testa, compresi bambini e persone inoccupate, comprese popolazioni di continenti come l'Africa i cui redditi si avvicinano a 1 euro al giorno !

In alcuni Paesi sviluppati la famiglie hanno un debito superiore al 150% del reddito annuo disponibile e in USA il 27% dei consumatori è considerato "subprime" (cioè poco affidabile; si ricordi che la crisi del 2008 è partita proprio dai debiti "subprime" in America), mentre ben 73 milioni di carte di credito sono definite "subprime" . E inoltre, secondo i dati OCSE, a livello mondiale le obbligazioni "spazzatura", che costituivano il 20% delle emissioni nel 2007, sono arrivate al 40% nel 2016.

Che cosa dire di tutto ciò ? Certamente che la crescita economica, peraltro modesta, nel capitalismo, negli ultimi decenni è stata pesantemente drogata dall'indebitamento dei consumatori e degli investitori: la finanza speculativa, in ultima analisi, non è che una conseguenza di ciò (cioè non è che la finanza speculativa, come molti ritengono, prende il posto della sana crescita, ma, al contrario, è la debolezza della crescita che necessita di indebitamento per essere stimolata, da cui consegue la finanza speculativa). Che cosa avverrebbe se l'economia capitalistica non fosse drogata da questo immenso indebitamento? C'è un rapporto tra questa situazione di sostegno "patologico" alla crescita capitalistica con la marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto?

In ogni caso, stando così le cose, l'economia mondiale si trova in una situazione di incertezza ed instabilità e la crisi del 2008 non si può dire sia un capitolo chiuso: il capitalismo è in crisi, ma come cercherà di uscirne?

Infine, una considerazione sull'aumento della quota di debito "subprime" (o debito spazzatura) delle famiglie per acquisto casa e consumi: non c'è una relazione tra l'aumento della flessibilità del lavoro -cavallo di battaglia delle politiche neoliberiste degli ultimi decenni- e aumento di questo debito "spazzatura"? Se il lavoro non è più stabile, se è facile licenziare, che cosa succede al debito contratto quando viene meno il reddito famigliare ? Perché i giornalisti non mettono mai in relazione a stessa instabilità del lavoro, voluta dalle politiche neoliberiste dei capitalisti, con l'instabilità della finanza e quindi con l'instabilità della crescita e con il rischio di precipitare in nuove crisi e depressioni economiche? 

Paolo Massucci (Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni").

domenica 17 giugno 2018

LA RIFORMA PROTESTANTE - Stefano Ulliana

Da: https://www.sitosophia.org/author/stefanoulliana/ - StefanoUlliana è insegnante nella scuola pubblica italiana.




SINTESI A MODO DI BREVE COMPENDIO

PREMESSA

L’elaborazione di questo breve saggio dedicato alla nascita ed al primo sviluppo della Riforma protestante gravita attorno ad una serie organica di poli gravitazionali teorici ed interpretativi, che possono essere qui rapidamente delineati e descritti sotto forma di domanda. Essi sono relativi a:

a) l’acquisizione di una possibile via di fuga fondamentale nel modo di pensare la genesi della modernità (in connessione con lo sviluppo intrecciato della prima filosofia moderna). La Riforma protestante dà forse luogo ad una nuova possibile fase di civilizzazione per il continente europeo, nella quale l’elemento platonizzante (prevalentemente a trazione trascendente) si scontra e/o si fonde con una rivitalizzazione dell’elemento aristotelizzante rinascimentale (prevalentemente a radicalità immanente)? La questione della salvezza individuale (secondo la grazia e la provvidenza divine o secondo i meriti legati alle opere) deve essere vista come uno schermo, attraverso ed oltre il quale si muovono fattori di natura teologico-politica, che dunque possiedono in sé una forte carica di trasformazione economico-sociale e culturale? La prevalenza del fattore trascendentista su quello immanentista immobilizza e neutralizza le spinte più rivoluzionarie, messe in moto dalla Riforma? Si può così parlare di una Destra (Calvino) e di una Sinistra (via via più radicale e rivoluzionaria? Melantone, Zwingli, Müntzer e gli Anabattisti) nel movimento teologico-politico protestante franco-tedesco? La figura di Lutero andrebbe così a rappresentare il Centro ed il perno di una possibile ricomposizione dell’antico e tradizionale modo di  pensare e di vivere medievale con il nuovo impulso alla trasformazione, che però sia funzionale alla limitazione e neutralizzazione delle sue forme teologico-politiche più eversive?

b) Questa problematizzazione come può avvalersi degli apporti delle conoscenze storiche legate alla suddivisione territoriale tedesca di quella fase storica? Si devono considerare i contesti territoriali germanici limitati come occasione di nuove libertà (teologiche, politiche ed economico-sociali)?

c) Qual è l’influenza della pressione centrale dell’Impero su queste forme di libertà tradizionali ed ora innovative? Lo sviluppo della contesa fra il potere politico centrale e la sua difesa del cemento ideologico costituito dalla religione cattolica (Carlo V) pone a rischio di deflagrazione la stessa struttura politico-gerarchica dell’Impero? Apre, o avrebbe potuto aprire, soluzioni completamente nuove ed incompatibili con quella ricomposizione fra l’antico ordine feudale e l’avvio di un processo protocapitalistico mercantile verso il quale le nuove forze dirigenti nell’Impero (Dieta e Függer) sembravano voler spingere?

d) La nuova sistemazione teologico-politica, instabile sino alla metà del secolo successivo (Guerra dei Trent’anni) e diversa nei diversi  territori dell’Impero, confligge tendenzialmente e potenzialmente con l’accentuarsi delle tendenze alla concentrazione dei  poteri, che dalla costituzione delle monarchie nazionali in Europa tenderà rapidamente in età moderna alla fondazione di stati ad impronta assolutista (vedi Francia di Luigi XIV)? Così la mancata costituzione di uno stato unitario germanico (oltre l’apporto linguistico desumibile dall’opera teologico-politico e letteraria di Lutero) vale come una mancanza nei confronti del procedere del progresso storico europeo, o non invece come uno di quei «ritardi» della storia stessa, che – come indicava Ernst Bloch[1] – avrebbero potuto anticipare un futuro nuovo e completamente diverso, rivoluzionario?

e) Il tema della nascita della coscienza individuale, della sua autonomia e libertà, della sua indipendenza e della sua attiva determinazione progettuale, può collegarsi con l’avventura di una nuova organizzazione razionale della conoscenza filosofica e scientifica (Telesio, Bruno, Galilei)? Il principio della libertà teologica si compone con quello della libertà razionale e della ricerca naturale? La svalutazione iniziale della Natura in Lutero –  per la predominanza del peccato originale e della Legge – può trovare soluzione, sempre nello stesso Lutero, con la rivoluzione attuata dall’Amore divino? L’apertura che qui viene decretata salva la stessa considerazione naturale e avvia verso le forme di impulso agli studi naturalistici (secondo la linea germanica che collega Paracelso a Böhme)? In questa  prospettiva il futuro idealismo e post-idealismo tedesco potrebbero essere considerati come il consolidamento definitivo della «ideologia tedesca»,[2] quale depositaria finale delle intenzioni di conservazione e composizione mediativa (sovrastrutturale) luterana [Marx 1κ46]? Gli effetti storici successivi che avranno come soggetto la nazione tedesca (militarismo, imperialismo, nazionalsocialismo, neo-liberismo autoritario del Capitale) ‒ con le relative problematiche politico-sociali ed economiche, ovvero ideologiche ‒ devono essere visti come la necessaria conseguenza della sua continua ripresa e ricomposizione? 

sabato 16 giugno 2018

- Circa la categoria di "merce" in Marx. Arbeitskraft e Arbeitvermögen. - Stefano Garroni

Da: mirko.bertasi Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. - https://www.facebook.com/groups 


“Di primo acchito, la ricchezza borghese appare come un’immane raccolta di merci, la singola merce essendone l’esistenza (Dasein) elementare. Ma la singola merce si rappresenta (darstellen) sotto il duplice punto di vista[1] di valore d’uso (d’ora in avanti <gw>, abbreviazione del tedesco Gebrauchswert) e valore di scambio (<tw>, dal tedesco Tauschwert)." [2]</tw></gw>

Questo incipit è ripreso, pressocché letteralmente, nel capitolo sulla <merce> del primo libro di Das Kapital, con una variante, però, che forse merita di esser sottolineata.</merce>

Se in Zur Kritik, Marx parla della merce come  esistenza (Dasein) elementare della ricchezza borghese, in Das Kapital, invece, preferisce definirla Elementarform della stessa ricchezza borghese[3]; ciò che va notato, qui, è che il generico esistere è concepito da Marx (certo sulle orme di Hegel) come un processo, che si svolge mediante ‘figure’ o forme diverse, sicché quando parlo dell’esistere di un qualcosa posso intendere o il suo immediato e puntuale esserci, oppure la serie di quelle figure o forme, attraverso cui l’oggetto si svolge e raggiunge il suo finish.

Nel modo di esprimersi degli economisti borghesi –continua  Zur Kritik- la merce è innanzi tutto “qualunque cosa necessaria, utile o piacevole per il vivere, oggetto dei bisogni umani, mezzo di vita nel senso più ampio del termine. Questo esserci della merce come GW e la sua esistenza naturalmente manifesta coincidono … Il  valore d’uso ha valore solo per l’uso e si realizza unicamente nel processo del consumo.”[4]

venerdì 15 giugno 2018

Marx, il nuovo Socrate - R. Landor

Questo articolo è uscito il 3 gennaio 1997 nel numero 162 di Internazionale, a pagina 11. L’originale era uscito su The World il 18 luglio 1871.(Traduzione di Marina Astrologo)
R. Landor, The World, Stati Uniti Il merito di avere diffuso la consuetudine delle interviste negli Stati Uniti va in larga parte a Joseph Pulitzer, una delle figure più note del giornalismo americano. Il suo giornale, The World, pubblicò alcuni colloqui di portata storica. Oltre a quella qui riprodotta con Marx, fece scalpore l’intervista alla regina Vittoria apparsa il 17 giugno del 1883. Il giornalista inseguì la sovrana fin dentro un cimitero scozzese. Alla fine la sua insistenza fu premiata e la regina Vittoria fu costretta ad ammettere che il reporter era “audace come il resto della sua nazione”.




Karl Marx (1818-1883), filosofo politico e sociale, iniziò la sua carriera a Colonia nei primi anni quaranta come direttore di un giornale. Quando questo venne chiuso per motivi politici, si trasferì a Parigi, dove diresse un’altra pubblicazione fino a quando anch’essa venne chiusa per la stessa ragione. Si sistemò allora a Londra, dove scrisse le sue principali opere di filosofia e di economia politica. Si occupò ancora di giornalismo e fu corrispondente estero del New York Tribune dal 1851 al 1862. Il suo capolavoro, Il Capitale, venne pubblicato nel 1867. R. Landor, corrispondente del World, ha intervistato Marx a Londra e ha trasmesso il testo al giornale il 3 luglio 1871. Si pensa che l’altro signore tedesco presente per tutta la durata dell’intervista fosse Engels. Soltanto un paio di mesi prima, la Comune di Parigi, cui Marx aveva partecipato, era stata soffocata nel sangue.




Londra, 3 luglio 1871

Mi avete chiesto di raccogliere informazioni sull’Associazione Internazionale e io ho cercato di farlo. Attualmente, si tratta di un’ardua impresa. Londra è indiscutibilmente il quartier generale dell’Associazione, ma gli inglesi sono spaventati e sentono odor d’Internazionale dappertutto, come re Giacomo sentiva odor di polvere da sparo dopo la famosa congiura. Naturalmente, il livello di consapevolezza dei membri dell’Associazione è aumentato con la sospettosità del pubblico e se gli uomini che la dirigono hanno un segreto da custodire, il loro stampo è tale da custodirlo bene. Ho fatto visita a due dei suoi esponenti più in vista; con uno di essi ho parlato liberamente e qui di seguito riferisco il succo della nostra conversazione. Mi sono personalmente accertato di una cosa, e cioè che si tratta di un’associazione di veri lavoratori, ma che questi lavoratori sono guidati da teorici politici e sociali appartenenti a un’altra classe. Uno degli uomini che ho visto, fra i massimi dirigenti del Consiglio, si è fatto intervistare seduto al suo banco da lavoro, e a tratti smetteva di parlare con me per ascoltare le lamentele espresse in tono tutt’altro che cortese da uno dei tanti padroncini del quartiere che gli davano da lavorare. Ho sentito quello stesso uomo pronunciare in pubblico discorsi eloquenti, animati in ogni loro passo dalla forza dell’odio verso le classi che si autodefiniscono governanti. Ho capito quei discorsi dopo aver assistito a uno squarcio della vita domestica dell’oratore. Egli deve essere consapevole di possedere abbastanza cervello da organizzare un governo funzionante ma di essere costretto a dedicare la sua vita alla più estenuante routine di un lavoro puramente meccanico. Pur essendo un uomo orgoglioso e sensibile, era continuamente costretto a rispondere a un grugnito con un inchino, e con un sorriso a un ordine che sulla scala dell’urbanità si collocava più o meno allo stesso livello del richiamo che il cacciatore lancia al suo cane. Costui mi ha consentito di scorgere un aspetto della natura dell’Internazionale, la rivolta del lavoro contro il capitale, dell’operaio che produce contro il borghese che gode. Quella è la mano che colpirà duro quando giungerà il momento, e quanto alla mente che progetta, credo di aver veduto anche quella, nella mia intervista con il dottor Karl Marx.

mercoledì 13 giugno 2018

L’IDEA DI COMUNITÀ IN IVAN ILLICH - Marianna De Ceglia

Da: http://www.dialetticaefilosofia.it - https://www.facebook.com/dialettica.filosofia/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/prometeo-tecnica-e-potenza-carlo-sini.html



 La crisi come opportunità

Ivan Illich1 è stato un filosofo, un sociologo e un sacerdote2, facente parte di quella generazione di intellettuali contestatori della modernità negli anni sessanta e settanta. Ha un senso scegliere di ripartire dalle parole di questo sovvertitore di certezze per la straordinaria attualità del suo pensiero e la sua capacità di leggere analiticamente e criticamente la società del suo tempo.

Gustavo Esteva, intellettuale deprofessionalizzato, collaboratore e traduttore di Ivan Illich a partire dal 1983, riconosce il carattere quasi “profetico” delle riflessioni di questo pensatore rivoluzionario:

Illich anticipò con stupefacente lucidità l’odierno disastro, la decadenza di tutte le istituzioni, il modo in cui, una dopo l’altra, hanno iniziato a produrre il contrario di ciò che vorrebbe giustificare la loro esistenza. Fece vedere con precisione i modi in cui la corruzione del meglio diviene il peggio. E previde anche i modi in cui la gente avrebbe reagito contro il disastro3.

Arturo Escobar4 riporta nel suo saggio L’immaginazione dissidente il giudizio formulato da Erich Fromm, celebre filosofo e psicologo tedesco, su Ivan Illich, di cui era amico e collaboratore. Egli ritiene che la caratteristica centrale del pensiero illichiano sia l’umanesimo radicale, ossia:

una prontezza ed una capacità di porre in discussione criticamente tutte le certezze e le istituzioni che sono diventate puri e semplici idoli chiamati senso comune, logica e tutto ciò che si presume essere naturale. Questo modo radicale di porre in discussione le acquisizioni del mondo in cui viviamo è possibile solo quando non si diano per scontati i concetti base della società in cui si vive o addirittura di un intero periodo storico […]. Il dubbio radicale [caratteristica del pensiero illichiano] è, al tempo stesso, svelare e scoprire […]5.

L’analisi teorica sviluppata da Ivan Illich è incentrata sulla critica dei dogmi della modernità e del mito dello sviluppo da essa promosso. La modernità è caratterizzata dalla prevalenza di un’attitudine specifica, ossia il superamento del limite; la figura mitologica paradigmatica che incarna questa attitudine è Prometeo. L’atteggiamento ribelle e arrogante, con cui Prometeo sfida gli dei, è analogo alla hybris dell’uomo moderno; egli manifesta un delirio di onnipotenza, illudendosi di detenere un potere pressoché assoluto. La specificità della società moderna è l’aspettativa di una crescita economica illimitata:

martedì 12 giugno 2018

"DEMOCRAZIA" - Norberto Bobbio

Da: https://www.facebook.com/riccardo.bellofiore. - https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-
Norberto_Bobbio è stato un filosofo, giurista, politologo, storico e senatore a vita italiano.
Vedi anche: http://www.raiscuola.rai.it/articoli/norberto-bobbio-che-cos%C3%A8-la-democrazia/3851/default.aspx


In tempi di post-democrazia, con un governo di estrema destra, nel giorno che ricorda il referendum che istituì la Repubblica, e aprì il percorso che portò due anni dopo alla Costituzione del 1948, vale la pena di ricordare l’idea di democrazia che maturò allora, con tutto il suo idealismo ma anche tutta la sua grandezza, nelle parole di Norberto Bobbio, che fu uno dei miei Maestri all’Università di Torino. Questo testo comparve nel 1958 su "Risorgimento" che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un' inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell' Ateneo di Torino.                  (Riccardo Bellofiore)


'Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.

Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s' intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l' orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall' alto. Inoltre, oggi siamo convinti che libertà civile e libertà politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla libertà sociale, che sola può dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacità naturali.

Queste tre libertà sono l' espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della più alta e umanamente più ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la libertà civile c' è il riconoscimento dell' uomo come persona, e quindi il principio che società giusta è soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere può essere legittimamente, cioè con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica c' è l' idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della società umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la libertà sociale c' è il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non più rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprietà, il contributo effettivo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignità civile dell' uomo in società.

Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. Là dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c' è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume?

Non posso non esprimere su questo punto qualche apprensione. Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell' umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l' Europa alla vita civile.

La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme.' 

lunedì 11 giugno 2018

- Julian Assange è un problema solo per l’Ecuador o anche per noi? - Alessandra Ciattini




Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza.

Quale sarà il destino di Julian Assange e cosa faranno di lui Trump e Moreno? 

Il Venezuela sembra essere il paese latinoamericano che attira più di tutti l’attenzione dei media (soprattutto la TV), che invece ignorano quasi del tutto le vicende dell’Ecuador, in cui al presidente Rafael Correa è successo Lenín Moreno, eletto circa un anno fa, presentandosi come continuatore della Revolución Ciudadana, avviata dal primo. Eppure l’Ecuador costituisce il secondo produttore di petrolio in America Latina, collocandosi proprio alle spalle del Venezuela, ed inoltre continua a tenere nella sua ambasciata di Londra Julian Assange, attivista politico e fondatore di WikiLeaks, che ha svelato al mondo intero documenti militari e diplomatici statunitensi e di altri paesi e che probabilmente solo i nostri nipoti avrebbero potuto leggere.
In particolare, WikiLeaks ha pubblicato documenti relativi a come sono trattati i detenuti del carcere di Guantánamo, che Obama aveva promesso di smantellare, informazioni relative agli aspetti più oscuri della guerra in Afghanistan, come il massacro di civili, documenti connessi alla guerra in Irak, come le famose torture nel carcere di Abu Ghraib e la deliberata uccisione di civili, valutazioni dei più importanti leader politici mondiali, che quindi evidentemente debbono essere costantemente tenuti sotto osservazione. Infine, nel 2017 WikiLeaks ha reso noto che la CIA, affiancata dalla NSA (National Security Agency) spia milioni di cittadini nel mondo utilizzando cellulari, televisori impiegati come microfoni, della cui presenza ovviamente siamo inconsapevoli.
Come è noto, Assange si era rifugiato nel 2012 nell’ambasciata ecuadoriana dopo essere stato accusato di stupro dalle autorità svedesi ed era stato ben accolto con lo scopo dichiarato di difendere la libertà di espressione. Ma l’elezione di Moreno e la sua vittoria al referendum del febbraio 2018, il cui scopo principale era impedire la rielezione indefinita del presidente della Repubblica (Correa era già stato eletto 3 volte) e mettere nelle mani di Moreno l’organismo di controllo delle istituzioni, creato con la costituzione del 2008, rende assai critica la posizione di Assange. Infatti, sembra che il nuovo direttore d’orchestra (Moreno) abbia cambiato musica, togliendo per esempio all’attivista australiano la connessione internet [1] e cercando di rendergli difficile il prosieguo del soggiorno nell’ambasciata londinese.