domenica 16 aprile 2017

SUL PARTITO* - Stefano Garroni

*passaggi tratti dalla discussione sul: DOCUMENTO DI S. GARRONI: ‘LENIN, LA RIFLESSIONE SUL PARTITO’. 12/99 - Qui l'audio dell'incontro:    https://www.youtube.com/playlist?list=PLAA23B4D87D6C9F26                    

[...] la méra registrazione del tipo di figure proletarie, è vista prevalentemente a fini sindacali, non politici, perché ovviamente il problema del partito – e questo lo vediamo appunto in Lenin in modo chiarissimo -, è fondamentalmente il problema di uno strumento per realizzare certi fini, e allora il problema di fondo è stabilire quali sono i fini, quindi andare oltre la questione del partito
[...]la problematica del partito, nascendo all’interno di una problematica più vasta - che è l’analisi della situazione, le finalità del partito, il modo di concepire la teoria marxista -, inevitabilmente coinvolge la totalità del movimento marxista pensante, e quindi è immediatamente – anche la posizione di Lenin -, il risultato di un confronto critico, di uno scontro, di una pluralità di voci.
[...]E’ estremamente bello mi pare, come i grandi protagonisti del movimento comunista usino l’uno verso l’altro un linguaggio estremamente vigoroso, con accuse pesantissime. Lenin è – sappiamo – una figura enorme e sacramentale per tutto il movimento comunista, ed esistono documenti enormi di Trotskij, Bucharin, di Stalin stesso, che dicono cose terribili contro Lenin e viceversa, proprio perché c’è questo costume molto vigoroso e molto con i piedi per terra, per cui l’analisi non si ricava deduttivamente e dogmaticamente dalla teoria, ma si ricava dal confronto reale con i problemi e con tutta la molteplicità dei problemi che al movimento effettivamente si pongono.
[...]Ovviamente, questo sottolineare che Lenin filosofo lo si ricava ragionando sul suo far politica, come dire, è anche una presa di posizione sull’attuale. Voi lo sapete che verso la filosofia c’è un atteggiamento diffuso molto ambiguo. Solitamente si riserva un grande rispetto alla filosofia, nel senso che tutti se ne fregano: “Il filosofo è persona nobile che si occupa dei problemi dello spirito”, cioè è uno stronzo. Se invece andiamo a vedere in concreto, allora ci rendiamo conto che per esempio l’uomo politico Lenin, intanto fa l’uomo politico, in quanto non solo interviene su situazioni determinate proponendo soluzioni determinate, ma in quanto implica in questo una certa teoria, una filosofia, e allora scopriamo come l’intreccio filosofia-politica, stia nell’agire politico stesso. Donde l’indicazione che noi dobbiamo fare molta attenzione a noi stessi quando facciamo politica, nel senso che nel far politica, volendo o non volendo, portiamo avanti una teoria, e quando portiamo avanti una teoria non sapendolo, o non volendolo, stiamo sicuramente portando avanti la teoria peggiore, cioè quella non critica, non consapevole, non ragionata, e quindi vale la pena di nobilitare fino in fondo l’azione politica rendendoci conto che è l’applicazione di una teoria di cui dobbiamo prendere coscienza. Il che ovviamente non significa – come dire – né riproporre il mito del filosofo che fa politica o del politico che è ipso facto del filosofo. Ovviamente il filosofo professionale sarà una cosa diversa dal politico, però rendiamoci conto che né il filosofo professionale può esser sé stesso senza fare anche lui le ricerche politiche di cui deve essere consapevole, né il politico può esser sé stesso senza fare delle scelte teoriche di cui è bene che sia consapevole. 

sabato 15 aprile 2017

ORDOLIBERISMO E EURO: LA LUNGA MARCIA DELLA RESTAURAZIONE*- Luciano Barra Caracciolo

*Da:   https://scenarieconomici.it/ 

1) ORDOLIBERISMO 


Per parlare dell’ordoliberismo (o “ordoliberalismo”: la distinzione, fatta in italiano, deriva dalla non conoscenza della lingua inglese, dove non esiste la parola liberism, ma solo quella “liberalism”, che indica indistintamente una dottrina economica e la sua inscindibile ideologia politica) prendiamo spunto da questa citazione di una frase di Giuliano Amato in un’intervista rilasciata in inglese. 

La traduciamo così non ci sono equivoci: “Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace – che solleva gli Stati nazionali dall’ansia mentre vengono privati del potere– con grandi balzi istituzionali…Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee...”.
Ordoliberismo: veste €uro-attuale del neo-liberismo che, imperniata sull’obiettivo del lavoro-merce, prende atto dell’ostacolo delle Costituzioni sociali contemporanee (fondate sul lavoro), ed agisce divenendo “ordinamentale”, cioè impadronendosi delle istituzioni democratiche per portarle gradualmente ad agire in senso invertito rispetto alle previsioni costituzionali.”
Questa vicenda di gradualità nell’impossessamento delle istituzioni democratiche, per invertirne la direzione di intervento, cioè per portarle a tutelare e realizzare interessi di segno opposto a quello per cui vennero concepite dalle Costituzioni nate dalla Resistena al nazifascimo, ha una avuto una fase operativa che ne ha consentito l’attuazione tecnocratica, secondo una precisa ideologia economica di tipo restaurativo, come fine ultimo.
 2) LE RADICI RESTAURATRICI

venerdì 14 aprile 2017

60 anni di UE, niente da festeggiare*- Luciano Vasapollo**

*Da:  noirestiamo.org   
**Professore di Politica economica internazionale alla Sapienza di Roma e dirigente della Rete dei Comunisti.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/autogoverno-e-tirannide-alessandro_12.html



Per Vasapollo, già la crisi del 1929 è una grossa crisi di accumulazione da cui il capitalismo esce da un lato con un nuovo modello produttivo – il fordismo – dall’altro ridefinendo il ruolo dello Stato, conferendogli una presenza molto più attiva in termini di spesa pubblica che, come Vasapollo ha sottolineato, di per sé non significa necessariamente spesa sociale, e anzi ha assunto la dimensione prevalente di spesa in armamenti. In effetti, l’uscita da quella crisi è stata storicamente possibile solo con la seconda guerra mondiale e ha visto a quel punto gli Stati Uniti, il cui territorio è rimasto intatto da bombardamenti e distruzioni, imporsi come potenza imperialistica egemone a livello globale, seppur in coesistenza con il blocco socialista a guida sovietica. In questa fase gli USA, tramite ingenti finanziamenti economici, hanno di fatto legato a sé la ricostruzione economica e i destini dell’Europa e del Giappone.

Germania e Giappone hanno sviluppato successivamente una forma particolare di capitalismo, ciò che Vasapollo definisce modello renano-nipponico: alti salari, alta produttività e buon livello di stato sociale in cambio di un livello molto basso di conflittualità. Gradualmente – mentre l’egemonia economica globale statunitense iniziava a incrinarsi, e il 1971 sanciva la fine degli accordi di Bretton Woods e della convertibilità diretta oro-dollaro – questi paesi sono stati in grado di sviluppare un proprio modello di accumulazione, rendendosi gradualmente indipendenti dagli Stati Uniti e anzi diventando suoi competitori.

L’Unione Europea nasce poco dopo la fine della seconda guerra mondiale – i primi passi vanno rintracciati nella Comunità del carbone e dell’acciaio – e da subito rappresenta un progetto di costruzione di un fronte europeo in funzione antisovietica. Vasapollo ha illustrato come ogni passaggio di questo processo di integrazione abbia seguito un importante avvenimento a livello di politica internazionale: il trattato di Roma del 1957 segue i fatti di Ungheria, l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna è del 1973 e segue la fine di Bretton Woods.

Gradualmente, la Germania imprime la sua impronta indelebile sul processo di integrazione europeo: in particolare, data la dimensione fortemente esportatrice della sua economia, essa incoraggia la deindustrializzazione progressiva dei paesi del Sud e dell’Est Europa, in un processo che naturalmente manifesta un fondamentale salto di qualità con la fine del socialismo reale e la riunificazione della Germania, fatti preceduti dall’importante Atto unico europeo del 1986, con cui si sancisce la nascita del mercato unico.

I trattati europei firmati a partire da quello di Maastricht rappresentano la cornice che dà forma al progetto a guida franco-tedesca (dove la Francia è particolarmente importante in quanto braccio militare, mentre la Germania è la potenza economica preponderante), progetto incentrato fin da subito – e non potrebbe essere altrimenti – sulla costruzione di un ruolo da protagonista nella competizione globale, in crescente divaricazione con gli Stati Uniti. Da qui inizia la costruzione di quella borghesia transnazionale europea, di cui la borghesia tedesca rappresenta la parte più avanzata ma certo non l’unica, si pensi ai settori di borghesia italiana che hanno interesse alla costruzione di un polo europeo forte e autonomo e che fanno riferimento al Partito democratico.

giovedì 13 aprile 2017

LOCKE E DINTORNI - Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione: Risposta a un testo di Eugenio Di Rienzo, Dal filosofo allintellettuale politico (11/99)
Qui l'audio dell'incontro:  https://www.youtube.com/watch?v=nCSYIPwWd9s&list=PL2FEDB228D4F2E69B&index=1



[...]buona parte della tematica di Locke è tematica in realtà pre-borghese.

[...]Questo senso del valore che è dato dal lavoro che io ho impiegato nel trasformare la materia, questo è un motivo medievale, è un motivo che trovi in Tommaso d’Aquino per esempio, e di cui Tommaso d’Aquino si serve quando scrive contro l’usura. Cioè, il giusto profitto, è quello che io ricavo dal lavoro che esercito su una materia. Ovviamente questo è in un quadro in cui la dimensione economica è ancora vista dentro una dimensione morale: non è ancora avvenuto quel fenomeno capitalistico di emancipazione dell’economico, e allora da questo punto di vista c’è un altro collegamento con il testo di Marx, proprio quando Marx sottolinea questo emergere dell’economico nella sua autonomia, nel volgersi della società capitalistica.

[...]Ma dal testo viene fuori anche un altro elemento a cui accennavamo in un’altra occasione, e cioè che succede qualche cosa di importante quando il capitalismo, da prevalentemente commerciale, diventa prevalentemente industriale, qualcosa di importante sia a livello della teoria, sia a livello, ovviamente, della vita economica quotidiana, cioè l’emergere sempre di più dell’interesse privato e la rottura della comunità. Questo ha ripercussioni a livello teorico,  come anche per esempio ha ripercussioni importanti a livello religioso, cioè processi interni in particolare al cristianesimo protestante, in cui viene più o meno accentuato l’elemento comunitario individuale del rapporto con il testo sacro. Questo pone anche una relazione importantissima con un fenomeno che Marx chiama il feticismo della merce.

[...]Chiamiamo feticismo quella situazione per cui io attribuisco un potere alla cosa, la cosa è dotata di una sorta di potere magico che agisce su di me. Per esempio gli economisti del '700 affrontano sotto questo aspetto il problema del valore: nell’opinione comune si dice che le cose hanno valore, ma questa è, in sostanza, una mentalità feticistica, è quella mentalità magica che attribuisce valore, potere, alle cose.

[...]In realtà, la lotta contro questo mondo magico, incantato, deve portarci, a livello economico, per esempio a concepire, a renderci conto che il valore delle cose è una decisione dell’uomo, il valore delle cose è l’apprezzamento che l’uomo da alla cosa, quindi tu vedi proprio il meccanismo analogo alla lotta del protestante contro il cattolico: cioè non ha valore in sé il detto del dio. Il problema è quello di cogliere invece la consonanza con il soggetto, quindi emerge il soggetto come elemento giudicante: la fonte del valore è il soggetto, anche del valore economico. E’ interessante che la critica al feticismo in questo senso la trovi in Marx, con un esito diverso da questa soggettivizzazione.

mercoledì 12 aprile 2017

AUTOGOVERNO E TIRANNIDE*- Alessandro Mazzone


*Da:  La contraddizione.   145 – ott.dic.13
Questo articolo è stato pubblicato nel 1999 sul no. 73 della rivista. In questa occasione, per ragioni editoriali, pur riproponendo integralmente il corpo del testo, abbiamo ridotto il numero delle note a margine, escludendo quelle di carattere bibliografico per cui rimandiamo alla precedente versione presente anche sul sito web della rivista.


Lidea dello stato: un’analisi del potere presente


1. Perfino un liberale come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’at­tacco neoliberale ad ogni forma di socialismo è ormai, e sostanzialmente, un at­tacco alla democrazia tout court. Ma per chi ritiene che gli ideologemi neolibe­rali siano piuttosto figure di superficie di un processo, in cui il capitalismo tran­snazionale tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante quattro genera­zioni) – conviene riprendere la questione alla radice.

Si tratta di domandarsi a quali condizioni sia pensabile, nel mondo attua­le, democrazia, cioè autogoverno di una comunità umana, in cui gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche attraverso regole e istituzioni, il miglior sviluppo dei suoi membri. E si vede allora che la questione della de­mocrazia è più ampia di quella delle istituzioni, o anche della configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi istituzionali di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei fini dello Stato, innanzitutto dei “fini” tout court (“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in apertura dell’Etica Nicomachea), e di come questi fini possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale. Questo, naturalmente, è il problema della politica da Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui anche quella liberale è, certo, un elemento – ma è solo per strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto, decretando che prima di Locke e Hobbes c’è il buio, che la nozione di comunità umana e del suo rapporto con la natura (cioè con la non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni, “individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula sæculorum.

Chiamo Corpus collectivum hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione (astratta!) di una qualsiasi comunità umana, capace di riprodursi bioti­camente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè dotata di un suo rap­porto biotopico tipico con l’ambiente naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha, innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le modalità o for­me di moto della produzione e riproduzione della comunità stessa, che variano nel tempo, e che – oggi – tendono a inglobare non solo la produzione e riprodu­zione di individui umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di modalità d’azione storicamente definite) – ma le determinanti biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le forme di vita della comunità, ma solo nella misura in cui la comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa, ossia al limite non ha niente fuori di sé.1 Ma – si dirà giustamente – quante cose una comunità umana ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare, inclusa la sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo “materia” dell’autogoverno, e abbiamo che materia dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei fini, che gli uomini si pongono, come materia, ossia non-volontà, non-ragione, non-posizio­ne e realizzazione di fini, ma appunto materia e condizione di quelle. La “materia” non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini 2, perché senza questi fini non ci sarebbero né condizioni né mezzi della loro realizzazio­ne, e anzi la comunità sarebbe un insieme di automi.3

martedì 11 aprile 2017

Intelligenza artificiale: Frankestein o macchina da soldi del capitalismo*- James Petras

* petras.lahaine.org   -  Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare 
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/il-ruolo-del-progresso-tecnologico-in.html 

Introduzione

Lo Special Report del Financial Times (16/02/2017) ha pubblicato un inserto di quattro pagine sugli usi e possibili pericoli dell'intelligenza artificiale (AI). Diversamente da quelli dei consueti giornalisti spazzatura che servono come megafoni di Washington negli editoriali e nei pezzi sulla politica, quello dello Special Report è un saggio ponderato che solleva questioni importanti, anche se in modo fondamentalmente errato.

L'autore, Richard Walters, passa in rassegna i diversi e maggiori problemi che accompagnano la questione dell'intelligenza artificiale: dalle ansie del pubblico alle diseguaglianze ed alla precarietà del lavoro. Walters supplica quelli che lui chiama i "controllori dei sistemi indipendenti" di prestare attenzione alle frizioni politiche o di confrontarsi con la disgregazione sociale. Gli esperti ed i giornalisti che dissertano sulla distruzione a lungo termine e su larga scala della classe lavoratrice e del pubblico impiego affermano che l'intelligenza artificiale può essere perfezionata attraverso l'amministrazione e l'ingegneria sociale.

Questo saggio procederà a sollevare argomenti fondamentali, questioni che conducono ad un approccio alternativo all'intelligenza artificiale che riposa sull'analisi di classe. Rifiuteremo lo spettro di un'intelligenza artificiale come sorta di Frankenstein, identificando le forze sociali che finanziano progettano e dirigono l'intelligenza artificiale e che traggono beneficio dal suo negativo impatto sociale. 


Questioni fondamentali: demistificare l'intelligenza artificiale 


lunedì 10 aprile 2017

Avanti! Avanti!*- Karl Marx

*Da: Lavoro salariato e capitale, 1847. Pubblicato per la prima volta sulla Neue Rheinische Zeitung, a partire dal 4 aprile 1849. 
(qui tutto il testo:   https://www.marxists.org/italiano/

Colonia, 10 aprile. 

L’accrescimento del capitale produttivo e l’aumento del salario sono però davvero così inseparabilmente uniti come pretendono gli economisti borghesi? Non dobbiamo creder loro sulla parola. Non dobbiamo nemmeno creder loro che, quanto più florido è il capitale, tanto meglio viene ingrassato il suo schiavo. La borghesia è troppo intelligente, essa sa fare i conti troppo bene, per condividere i pregiudizi dei signori feudali, i quali si vantavano dello sfarzo della loro servitù. Le condizioni di esistenza della borghesia la costringono a calcolare.

Dobbiamo quindi esaminare più da vicino la questione seguente:

Quale influenza esercita sul salario l’accrescimento del capitale produttivo?

Se il capitale produttivo della società borghese si accresce nel suo insieme, ha luogo una accumulazione di lavoro più vasta. I capitalisti crescono di numero, i loro capitali crescono di dimensione. L’aumento del numero dei capitali aumenta la concorrenza fra i capitalisti. La crescente dimensione dei capitali fornisce i mezzi per portare sul campo di battaglia dell’industria eserciti sempre più potenti di operai, con strumenti di guerra sempre più giganteschi.

Un capitalista può cacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale solamente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più a buon mercato senza rovinarsi, deve produrre più a buon mercato, cioè aumentare quanto più è possibile la forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro viene però aumentata, innanzi tutto, con una maggiore divisione del lavoro, con un’introduzione generale e un perfezionamento costante del macchinario. Quanto più grande è l’esercito degli operai fra i quali il lavoro viene diviso, quanto più gigantesca è la scala in cui vengono introdotte le macchine, tanto più diminuiscono proporzionalmente i costi di produzione, tanto più fruttuoso diventa il lavoro. Sorge quindi una gara generale fra i capitalisti per accrescere la divisione del lavoro e il macchinario e per sfruttarli sulla scala più grande che sia possibile [78].

sabato 8 aprile 2017

Cinque risposte su marxismo ed ecologia*- John Bellamy Foster**,

*Da:  http://climateandcapitalism.    https://traduzionimarxiste.wordpress.com/
**John Bellamy Foster è direttore della monthlyreview. e docente di sociologia presso l’Università dell’Oregon.



Il marxismo può rafforzare la nostra comprensione della crisi ecologica? L’autore di Marx’s Ecology, John Bellamy Foster, replica alle critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo.

Introduzione:
Il sito indiano Ecologize ha recentemente pubblicato la prefazione scritta da John Bellamy Foster al libro di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Nel commentare l’articolo di Foster, il giornalista ed attivista Saral Sarkar, il quale definisce il proprio punto di vista come eco-socialista, solleva alcuni interrogativi che sfidano l’utilità dell’analisi marxista ai fini della comprensione della crisi ecologica globale. La replica di Foster è stata pubblicata da Ecologize il 26 marzo.

Lo scambio, qui riproposto, affronta importanti questioni circa le prospettive marxiste sulla crisi ecologica globale.

ALCUNE DOMANDE PER JOHN BELLAMY FOSTER
di Saral Sarkar

Il professor Bellamy Foster è un rinomato studioso. E se il suo lavoro ha anche lo scopo di servire le cause nelle quali è impegnato, di certo vorrà rispondere alle seguenti domande/commenti di un lettore di quest’articolo:

Quale utilità può avere sostituire la nozione comunemente usata e ben comprensibile di “grande crisi ecologica” con quella marxiana, poco conosciuta e di difficile comprensione, di “frattura metabolica nel rapporto tra l’uomo e la terra”?

venerdì 7 aprile 2017

Esiste in Marx una teoria generale e unitaria della crisi?*- Ascanio Bernardeschi

*Da:  http://dialetticaefilosofia.it/



2. La possibilità astratta della crisi

Ai tempi di Marx, secondo l’ortodossia degli economisti borghesi la crisi non doveva esistere. Non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi, grandi economisti classici. 

Secondo Adam Smith, per esempio, i meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale l’istruzione, la difesa ecc. astenendosi dall’interferire nell’economia. 

David Ricardo, da parte sua, aderì alla cosiddetta legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta7 . 

Certamente anche a quei tempi non mancarono gli eretici più dubbiosi, quali Sismondi e Malthus. Ma si trattò appunto di eresie contro l’egemonia schiacciante dei negazionisti. Figuriamoci poi cosa poterono dire gli apologeti. Qualcuno ebbe modo perfino di studiare le macchie solari8 , tanto per escludere che le crisi potessero essere causate da contraddizioni insite al modo di produzione capitalistico. 

Insomma la crisi o non esiste, o è il prodotto di cause “esogene”, o frutto di comportamenti di operatori irrazionali, o troppo egoisti (capita a volte di esagerare), oppure è il risultato di politiche sbagliate. Comunque si tratta di uno spiacevole inconveniente, di un evento patologico estraneo alla fisiologia del capitalismo.

Marx ha confutato la legge degli sbocchi, partendo dall’incipit del Capitale: il duplice carattere della merce9 . Questa «cellula elementare» del capitalismo è già in sé una contraddizione in quanto è sia un bene utile a soddisfare bisogni umani che una depositaria di ricchezza sociale astratta, di lavoro umano sociale astratto occorrente per la sua produzione. Per il produttore la sua utilità è solo quella di essere un potenziale involucro di ricchezza sociale ma non ha un valore d’uso immediato, altrimenti non la scambierebbe; è un valore di scambio potenziale che per realizzarsi come effettivo valore di scambio deve incontrare nel mercato qualcuno che le consideri un buon valore d’uso.

Con l’introduzione del denaro il valore si polarizza in quest’ultimo, più appropriato, contenitore, la cui utilità sta solo nel conferire al possessore il potere di acquistare merci utili, mentre al polo opposto, specularmente, le merci sono valori d’uso che possono realizzare il loro valore solo scambiandosi con denaro.

Il denaro separa in due atti distinti la metamorfosi della merce (M-D-M’) a differenza di quanto avviene con lo scambio immediato o baratto (M-M’). Nel baratto colui che vende è nello stesso istante colui che acquista l’altra merce e viceversa, vendita e acquisto coincidono, per cui in questo contesto vale la legge degli sbocchi. Se invece lo scambio viene spezzato in due fasi (vendita e acquisto) esiste la possibilità che, dopo la prima, il venditore preferisca non spendere subito il suo denaro, ma tesaurizzarlo o spenderlo in altri mercati, togliendolo quindi dalla circolazione senza mettere in atto la domanda corrispondente. In tal modo ci sarà da qualche parte un potenziale venditore che non troverà il suo acquirente, che non riuscirà a trasformare la sua merce in denaro10.

lunedì 3 aprile 2017

POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE*- Giovanna Vertova**

*Etica & Politica / Ethics & Politics, XIX, 2017, 1.   http://www2.units.it/etica/
**Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi Università di Bergamo.
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/un-reddito-garantito-ci-vuole-ma-quale.html
                            https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/salario-minimo-garantito-reddito-di.html

                                                                                                     Quesito 1.
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignitàpugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni? 

G. Vertova:
Trovo abbastanza bizzarro che la prima domanda di un dibattito sul reddito di base (RdB) non riguardi la validità della proposta, quanto il ritardo nella discussione teorica e nella pratica politica italiana. Lo trovo ancora più bizzarro quando si invita al dibatto una persona che, in più di una occasione, ha sollevato critiche, sia teoriche che politiche, al RdB1 . Forse sarebbe stato intellettualmente più stimolante chiedere ai partecipanti una analisi di tale proposta. Mi prendo, quindi, la libertà di riassumere, molto velocemente, le mie perplessità, prima di rispondere.

Prima di tutto è necessario chiarire di cosa si sta parlando, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato a un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro)2 . Questa nuova forma di welfare viene presentata dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.

domenica 2 aprile 2017

STACANOVISMO E CONTRORIFORME NEL CAPITALISMO NEOLIBERISTA*- Paolo Massucci**

*Da:   http://contropiano.org/
**collettivo di formazione marxista Stefano Garroni 

Analisi dei messaggi ideologici nella presente fase del capitalismo

In una edificante serata del popolare festival di San Remo di quest’anno abbiamo avuto il piacere di assistere alla presentazione di una “nuova” figura nel panorama ideologico neoliberista: quella dello Stachanov nostrano. Si tratta di un impiegato pubblico modello, il quale, in quarant’anni di lavoro, non ha fatto neppure un giorno di malattia ed inoltre ha accumulato ben 239 giorni di ferie non godute. Ci si potrebbe chiedere -se fosse cosa seria- se la ricerca medica stia studiando il caso, per scoprire i segreti della “salute miracolosa”. Invece, riguardo ai 239 giorni di ferie non godute -se fosse vero-, saremmo curiosi di sentire anche il parere della moglie, se mai ne avesse.

E’ notizia di questi stessi giorni che Boeri, presidente dell’INPS, il quale si è distinto per il tentativo -ad oggi fallito- di sacrificare la pensione di reversibilità per i superstiti, intenderebbe intensificare i controlli medico-fiscali per i dipendenti pubblici assenti per malattia. E, con l’occasione, richiederebbe di aumentare, da quattro a sette, le ore giornaliere di reperibilità per le visite di controllo del medico fiscale per i dipendenti in malattia del settore privato, uniformando così la durata della reperibilità dei dipendenti privati a quella dei dipendenti pubblici. Per questi ultimi infatti detta durata era già stata portata da quattro a sette ore dal ministro Brunetta del governo Berlusconi.

Si tratta, secondo Boeri, la classe dirigente e i giornalisti venditori al dettaglio dell’ideologia neoliberista e repressiva, di semplice ristabilimento di un principio di equità (naturalmente non viene neppure considerata la possibilità di uniformare per tutti la durata delle fasce di controllo alle quattro ore attuali dei dipendenti privati e neppure di stabilire un livello intermedio tra le quattro e le sette ore). Eppure, specularmente, nessuno di loro ha giudicato iniquo il cambiamento effettuato da Brunetta, allorché introduceva l’aumento della fascia oraria di reperibilità esclusivamente per il pubblico impiego: è stata considerata, anzi -quella di Brunetta- una misura “più che sacrosanta!”.

Al principio di equità si è ispirata anche la controriforma delle pensioni Fornero del governo Monti: essa ha innalzato di tanti anni l’età pensionabile (che secondo le stime supererà i 70 anni per i quarantacinquenni di oggi), soprattutto per le donne, le quali prima avevano una pensione anticipata rispetto agli uomini e ora sono state equiparate agli uomini, semplicemente innalzando l’età delle donne a quella degli uomini (con un aumento di ben dieci anni!). Non volevamo la “parità tra sessi”?

lunedì 27 marzo 2017

La Cina nel processo di globalizzazione*- Spartaco A. Puttini



Sotto la guida di Reagan e della Thatcher, Stati Uniti e Gran Bretagna vararono nel corso degli anni Ottanta una serie di politiche che contribuirono a ristrutturare le società dell’Occidente (e non solo dell’Occidente) e l’ordine internazionale. Il processo di globalizzazione neoliberista [1] che ha plasmato il mondo negli ultimi decenni ha il proprio epicentro proprio nella Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Su quest’onda si impose un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal “Washington Consensus”.

Oggi, invece, il presidente USA, Donald Trump e la premier britannica Theresa May puntano esplicitamente a sottrarsi, in termini e modalità pur differenti, alla morsa dell’interdipendenza sempre crescente tra le varie regioni del globo che è stata un tratto caratteristico del processo di globalizzazione. Il nuovo presidente statunitense, in particolare, arriva a mettere in discussione alcune delle stelle cardinali seguite dalla politica americana negli ultimi decenni. Lo fa sul dossier messicano, principalmente per porre fine ai processi migratori che scavalcano il Rio Grande, incorrendo nella seria conseguenza di mandare in malora il NAFTA, l’area integrata di libero scambio che riunisce USA, Canada e Messico e che riveste un’importanza strategica essenziale nella politica estera statunitense. Più in generale Trump mette in discussione la bontà dei progetti di integrazione regionale a guida Usa, che erano stati promossi al fine di legare al carro statunitense aree strategiche vitali nella sempre più difficile competizione geopolitica con gli antagonisti dell’unipolarismo americano: Russia e Cina.

Cosa ha spinto Trump, finora, ad assumere posizioni così singolari? In parte, questa postura risponde alla promessa di far rinascere uno stato del benessere che ha caratterizzato il sogno americano, sogno ormai sepolto grazie all’impatto sociale del neoliberismo. E’ questo il significato più profondo dello slogan agitato durante la corsa per la Casa Bianca: “first america great again”. Far tornare grande l’America, significava per lui, ricostruire le basi dello standard di vita statunitense, ormai museo dei ricordi e tornare ad alimentare il mito del self made man di cui lui stesso rappresenta incarnazione evidente. Su questa base ha costruito il suo successo contro chi sosteneva lo status quo di strategie politiche che parte dell’establishment stretto attorno alla Clinton riteneva indiscutibili, al fine di garantire l’egemonia statunitense. Questo non significa che a Washington siano stati abbandonati i sogni di gloria, ma significa che il paese è al suo interno spaccato e che nelle stanze del potere il dibattito sulla strada da intraprendere è serrato.

Forse la strategia di Trump inverte quella precedente: non tenta più di strappare la Cina dalla Russia, come ipotizzato dalla diplomazia del ping-pong di Kissinger in poi, ma di strappare la Russia dalla Cina. Una trappola nella quale la Russia non intende cadere, come ha sottolineato in un discorso alla Duma il ministro degli Esteri russo Lavrov [2].

Se in alcune cerchie si parla (propriamente o meno è un’altra questione) di de-globalizzazione, in discussione ci sono le relazioni troppo stringenti e vincolanti che sono state strette nei decenni scorsi tra Usa e Cina, che hanno dato un loro contributo nel promuovere lo spostamento dell’asse economico del mondo dall’Atlantico all’Asia orientale e nel mirino c’è la Cina. Cina che appare oggi paradossalmente come alfiere delle politiche di interdipendenza. Per capirne i motivi bisogna risalire però alle radici della scelta di Deng Xiaoping di attuare la politica di riforme e apertura che sono state alla base del miracolo cinese.

domenica 26 marzo 2017

Vita quotidiana all'Avana*- Alessandra Ciattini

*Da:   https://www.lacittafutura.it/     

Vedi anche: Il blocco contro Cuba: il genocidio più lungo della Storia  https://www.youtube.com/watch?v=vItDZLwt6Hg 

Cosa ci dice la vita quotidiana a Cuba.

Vita quotidiana all'Avana

Uscendo la mattina ancora fresca da un edificio popolare e periferico ti accoglie la tiepida umidità non incontaminata dell'Avana. I vicini si avvicinano e ti salutano, chiedendoti informazioni sulla tua vita e suoi tuoi famigliari. È difficile liberarsi in pochi minuti tanto i rapporti sono stretti e continui. Trascinando il suo carrettino, qualche venditore ambulante grida offrendo ai passanti pane, frutta e verdura. È anche possibile veder passare un carretto, caricato di materiale vario, tirato da un cavallino docile e mansueto. Le piante lussureggianti che ombreggiano qualche viale danno un senso di vitalità istintuale che può rianimare qualche turista del vecchio mondo. Ora comincia la grande fatica, cui non si sottraggono neppure gli uomini (anzi questa sembra essere una grande conquista delle donne cubane): fare la spesa per sopperire alle necessità quotidiane. Se ti sei fatto la lista delle cose da comprare devi fare parecchi giri, perché non tutto si trova nel medesimo luogo. Ci sono i grandi magazzini dello Stato, che in molti casi hanno più l'aspetto di depositi che di supermercati, e le tiendas particulares. È possibile pagare sia in convertibles (CUC, grosso modo l'equivalente di un euro) o in pesos, tenendo presente che un CUC vale 24 pesos. Per esempio, se si compra una piccola bottiglia di olio di oliva, che non fa certo parte degli alimenti consumati dai cubani, in CUC costa 6,40 in pesos 160.

Vi sono alimenti che per le difficoltà di produzione e di approvvigionamento sono introvabili, altri è possibile trovarli dopo aver fatto alcuni giri e seguendo i consigli dei passanti che ti indicano i possibili luoghi riforniti di quello che cerchi. Senza voler risalire troppo indietro nel tempo, appare evidente che nessun settore dell'economia cubana sia stato colpito come quello agricolo, dopo la dissoluzione del blocco socialista. In particolare la produzione dello zucchero e dei suoi derivati: se alla fine degli anni ‘80 del ventesimo secolo a Cuba si lavoravano circa 8 milioni tonnellate metriche di canna da zucchero, a partire dal 2010 si supera appena un milione di tonnellate. Quasi tre quarti delle industrie di lavorazione della canna sono state chiuse e le terre prima destinate a tale coltivazione sono state abbandonate. Dal 2007 si è cominciato a ridistribuire queste terre sotto varie forme, ma solo nel primo decennio del ventunesimo secolo è cresciuta la produzione dei prodotti più cari nei mercati dei prodotti agricoli. Questa è la ragione per la quale Cuba è diventata fortemente dipendente dall'importazione di alimenti dall'estero (J. I. Domínguez, Introducción, in Desarrollo económico y social en Cuba, 2013: 11). 

sabato 25 marzo 2017

Introduzione a Per la Critica dell'Economia Politica*- Stefano Garroni

Nel primo §. (Individui autonomi. Idee del XVIII secolo), l’argomento di Marx è facilmente riassumibile. L’economia politica ha come oggetto la produzione materiale, la quale è svolta da individui, che lavorano in certe condizioni sociali; è naturale, dunque, (nel senso di “è ovvio”, “va da sé”) che il discorso dell’economia politica prenda le mosse dagli individui, che operano in condizioni socialmente determinate. E’ pur vero che nel Settecento si è andato imponendo un altro modo di procedere, ovvero, si è ritenuto di poter iniziare il discorso dell’economia politica a partire dall’individuo isolato, dal Robinson Crusoe (il personaggio dell’omonimo romanzo settecentesco di Daniel De Foe). ma si tratta di un’illusione dell’epoca (la robinsonata), la quale consegue, per un verso, dal tentativo di legittimare l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un altro, dalla cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia possibile, solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime se stessa attraverso individui isolati.
Questo è, di primo acchito, il discorso che Marx fa. E’ vero, tuttavia, che guardando le cose più a fondo -per così dire con uno sguardo più sospettoso e scaltrito-, la faccenda si rivela più complessa.

Il fatto stesso che Marx ponga il tema del ‘punto di partenza’ (Ausgangspunkt) significa, implicitamente, richiamare Hegel, il quale aveva iniziato, ad es., la sua Scienza della logica (Wisenschaft der Logik) proprio affrontando la questione dell’Ausgangspunkt. Ed Hegel è richiamato anche nel proseguo. Infatti, quello che Marx, subito, indica come naturalmente il punto di partenza, a ben vedere, corrisponde ad una immediata considerazione, ad un diretto collegamento con l’esperienza: in altre parole, è come se Marx dicesse «basta guardar gli uomini che lavorano, per rendersi conto che lavorano in condizioni socialmente determinate».

Sennonché uno dei punti centrali del ragionamento, che Marx svolgerà in questo testo, è proprio la dimostrazione che cogliere la struttura sociale della produzione è operazione tutt’altro che naturale, perché, al contrario, assai raffinata -un’operazione, che richiederà di far ricorso a complesse procedure sia logiche che epistemologiche. Insomma, come vedremo, l’effettivo Ausgangspunkt, per Marx, richiederà un rapporto tutt’altro che immediato e naturale con l’esperienza.

Giungere all’effettivo punto di partenza, infatti, richiede superare la fase della robinsonata. Ma che cos’è quest’ultima? E’ il momento in cui l’insieme immediato -di uomo e sue condizioni di lavoro- viene rotto: il «tutto» dell’esperienza si scinde e l’individuo si separa dalle condizioni oggettive (sociali e naturali) della sua attività produttiva, ponendosele, per così dire, di fronte, come poteri estranei, dai quali egli è tanto indipendente, quanto essi stessi sono indipendenti da lui. In termini hegeliani, questo è il momento dell’intelletto (Verstand) che, giusta la lezione di Hegel, introduce, appunto, la scissione nella totalità immediata. Solo superando questo momento, sarà possibile -lo vedremo- conquistare l’effettivo punto di partenza.
La conclusione è chiara: il semplice discorso che Marx fa di primo acchito, in realtà, è un richiamo assai preciso ad un fondamentale ritmo del ragionamento hegeliano. Fin da subito, dunque, comprendiamo che sarà possibile intendere effettivamente queste pagine di Marx, solo a condizione di evidenziarne il legame con la riflessione di Hegel.

venerdì 24 marzo 2017

Tesi su Feuerbach* - Karl Marx

*Questo testo tanto breve quanto denso fu scritto da Marx nel marzo del 1845. Rimase tuttavia a lungo inedito finchè non fu pubblicato nella Neue Zeit (1886) da Engels che lo riprodusse in appendice al suo Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888). Si è usata qui la traduzione italiana di Palmiro Togliatti, in appendice al vol. Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80.  https://www.marxists.org/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/05/ancora-sulla-dialettica-tesi-su.html
Ascolta anche:     https://www.youtube.com/watch?v=b8MG0OUn4Vo

I

Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E' accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l'importanza dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica.

II

La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.

mercoledì 22 marzo 2017

Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero di Gramsci*- Salvatore Tinè


Quello del rapporto tra internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione cosmopolitica del sistema di produzione capitalistica. Una vocazione  che gli appariva particolarmente evidente nei settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli  e delle nazioni e su quello della libertà degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918.

L’economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo.[1] 

lunedì 20 marzo 2017

La barbarie dello «specialismo»*- José Ortega y Gasset



La tesi era che la civiltà del secolo XIX ha prodotto automaticamente l’uomo‐ massa. Conviene di non chiudere la sua esposizione generale senza analizzare, in un caso particolare, il meccanismo di questa produzione. In tal modo, nel concretarsi, la tesi guadagna in forza persuasiva. 

Questa civiltà del secolo XIX, dicevamo, può riassumersi in due grandi dimensioni: democrazia liberale e tecnica. Consideriamo adesso soltanto quest’ultima. La tecnica contemporanea nasce dall’accoppiamento del capitalismo con la scienza sperimentale. Non tutta la tecnica è scientifica. 

Chi fabbricò nell’età preistorica le torce con la pietra focaia, mancava di senso scientifico non sospettarlo minimamente l’esistenza della fisica. 

Soltanto la tecnica moderna europea ha una radice scientifica, e da questa radice le deriva il suo carattere specifico, la possibilità di un progresso illimitato. Le altre tecniche ‐mesopotamiche, nilota, greca, romana, orientale‐ tendono fino a un punto di sviluppo che non possono sorpassare, e, appena lo raggiungono, cominciano a retrocedere in una misera involuzione. 

Questa prodigiosa tecnica occidentale ha reso possibile la meravigliosa prolificità della casta europea. Si ricordi il dato statistico da cui è partito questo saggio e che, come facemmo notare, racchiude in germe tutte queste meditazioni. Dal secolo V al 1800, l’Europa non giunge a ottenere una popolazione maggiore di 180 milioni. Dal 1800 al 1914 ascende a più di 460 milioni. Il salto è unico nella storia dell’umanità. Non si può dubitare che la tecnica ‐insieme alla democrazia liberale‐ ha generato l’uomo‐massa nel senso quantitativo di questa espressione. Però queste pagine hanno cercato di mostrare che è anche responsabile dell’esistenza dell’uomo‐massa nel senso qualitativo e peggiorativo del termine. 

Per «massa»  ‐ed è un’avvertenza che facemmo fin dal principio‐ non si intenda specialmente l’operaio; non designa qui una classe sociale, ma un tipo o un modo d’essere dell’uomo che si ritrova oggi in tutte le classi sociali, che per ciò stesso rappresenta il nostro tempo, su cui esso prevale e domina. 

Chi esercita oggi il potere sociale? Chi impone la struttura del proprio spirito all’epoca? Senza dubbio, la borghesia. Chi, in seno a questa borghesia, è considerato come il gruppo superiore, come l’aristocrazia del presente? Senza dubbio, il tecnico: ingegnere, medico, finanziere, professore ecc., ecc. Chi, dentro a questo ambiente tecnico, lo rappresenta con maggiore altezza e purezza? Indubbiamente, l’uomo di scienza. Se un personaggio «astrale» visitasse l’Europa e, con animo di giudicarla, le domandasse attraverso a quale tipo d’uomo, fra quelli che l’abitano, preferisse di essere giudicata, non c’è, dubbio che l’Europa indicherebbe, compiaciuta e sicura di una sentenza favorevole, i suoi uomini di scienza. E, naturalmente, il personaggio «astrale» non domanderebbe di portare il giudizio su individui d’eccezione, ma cercherebbe la norma, il tipo generico dell’uomo di scienza, vertice dell’umanità europea. 

Ebbene, dunque: risulta che l’attuale uomo di scienza è il prototipo dell’uomo‐massa,. E non a caso, né per difetto personale di ciascun uomo di scienza, ma perché la scienza stessa  ‐radice della civiltà- lo tramuta automaticamente nell’uomo‐massa: cioè, fa di lui un primitivo, un barbaro moderno. 

domenica 19 marzo 2017

Sul CAPITALE: Storia e Logica*- Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione del 11/03/99: Sul Capitale - Storia e Logica https://www.facebook.com/groups/
Qui l'audio dell'incontro:   https://www.youtube.com/playlist?list=PL88CA5CCDE4BD1EAC


[...] La prova induttiva, in definitiva, è questa: il mondo, il mondano, cioè la dimensione dell’esistente, è la dimensione del finito, del particolare; di ciò che per esistere ha bisogno di altro. E’ il mondo degli effetti che hanno bisogno delle cause, ma a loro volta le cause sono effetti di altre cause, quindi ogni esistente rinvia ad altro per giustificare la propria esistenza. In questo continuo rinvio del contingente a una causa che lo spiega, la quale causa a sua volta diventa però un contingente che è effetto di un’altra causa ecc., ; in questo continuo rinvio non si raggiunge mai una stabilità, non si raggiunge mai una ragione dell’esistenza di questo contingente: donde la necessità di postulare una ragione fuori del mondo del contingente, che sia la ragione di tutto il mondo contingente.

[...] E’ molto importante il fatto che quando Hegel affronta questo tipo di prova dell’esistenza di dio, mette in evidenza che accettando queste prove, e quindi accettando quel ragionamento per cui il contingente trova nel necessario la propria causa, si dimostra anche il contrario, e cioè che è proprio il contingente che pone il necessario. Cioè che così come è vero che il particolare, il finito, il contingente, ha bisogno del necessario per esistere, il necessario intanto esiste in quanto è necessario del contingente.

E’ del tutto chiaro che se esiste una legge che vieti qualcosa, esisterà la violazione di quella legge: in quanto la gente ruba c’è una legge che dice “Non rubare”, e quindi la legge del non rubare, intanto può esistere in quanto esiste il contrario del non rubare, cioè il fatto del rubare. Questa legge, intanto può esistere in quanto esiste il contrario di se stessa, cioè la sua violazione, e quindi il mondo della legge, della regola, del diritto, implica l’esistenza del mondo del delitto.

[...] No, no, no, noi diamo per scontato che sia vero. Ma capisci che cosa mostruosa è dire che un evento storico, è quello che è per ragioni logiche? E’ cosa mostruosa perché tu hai fatto della logica, delle leggi logiche, la legge della storia. Il che è la follia più totale. Basta assistere a una seduta del nostro parlamento per vedere che la politica con la logica non ha nulla a che vedere. Spiegare la storia, la politica, l’economia, con le leggi logiche, è il massimo dell’aberrazione nel senso che tu inventi un mondo di sogni. Sembrerebbe allora che nella storia il miglior politico sia il miglior logico matematico, perché è quello che sa fare meglio i conti logici, ed è quindi il miglior politico, e invece non è vero nulla.

E' interessante che Marx molte volte, quando deve spiegare il suo discorso, ricorre proprio a quello schemino che dicevo. Per esempio c’è uno scritto sulla forma di valore, che è tutto costruito in questa maniera: tanto di X è uguale a tanto di Y, perché valgono tutti 10 lire.

sabato 18 marzo 2017

La produzione capitalistica di fabbrica fondata sulle macchine*- Aleksandr A. Kusin

*da Aleksandr A. Kusin, Marx e la tecnica, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, 1975   www.resistenze.org  
Leggi anche:   https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2016/06/30/limperialismo-nel-xxi-secolo/ 


"La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l'operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. E' fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l'operaio ad adoprare la condizione del lavoro ma viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l'operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica il mezzo di lavoro si contrappone all'operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente." (K. Marx, Il Capitale

"Finché il capitale è debole, esso stesso ricerca  ancora le grucce di modi di produzione tramontati… Ma non appena si sente forte, esso getta via le grucce e si muove in accordo con le sue proprie leggi. Non appena comincia a percepirsi come ostacolo allo sviluppo e a essere vissuto come tale, esso cerca rifugio in forme che, mentre sembrano perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano al tempo stesso la dissoluzione sua e del modo di produzione su esso fondato."  (Karl Marx, Grundrisse)

“il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo  cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale” (Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo) 


1. La necessità tecnica del passaggio dalla manifattura alla produzione meccanizzata di fabbrica