venerdì 6 maggio 2016

ROSA LUXEMBURG: RIVOLUZIONARIA, DONNA, FEMMINISTA* - Antonella Marazzi




Il mio primo incontro con Rosa risale ai primissimi anni ‘70, quando giovane militante cercavo con studi, tanto appassionati quanto caotici, di darmi una formazione teorica di base. Ricordo che ne ricevetti l’impressione di una donna decisa, dalla forte personalità politica e dalle brillanti doti teoriche, che aveva attraversato come una meteora l’orizzonte politico della Seconda internazionale per finire assassinata dalla controrivoluzione tedesca, dopo aver polemizzato con alcune delle più acute intelligenze rivoluzionarie della sua epoca. Nel corso degli anni avevo poi ripreso in mano alcune sue opere, ultima in ordine di tempo, La Rivoluzione russa. Il convegno organizzato a Roma da Utopia rossa nel settembre del 2009 a novant’anni dalla sua morte mi ha fornito l’opportunità di incontrarla di nuovo. E così ho trascorso con lei l’ultimo scorcio di una caldissima estate, leggendola sulle sponde di un lago, a immediato contatto con quella natura da lei così profondamente amata in tutti i suoi molteplici aspetti e nella quale cercava di immergersi non appena poteva.

A mio avviso, Rosa ha rappresentato, insuperata, l’unico esempio di donna, rivoluzionaria a tempo pieno, che sia riuscita a praticare concretamente la fusione tra la militanza attiva nei movimenti di lotta della sua epoca - come agitatrice e dirigente - e l’impegno teorico. Un impegno speso sul campo della polemica con alcuni tra i più famosi e prestigiosi intellettuali del suo tempo, come Bernstein, Kautsky e lo stesso Lenin (oltre a Trotsky con cui fu spesso d’accordo). Una produzione teorica finalizzata alla denuncia di posizioni che ai suoi occhi rappresentavano concreti pericoli sulla strada della rivoluzione socialista: contro il revisionismo di Bernstein (Riforma sociale o rivoluzione?); contro la teoria leninista del partito (Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa) e contro la concezione burocratica del rapporto tra movimenti di massa, partito e sindacato (Sciopero di massa, partito, sindacati); contro il nazionalsciovinismo di Kautsky e della maggioranza del Spd (La crisi della socialdemocrazia); contro i pericoli di degenerazione della Rivoluzione russa del ‘17 (La Rivoluzione russa).

Da non trascurare sono anche i suoi testi di economia politica come l’Introduzione all’economia politica L’accumulazione del capitale - in cui si misura direttamente con il Marx de Il Capitale - elaborati nel periodo in cui insegnò alla scuola quadri del Spd a partire dal 1907. Per non parlare poi della prodigiosa mole di articoli pubblicati sugli organi di stampa dei partiti in cui militò e/o che contribuì a fondare: Partito socialdemocratico tedesco (Spd), Partito socialdemocratico di Polonia e Lituania (Sdkpil), Spartakusbund, Kpd. 

giovedì 5 maggio 2016

CUBA DOPO LA VISITA DI BARACK OBAMA* - Alessandra Ciattini




Quali saranno le conseguenze del nuovo corso delle relazioni tra USA e Cuba sottolineato con grande risonanza mediatica in occasione della recente visita di Obama? Molti problemi e interrogativi restano aperti e su di essi discutono anche le massime autorità cubane. 



In numerose fonti di informazioni latinoamericane e cubane (anche ufficiali) si discute molto sulle conseguenze della visita a Cuba del presidente Barack Obama, insignito per il solo fatto di essere quasi nero e statunitense del premio Nobel per la pace; conseguenze che ovviamente non si faranno sentire solo nell'isola caraibica, ma che si riverberanno su tutta la società latinoamericana, scossa da una serie di tensioni e conflitti, il cui obiettivo è la destabilizzazione dei governi progressisti ivi operanti. In questo senso Cuba resta un simbolo ancora vitale, la cui stessa esistenza rimanda a possibili alternative per gli Stati Uniti indigeribili. Naturalmente in questo breve intervento rifuggirò da tutte quelle interpretazioni che, solo allo scopo di generare sensazionalismo, fanno di questo evento qualcosa di epocale, da cui dovrebbe scaturire una nuova fase nella storia del mondo (come, d'altra parte, ho fatto in un altro intervento pubblicato sempre su LCF).

Comincio con il soffermarmi su quanto si ricava dal canale televisivo interstatale Telesur, cacciato recentemente dall'Argentina, in cui è andato al potere un personaggio legato alla passata dittatura e al capitale transnazionale. Nel noticiero e nei vari programmi di Telesur emergono sostanzialmente due aspetti della questione: da un lato, si sottolineano i possibili vantaggi che deriverebbero alla più grande delle Antille dall'apertura delle relazioni commerciali e finanziarie con gli Stati Uniti, la quale provocherebbe il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e, di conseguenza, il consolidamento del socialismo cubano, che dovrà essere prospero e sostenibile. È questa la linea ufficiale, identificata in particolare con la figura di Raúl Castro, il quale ha sempre parlato della necessità di “actualizar el socialismo cubano” e di procedere alla normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, con i quali rimangono tuttavia – sottolinea - importanti divergenze. E, d'altra parte, l'attuale leader cubano ha anche più volte ribadito che tale normalizzazione potrà realizzarsi solo nel pieno rispetto dell'autonomia e della sovranità della nazione cubana, ossia con il ripudio della politica di ingerenza anche violenta, che – nonostante le parole amichevoli di Obama a Cuba – continua a manifestarsi in varie forme; pensiamo, per esempio, al prolungamento delle sanzioni contro il Venezuela considerato una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e un paese non rispettoso dei diritti umani (1).

Il lungo viaggio di Hilary Putnam. Realismo metafisico, antirealismo e realismo naturale* - Mario De Caro

*Da:   https://www.academia.edu/

"Chi è filosoficamente confuso è come un 
uomo in una stanza, che vuole uscirne, ma 
non sa come fare. Prova a passare dalla 
finestra, ma è troppo alta. Prova a passare per 
il comignolo, ma è troppo stretto. E se 
soltanto si guardasse intorno, si accorgerebbe 
che la porta è rimasta aperta." 
 Ludwig Wittgenstein 

 La strada che Putnam sta esplorando oggi consiste dunque nel recuperare un atteggiamento naturale rispetto alla percezione, «a second naiveté», che ci permetta di tornare a comprendere che «le cose ‘esterne’ – i cavoli, i re – possono essere esperite» (e non meramente causate). Se si rinuncia alla concezione tradizionale della percezione e si ammette che di norma noi percepiamo direttamente il mondo, i problemi dell’epistemologia tradizionale svaniscono. E’ importante notare, però, che la rinuncia agli intermediari mentali nella spiegazione della percezione non significa che Putnam postuli una sorta di ‘contatto immediato’ tra la mente e gli oggetti (in questo modo non farebbe che riproporre la ‘teoria magica del riferimento’).

 Il punto, piuttosto, è che in questa prospettiva la stessa distinzione interno/esterno non ha più ragion d’essere: la mente, infatti, non viene più considerata come un organo, materiale o immateriale, che elabora informazioni che vengono dall’esterno; essa piuttosto è vista come un sistema di abilità cognitive, dipendente sia dagli eventi cerebrali sia dalla nostra interazione con il mondo e descrivibile soltanto per mezzo di un vocabolario intenzionale. In tale ottica anche la percezione è l’esercizio di un’abilità cognitiva. Percepire un oggetto, spiega Putnam, non è un processo bipartito, in cui a un’interazione non cognitiva tra oggetti e apparato percettivo faccia seguito l’elaborazione cognitiva da parte del cervello. Ad essere cognitivo è il processo percettivo nella sua interezza.

 Una tesi di questo genere si radica con evidenza nella tradizione pragmatista: «gli eventi cerebrali sono una parte della mia attività cognitiva e percettiva solo perché io sono una creatura con un certo tipo di ambiente normale, e con una certa storia di interazioni individuali e di specie con quell’ambiente». In tal modo, secondo Putnam, né gli eventi cerebrali né i fenomeni percettivi sono intrinsecamente  cognitivi: «[c]ome avrebbe detto John Dewey, ciò che è cognitivo è l’interazione».

 Con l'adesione al realismo naturale, Putnam dichiara concluso il suo itinerario filosofico, «un lungo viaggio che dal realismo è partito e che al realismo è tornato». Il rigore della sua riflessione e le nuove prospettive che nel corso degli anni egli ha dischiuso stanno a dimostrare che questo suo travagliato viaggio non è stato affatto infecondo.


mercoledì 4 maggio 2016

Dialoghi di profughi X.* - Bertolt Brech




LA FRANCIA, OVVERO IL PATRIOTTISMO. – DEL METTER RADICI.


Ziffel dovette dare a Kalle la triste notizia che non vedeva alcuna possibilità di continuare a scrivere le sue memorie, perché aveva avuto troppo poche esperienze.

KALLE    Eppure in vita sua deve ben aver avito delle esperienze, se non grandi, almeno piccole. Racconti queste!

ZIFFEL    In teoria si afferma che ognuno ha una sua vita, ma è soltanto un sofisma che ha una validità puramente formale, in quanto si può certamente chiamare vita il vegetare per settant’anni, o anche solo per tre anni. Conosco il detto secondo cui ci si può rallegrare alla vista di un ciottolo sulla riva di un torrentello quanto alla vista del Cervino. Si può ammirare la creazione del signore allo stesso modo in tutti e due i casi, ma io preferisco ammirarla davanti al Cervino, è questione di gusti. Naturalmente si può parlare di tutto in modo interessante, ma non tutto merita interesse. Comunque io l’ho già finita con le mie memorie, e questo è quanto mai triste.

KALLE    Racconti almeno a voce di tutti i posti dove è stato, e perché ne è venuto via; insomma, come ci ha vissuto.

ZIFFEL    Allora ci sarebbe da parlare della Francia. La patrie. Sono contento di non essere un francese. Quelli devono essere troppo patrioti per i miei gusti.

martedì 3 maggio 2016

Un'etica d’ispirazione psicoanalitica - Roberto Finelli*



Oggi io credo - attraverso il confronto, sempre più indispensabile ed inevitabile, con la cultura della psicoanalisi - etica e politica, scienze umane e filosofia, possono giungere a ragionare di un nuovo materialismo che includa nei bisogni originari e imprescindibili dell'umano, accanto alla bisognosità più esplicitamente fisica e biologica, il bisogno dell'esser riconosciuti, pena l'assenza dell'accendersi della stessa vita psichica. 

Così come possono giungere a meditare su quella complicazione ed arricchimento psicoanalitici del concetto moderno di libertà, per cui libertà non è più solo la libertà liberale «di» (pensiero, religione ..) o la libertà comunista «da» (bisogni e necessità materiali), ma, oltre a queste, una libertà, postliberale e postcomunista, da intendersi come l’assenza, al più alto grado possibile, di quei divieti e di quelle censure, di quel terrorismo interiore che fa divieto al soggetto umano di comunicare con il suo più profondo e proprio Sé. 

Solo una cultura civile e politica che si rifondasse a muovere da tale nuovo materialismo, da tale nuova antropologia, sarebbe forse in grado, io credo, di proporre un economico, e con esso un paradigma di ricchezza, ulteriore a quello moderno e contemporaneo. Solo una cultura etica e filosofica che riconoscesse il grande debito accumulato dalle acquisizioni e dalle conquiste teoriche e cliniche maturate dalla psicoanalisi, nel corso ormai di un secolo, potrebbe, a mio avviso, proporre un'ideale di trasformazione all’altezza della drammaticità dei problemi contemporanei...

Ma questa è la speranza, di poter contrapporre a un vecchio e consunto paradigma di ricchezza, che sta diffondendo disperazioni, terrori e tremori, un nuovo paradigma di ricchezza e fecondità antropologica.

Se tutto ciò potrà mai avvenire, sottraendosi alla dimensione del mero sogno e del mero congetturare utopico, solo un Dio, cioè il tempo dell’ad/venire, ce lo potrà dire.

domenica 1 maggio 2016

MARX E LA RIVOLUZIONE DEL 1848 - Irene Viparelli*

*Viparelli Irene, « Crise et conjoncture révolutionnaire : Marx et 1848. », Actuel Marx2/2009 (n° 46) , p. 122-136
URL : 
www.cairn.info/revue-actuel-marx-2009-2-page-122.htm.
DOI : 10.3917/amx.046.0841.


1. Premessa

Che influenza ebbe la rivoluzione europea del 1848 sulla teoria marxiana? Quale fu il suo contributo specifico? In che misura fu un evento determinante? La strada maestra per addentrarsi nel cuore di questo problema sembra essere fornita dal temporaneo abbandono della militanza politica, compiuto da Marx agli inizi degli anni Cinquanta. Sicuramente il mutamento del contesto storico, la vittoria della controrivoluzione in tutta Europa, la repressione, l’esilio londinese furono tutti fattori che ebbero un’importanza decisiva. Vi fu però anche una motivazione squisitamente teorica, un radicale mutamento nella prospettiva strategica marxiana1.

«Nel caso di una battaglia contro un nemico comune non c’è bisogno di nessuna unione speciale. Appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti coincidono momentaneamente, e, com’è avvenuto sinora così per l’avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si ristabilirà spontaneamente»2.

L’imperativo dell’alleanza di tutte le forze democratiche, centrale nel Manifesto, sembra ormai, dopo la rivoluzione, avere ben poco di strategico; il vero compito dei comunisti rivoluzionari è piuttosto la lotta proprio contro queste alleanze ibridatrici che, lasciando evaporare le differenze di classe, dissolvono l’autonomia del proletariato e ne distruggono la coscienza e la forza rivoluzionaria.

« Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra»3.

Questo principio teorico fu la scoperta fondamentale e il grande contributo della rivoluzione del 1848 alla teoria marxiana: non solo fu il presupposto della nuova strategia anti-ideologica, che spinse Marx a criticare violentemente i progetti cospiratori dei democratici esiliati a Londra e provocò la scissione dell’ala Willich-Schapper nella ricostituita Lega dei comunisti, ma fu anche e soprattutto lo strumento di un’autocritica fondamentale. L’individuazione dell’intrinseco legame tra crisi e rivoluzione impose infatti una radicale problematizzazione della teoria marxiana, che dovette essa stessa liberarsi dai presupposti ancora ideologici, dagli ultimi residui di “filosofia della storia” che, alle soglie della rivoluzione, ancora inibivano la formulazione di una teoria rivoluzionaria organica e pienamente coerente. Marx non ha mai né rinnegato le tesi enunciate nel Manifesto né ha mai tematizzato una differente teoria politica; eppure le vicende del biennio rivoluzionario europeo, inintelligibili attraverso tale schema interpretativo, gli imposero necessariamente l’utilizzazione di altre categorie, non “filosofiche”, che superarono di fatto la semplicità dell’antico modello teorico lineare4: dopo il Quarantotto, infatti, la rivoluzione proletaria non poté più fondarsi semplicemente sull’ “astratta necessità” che accomuna ogni società umana, destinata a perire con l’emergere della contraddizione di forze produttive e rapporti di produzione, ma si dovette invece legare alla modalità peculiare con cui questa “legge generale" si realizza nel modo di produzione capitalistico, a quel movimento ciclico attraverso il quale si sviluppa la contraddizione di lavoro salariato e capitale.

Così, proprio a partire dai testi giornalistici scritti a tra il 1848 e il 1853 è possibile rintracciare preziose indicazioni per una teoria della rivoluzione ben più problematica, intimamente legata all’essenza del modo di produzione capitalistico, al suo essere “terra di mezzo” tra il regno della necessità e quello della libertà, tra la preistoria e la storia dell’umanità5.

venerdì 29 aprile 2016

Teoria critica della società? Critica dell’economia politica. Adorno, Backhaus, Marx* - Tommaso Redolfi Riva




Nella Dialettica negativa  (T. W. Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1970, p. 320.), l’excursus su Hegel ha per titolo Spirito del mondo e storia naturale. Quello che appare come un dualismo tra la progressiva umanizzazione del mondo – quindi realizzazione della libertà, storia – e la cieca necessità della natura, ben presto si dà a vedere come una prosecuzione della natura all’interno della storia, come una continuazione dell’eteronomia nella sfera della vita storica: “la storia umana, il progressivo dominio sulla natura, prosegue quella inconsapevole della natura”. Lo spirito del mondo, che nelle pagine hegeliane della filosofia della storia si mostrava come il progressivo processo di realizzazione della libertà, è letto da Adorno quale luogo dell’affermazione dell’universale a danno del particolare, momento di autonomizzazione di un processo complessivo di contro alle singole azioni che lo compongono. Più in particolare la critica alla logica hegeliana di universalità e particolarità si specifica nel richiamo adorniano alla legge dell’accumulazione capitalistica che si realizza per mezzo delle azioni individuali, e da esse si rende autonoma e oggettiva. 


Per Adorno, Hegel ha individuato questo processo sovraindividuale attraverso il concetto di spirito del mondo che per l’appunto “si disinteressa dei viventi, di cui […] ha bisogno, così come questi possono esistere solo grazie a quel tutto”, ma, invece di criticarlo nella determinatezza storica del modo di produzione capitalistico, lo ha elevato a “ipostasi filosofica, a processo universale di affermazione della libertà.
Per Adorno, la filosofia di Hegel diventa in prima istanza un grimaldello per la comprensione dell’imporsi di una struttura oggettiva, ma nello stesso tempo oggetto di critica, in quanto eternizzazione, ipostasi, di un processo storicamente determinato.

L’istanza critica che muove Adorno è di grande interesse: la società dominata dal modo di produzione capitalistico si costituisce attraverso una specifica struttura nella quale le singole azioni individuali si compongono in un’oggettività che domina gli stessi agenti sociali. Nel modo di produzione capitalistico si infrange la classica antitesi tra natura e storia. Una tale antitesi è vera e falsa insieme: è vera in quanto la legalità che si impone agli agenti sociali è un loro stesso costrutto e quindi è storica; è falsa in quanto questa legalità prodottasi storicamente agisce sugli agenti proprio come una legge della natura. Come afferma enfaticamente Adorno: “l’oggettività della vita storica è quella di una storia naturale".


L’intento delle pagine seguenti è quello di mostrare come il Marx teorico della forma di valore sia in grado di approfondire e portare a fondamento i concetti centrali della teoria critica di Adorno. Nei primi paragrafi (§§ 1-3) farò vedere che i temi essenziali della sociologia critica di Adorno, in particolare il tema dell’oggettività sociale e dell’autonomizzazione della società, trovano il proprio centro esplicativo nel concetto di scambio quale astrazione reale. Mostrerò poi che tale concetto rimane sostanzialmente indeterminato e privo di una precisa fondazione teorica nell’opera di Adorno. Nei paragrafi successivi (§§ 4-6) cercherò di mostrare che una fondazione dello scambio quale astrazione reale può essere guadagnata con l’analisi della forma di valore sviluppata dalla Neue Marx-Lektüre e in particolare da Hans-Georg Backhaus attraverso un’attenta lettura della critica dell’economia politica di Marx.


mercoledì 27 aprile 2016

Le classi nel mondo moderno III. Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento* - Alessandro Mazzone

*Da:    http://www.proteo.rdbcub.it/
Prima parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/le-classi-nel-mondo-moderno-alessandro.html                                                                                                                          Seconda parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-la.html 

Chi edificò Tebe dalle sette porte?                                                                      
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi    
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge. 


In questa terza e ultima parte cercherò di porre in luce - senza alcuna pretesa di completezza - alcuni problemi che si pongono a chi guarda all’attuale fase della mondializzazione e competizione capitalistica dal punto di vista dei lavoratori. 

martedì 26 aprile 2016

NEOLIBERISMO E POSTMODERNISMO: ALLEATI TRA LORO, MA NOSTRI NEMICI* - Alessandra Ciattini




Neoliberismo e postmodernismo sono due espressioni opposte e conflittuali del tardo capitalismo o presentano significative convergenze? Cerchiamo di indicare alcuni punti di contatto.



Si parla assai spesso e a ragione di “pensiero unico”, per sottolineare come la cultura mass-mediatica, in tutte le sue forme, comprese le sue rozze espressioni politiche, sia dominata da un'unica concezione del mondo, scaturita dalla cosiddetta fine delle ideologie, improntata ad un facile pragmatismo che incanta l'uomo pratico e concreto, e talvolta intrisa di un buonismo ipocrita auspice del rispetto dell'altro e pronto ad agitare la “cultura dell'accoglienza”.

Tale concezione del mondo si incarna nel neoliberismo, affermatosi negli ultimi decenni del Novecento a causa di un complesso di fattori, i quali hanno contribuito al consolidarsi di quello che Ernest Mandel definisce “tardo capitalismo” (Der Spätkapitalismus, Francoforte 1972). Naturalmente il richiamo al buonismo e alla “cultura dell'accoglienza” non sono elementi costitutivi del neoliberismo, che si presenta limpido nella sua spietatezza, ma che taluni amano rivestire di tali pietosi veli per non fa sobbalzare i ricettori del suo messaggio. 

L'emergere del neoliberalismo coincide con l'attacco condotto allo Stato sociale, e quindi con l'assalto ai diritti sociali dell'individuo che facevano di esso un membro della comunità, nel cui seno avrebbe dovuto trovare tutti quegli strumenti idonei a trasformarlo in un cittadino a tutti gli effetti. Con Margaret Thatcher abbiamo imparato che la società non esiste e che ognuno deve farsi carico individualmente del proprio “successo” sociale [1], anche nel caso in cui ciò significa il raggiungimento stento della mera sopravvivenza. 

Esso ha rappresentato l'abbandono del keynesismo postguerra e il ritorno al monetarismo, ma al tempo stesso in esso si è coagulata la reazione alle vittorie conseguite dai lavoratori sul piano sociale, dovute anche allo scenario internazionale, in cui il “capitalismo puro” aveva dovuto moderarsi per l'esistenza di un modello alternativo, pur con tutti i suoi problemi.

lunedì 25 aprile 2016

Dialoghi di profughi IX.* - Bertolt Brecht

*Da:   https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-ix-bertolt-brecht/10151291297043348?pnref=story
Cos'è "Dialoghi di Profughi":    http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/ 




LA SVIZZERA, FAMOSA PER L’AMORE DELLA LIBERTA’ E IL FORMAGGIO. – EDUCAZIONE ESEMPLARE IN GERMANIA. – GLI  AMERICANI.



ZIFFEL     La Svizzera è un paese famoso perché vi si può essere liberi. A patto però di essere turisti.

KALLE     Io ci sono stato e non mi ci sono sentito troppo libero.

ZIFFEL     Probabilmente non abitava in albergo. Bisogna stare in albergo. Da lì uno può andare dove vuole. Intorno alle più alte montagne, da cui si godono i panorami più belli, non ci sono steccati né niente. Si dice che in nessun posto ci si sente più liberi che in cima a una montagna.

KALLE     Ho sentito dire che gli stessi svizzeri non ci salgono mai, a meno che non siano guide, e allora non sono veramente liberi perché sono costretti a portare in giro i turisti.

ZIFFEL     Le guide hanno probabilmente meno sete di libertà degli altri svizzeri. Storicamente, la sete di libertà della Svizzera deriva dal fatto che il paese si trova in una posizione geografica sfavorevole. E’ circondato da potenze smaniose di conquiste. Di conseguenza gli svizzeri devono sempre stare sul chi vive. Se le cose stessero diversamente non avrebbero bisogno di sete di libertà. Non si è mai sentito parlare di sete di libertà presso gli esquimesi. La loro posizione geografica è più favorevole.

venerdì 22 aprile 2016

E. Bloch, K. Korsch, L. Althusser.* - Renato Caputo



Il marxismo di E. Bloch; dalla filosofia alla scienza: il marxismo di Korsch; marxismo e strutturalismo: L. Althusser; introduzione a La scuola di Francoforte

La Scuola di Francoforte: Horkheimer; T. W. Adorno; H. Marcuse, W. Benjamin.   https://www.youtube.com/watch?v=qwZXv27HISA&feature=share

La parabola della filosofia di G. Lukacs dalla coscienza di classe all'ontologia dell'essere sociale.   https://www.youtube.com/watch?v=QuKzkmVLD-c  

giovedì 21 aprile 2016

CRITICA DELLA RAGION SPURIA*- Riccardo Bellofiore





Nel capitalismo il lavoro è sfruttato. Questa è la base dell'analisi
marxiana e negarla è negare Marx. Una polemica con i critici della teoria del valore




La tesi che nell'economia capitalistica il lavoro salariato sia "sfruttato" costituisce il nodo centrale della teoria marxiana: talmente essenziale che abbandonarlo implica approdare alla costruzione di un marxismo senza Marx.

Chi propone un'affermazione del genere ha però l'obbligo di affrontare la sfida degli attacchi a quella teoria. Attacchi sempre più efficaci, tanto che difficilmente qualcuno osa richiamarvisi al giorno d'oggi. Le ragioni delle critiche più diffuse sono presto dette. Sul terreno dei principi, non terrebbe il fondamento su cui Marx costruisce la teoria del valore, ovvero la riconduzione di quest'ultimo a nient'altro che lavoro. Sul terreno dei fatti, si sarebbero esaurite le basi materiali del discorso marxiano.

Per un verso, assisteremmo ad una tendenziale "fine del lavoro", e non ad una sua sempre più pervasiva centralità. Per l'altro, sarebbe ormai scomparsa quella figura del lavoratore omogeneo perché dequalificato in cui si tradurrebbe empiricamente la nozione marxiana di "lavoro astratto".

Vale la pena di partire da una rilettura delle basi categoriali della critica dell'economia politica. Il ragionamento di Marx è il seguente. Nel processo capitalistico i lavoratori salariati riproducono il valore dei mezzi di produzione impiegati (trasferendo in avanti il lavoro morto storicamente ereditato dal passato) e aggiungono un neovalore. Quest'ultimo rappresenta sul mercato in forma monetaria il lavoro "vivo" speso nel periodo corrente e oggettivato nel reddito nazionale. Il valore di tutta la forza-lavoro occupata è dato dal lavoro contenuto nella "sussistenza" merceologicamente definita, il "lavoro necessario".

mercoledì 20 aprile 2016

La filosofia francese contemporanea - Francesco Valentini


"Questo volume si ripropone di esaminare le manifestazioni più importanti del pensiero francese postbergsoniano. Il periodo di maggiore rigoglio di questo pensiero è stato certamente l'immediato dopoguerra con le celebri discussioni intorno all'esistenzialismo e al marxismo, strettamente connesse con le idee della Resistenza e con le nuove condizioni politiche. Crediamo che con essa la Francia abbia avuto voce europea.

Il nostro esame avrà a suo centro tale ordine di problemi e ne seguirà l'evoluzione, un'evoluzione in ceto modo autocritica, perché condurrà alla riconquista di posizioni tradizionali: marxismo, hegelismo, cristianesimo cattolico. La sempre minor fortuna del termine"esistenzialismo" è un segno esteriore di questo processo. La ricostruzione del pensiero di Gabriel Marcel fatta dal Padre Troisfontaines e nella quale il Marcel ha riconosciuto l'opera che egli avrebbe dovuto scrivere è una felice sistemazione della sua filosofia nel quadro del cattolicesimo più ortodosso. Da parte sua Sartre si dichiara marxista, mentre Eric Weil riprende i temi classici dell'hegelismo. E' superfluo dire che tale ritorno su vecchie posizioni non svaluta affatto il cammino percorso per raggiungerle ancora una volta e che esse stesse ne escono in varia misura rinnovate.

Le nostre analisi verteranno dunque su questi problemi; e ciò naturalmente implicherà una preferenza per taluni autori e talune correnti, onde sarà facile lamentare delle "assenze". Questa avvertenza mirerebbe a giustificarle almeno in parte e, in ogni caso, a pregare il lettore di voler giudicare il libro più per quello che contiene che per quello che manca." 

(Francesco Valentini) 


lunedì 18 aprile 2016

Colonizzazione dell'immaginario e controllo sociale* - Renato Curcio

*Da:     http://www.rivistapaginauno.it/            http://www.sinistrainrete.info/
Vedi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/demenza-digitale.html



L’Impero virtuale, nonostante il titolo, non è un lavoro su internet; internet è solo lo sfondo, è un territorio che oggi fa parte dello spazio in cui viviamo e quindi in qualche modo, parlando di questo libro, lo attraverseremo. Non è neanche un sermone contro le tecnologie, che esistono fin da quando un uomo ha preso in mano una clava, ossia uno strumento, e che quindi accompagnano l’intera storia dell’umanità. Non si tratta dunque di essere né pro né contro, ma di mantenere vivo un pensiero critico – che in quest’epoca fa un po’ difetto – anche sugli strumenti, soprattutto quelli che non sono né secondari né trascurabili per il fatto che investono la nostra vita, sia lavorativa che relazionale. Intendo la nostra vita di specie, cioè una vita che è trasversale e ci mette sullo stesso piano di un cittadino cinese, spagnolo, del Sudafrica ecc. È una riflessione necessaria perché queste nuove tecnologie, a differenza di quelle precedenti della società industriale, si implementano a una velocità straordinaria, per cui abbiamo di fronte a noi un percorso di trasformazione sociale che va talmente veloce che la nostra capacità di coglierne il senso dello sviluppo, il significato e le implicazioni, come singoli cittadini e anche ricercatori e soprattutto come lavoratori che vivono in vario modo questi territori, è disorientata. Un disorientamento che assume due facce: quella dell’accettazione, spesso acritica, di queste tecnologie, come se fossero ormai una normalità; oppure un’accettazione molto dolorosa, perché chi deve fare i conti con un bracciale che monitorizza la sua vita lavorativa per ogni secondo di spazio e di tempo, ha certamente una relazione diversa con questi dispositivi rispetto a una persona che li utilizza in maniera acritica o superficiale.

In questo libro è importante il sottotitolo: Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale. La proposta di ragionamento è infatti sulle tecniche e sulle modalità di colonizzazione dell’immaginario, indubbiamente la materia prima più preziosa che esista sul pianeta, perché se perdiamo la capacità di immaginare in modo autonomo prospettive che ci facciano bene, è certo che può esserci chi è interessato a immaginare per noi delle prospettive che, al contrario, tanto bene non ci fanno.
Siamo abituati a pensare la colonizzazione per ciò che la storia ci consegna, una storia atroce di prepotenze e di atti di forza, di guerre, di tentativi di subordinazione di altri Paesi, ma cosa significava e cosa significa in termini di pensiero critico? Per prima cosa vuol dire immaginare un ordine diverso di un certo territorio, e poi imporlo ai propri fini. Per esempio, vedo una bella prateria, immagino di trasformarla in un allevamento intensivo di mucche, ed ecco che mi approprio con la forza di quel territorio e trasformo il suo ordine in un ordine produttivo per me, al di là della storia, della cultura, di tutto ciò che quel territorio costituisce storicamente e culturalmente. La storia del colonialismo è quindi la storia dell’imposizione a dei territori di un ordine immaginario a fini produttivi.

È una storia violenta, realizzata in nome di una ideologia e di grandi miti, per esempio in nome della superiorità dell’Occidente che va a portare la sua cultura in altri territori. L’Italia conosce molto bene la pochezza di questo ragionamento, dalla seconda metà dell’Ottocento a tutto il periodo fascista siamo andati in Africa a portare la cultura imperiale, colonizzazioni che si sono tradotte in uso di gas tossici, iprite, arsenico... Questo ha significato anche costruire grandi fabbriche, la Montecatini è nata sulla produzione di queste sostanze che nel 1922 erano già state messe fuori legge, ma che noi abbiamo usato negli anni ‘40 soprattutto, prima in tutto il Corno d’Africa e poi nel periodo tra il ‘42 e il ‘43 nell’area più a nord.

venerdì 15 aprile 2016

Capitalismo 2015 - Antonio Carlo

Leggi anche:   http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/8743-antonio-carlo-capitalismo-2016-l-anno-piu-nero-dal-2009.html



Seconda parte:    https://www.youtube.com/watch?v=xcAkTuxmXT8

A proposito di secoli (lunghi o brevi) di Grandi Depressioni e di crolli.

Qualche anno fa uno storico inglese di grande valore (Eric Hobsbawm) ha enunciato la teoria del XX secolo come secolo breve che sarebbe iniziato nel 1914 (prima guerra mondiale) per finire nel 1989 (caduta del muro di Berlino) solo con una durata di soli 75 anni. Sorprende che uno storico dell’economia come l’inglese, che dà un peso prevalente alla struttura economica come si conviene ad un marxista di valore, dia qui un peso preponderante a fattori politici o politicomilitari; a nostro avviso invece il XX secolo dura esattamente 100 anni: dal 1873 al 1973. Questo perché noi privilegiamo nell’analisi fattori strutturali: nel 1873 con la crisi di quell’anno e la prima Grande Depressione durata fino al 1896 si ha la trasformazione del capitalismo concorrenziale in capitalismo oligopolistico, ciò che caratterizzerà la storia del XX secolo. Nel 1973 con la grande crisi del petrolio emerge il dominio della grande impresa multinazionale che paralizza l’azione regolatrice dello Stato e determina una situazione del tutto nuova nell’economia mondiale con livelli di anarchia e di ingovernabilità senza precedenti anche per un sistema, come quello capitalistico, in cui rotture e crisi sono assai frequenti. Da allora ha inizio il XXI secolo, l’ultimo secolo nella storia del capitalismo (ultimo nel senso di definitivo) in cui l’anarchia e l’incontrollabilità dell’economia sono un fatto pressoché quotidiano, viviamo cioè, o meglio galleggiamo, in una situazione di crisi ed instabilità permanente. L’oligopolio un tempo nazionale, trasformatosi in Impresa Multinazionale diventa una mina vagante assolutamente incontrollabile.

Le IM paralizzano gli Stati, fanno esplodere la disoccupazione a livelli insopportabili, determinano un livello di evasione fiscale insostenibile, spingono gli Stati verso il default etc. Tutto questo si può definire una situazione di crollo del capitalismo. Ovviamente chi è abituato a considerare il crollo come qualcosa di repentino, come normalmente è per il crollo di un palazzo, non può assuefarsi a questa idea, ma in realtà per noi crollo significa una situazione di ingovernabilità continua e crescente in cui i problemi si pongono continuamente e non si risolvono mai, incancrenendo. Il crollo, dunque, comprende una fase storica che già si protrae da oltre 40 anni dalla crisi del 1973- 75 che ha evidenziato tutti i problemi che oggi sono sul tappeto e che sono andati crescendo decennio dopo decennio.

Quando potrà protrarsi nel tempo questo crollo continuo non è dato sapere, per quanto se è esatta l’analisi sinora prospettata, mi riesce difficile capire come questo sistema possa sopravvivere galleggiando anche solo oltre i prossimi 15 anni. Una cosa comunque mi sembra certa: nessuna società può sopravvivere se non risolve il problema del governo delle proprie contraddizioni, e oggi soluzioni alle contraddizioni prospettate non se ne vedono ed esse tendono giorno dopo giorno ad incancrenirsi. Le conclusioni sono facili da trarre, per chi non voglia fare lo struzzo.

Leggi tutto:   https://mrzodonato.files.wordpress.com/2016/01/acarlo_capitalismo-2015.pdf

giovedì 14 aprile 2016

Dialoghi di profughi VIII.* - Bertolt Brecht

*Da:   https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-viii-bertolt-brecht/10151263220568348?pnref=story



DEL CONCETTO DI BONTA’. – LE ATROCITA’ TEDESCHE. – IL PENSIERO DI CONFUCIO SUI PROLETARI. – SULLA SERIETA’. 




KALLE    La parola «buono» ha un brutto suono.

ZIFFEL    Gli americani per dire «buon uomo», usano il termine sucker, pronunciato «saggher», e possibilmente sputato fuori da un angolo della bocca. Vuol dire uno che è sempre fregato, un sempliciotto, la vittima ideale per un imbroglione affamato.

KALLE    Basta pensare a un «buon garzone panettiere», a braccetto con un «allegro operaio metallurgico»,, e allora ti casca la benda dagli occhi. I buoni, in larga scala, sono soltanto quelli che non fanno parte della cosiddetta gente perbene. Gli operai tessili ci vestono, i braccianti ci nutrono, i muratori e i metallurgici ci fanno le case, i birrai ci dissetano, i tipografi ci istruiscono, e tutti per un compenso notoriamente misero: un disinteresse simile non lo conosce nemmeno il Sermone della Montagna.

ZIFFEL    Chi dice che sono buoni? Per essere tali, dovrebbero essere soddisfatti del loro misero compenso e contenti di renderci la vita comoda. Ma non lo sono.

KALLE    Non faccia lo sciocco. Mi basta solo chiederle: gli consiglierebbe, in coscienza, di accontentarsi del misero salario che pigliano?

ZIFFEL    No.