*Da:
http://www.rivistapaginauno.it/ http://www.sinistrainrete.info/
Vedi anche:
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/demenza-digitale.html
L’Impero virtuale, nonostante il titolo, non è
un lavoro su internet; internet è solo lo sfondo, è un territorio che oggi fa
parte dello spazio in cui viviamo e quindi in qualche modo, parlando di questo
libro, lo attraverseremo. Non è neanche un sermone contro le tecnologie, che
esistono fin da quando un uomo ha preso in mano una clava, ossia uno strumento,
e che quindi accompagnano l’intera storia dell’umanità. Non si tratta dunque di
essere né pro né contro, ma di mantenere vivo un pensiero critico – che in
quest’epoca fa un po’ difetto – anche sugli strumenti, soprattutto quelli che
non sono né secondari né trascurabili per il fatto che investono la nostra
vita, sia lavorativa che relazionale. Intendo la nostra vita di specie, cioè
una vita che è trasversale e ci mette sullo stesso piano di un cittadino
cinese, spagnolo, del Sudafrica ecc. È una riflessione necessaria perché queste
nuove tecnologie, a differenza di quelle precedenti della società industriale,
si implementano a una velocità straordinaria, per cui abbiamo di fronte a noi
un percorso di trasformazione sociale che va talmente veloce che la nostra
capacità di coglierne il senso dello sviluppo, il significato e le
implicazioni, come singoli cittadini e anche ricercatori e soprattutto come
lavoratori che vivono in vario modo questi territori, è disorientata. Un
disorientamento che assume due facce: quella dell’accettazione, spesso
acritica, di queste tecnologie, come se fossero ormai una normalità; oppure
un’accettazione molto dolorosa, perché chi deve fare i conti con un bracciale
che monitorizza la sua vita lavorativa per ogni secondo di spazio e di tempo,
ha certamente una relazione diversa con questi dispositivi rispetto a una
persona che li utilizza in maniera acritica o superficiale.
In questo libro è importante il sottotitolo: Colonizzazione
dell’immaginario e controllo sociale. La proposta di ragionamento è infatti
sulle tecniche e sulle modalità di colonizzazione dell’immaginario,
indubbiamente la materia prima più preziosa che esista sul pianeta, perché se
perdiamo la capacità di immaginare in modo autonomo prospettive che ci facciano
bene, è certo che può esserci chi è interessato a immaginare per noi delle
prospettive che, al contrario, tanto bene non ci fanno.
Siamo abituati a pensare la colonizzazione per ciò che la
storia ci consegna, una storia atroce di prepotenze e di atti di forza, di
guerre, di tentativi di subordinazione di altri Paesi, ma cosa significava e
cosa significa in termini di pensiero critico? Per prima cosa vuol dire
immaginare un ordine diverso di un certo territorio, e poi imporlo ai propri
fini. Per esempio, vedo una bella prateria, immagino di trasformarla in un
allevamento intensivo di mucche, ed ecco che mi approprio con la forza di quel
territorio e trasformo il suo ordine in un ordine produttivo per me, al di là
della storia, della cultura, di tutto ciò che quel territorio costituisce
storicamente e culturalmente. La storia del colonialismo è quindi la storia
dell’imposizione a dei territori di un ordine immaginario a fini produttivi.
È una storia violenta, realizzata in nome di una ideologia e
di grandi miti, per esempio in nome della superiorità dell’Occidente che va a
portare la sua cultura in altri territori. L’Italia conosce molto bene la
pochezza di questo ragionamento, dalla seconda metà dell’Ottocento a tutto il
periodo fascista siamo andati in Africa a portare la cultura imperiale,
colonizzazioni che si sono tradotte in uso di gas tossici, iprite, arsenico...
Questo ha significato anche costruire grandi fabbriche, la Montecatini è nata
sulla produzione di queste sostanze che nel 1922 erano già state messe fuori
legge, ma che noi abbiamo usato negli anni ‘40 soprattutto, prima in tutto il
Corno d’Africa e poi nel periodo tra il ‘42 e il ‘43 nell’area più a nord.