Gulag,
lager
e imperialismo
Un
lungo processo di lotta ideologica, ben condotta da parte del
capitale, volto a identificare nazismo e comunismo ha fatto sì che
quando si parli di campi di concentramento, si faccia immediato
riferimento a due realtà storiche: lager
(per lo più nell’accezione ristretta di campo di sterminio sul
modello di Auschwitz, Sobibór, Treblinka, ecc.) e gulag
(Glavnoe upravlenie
lagerei, Direzione
generale dei campi). Un paese che invece, impropriamente, non è mai
associato all’“universo concentrazionario” sono gli Usa.
Gulag
e lager
vengono sempre uniti all’interno dell’indefinita categoria di
“totalitarismo” [cfr. la
Contraddizione, no.
112] volta ad assimilare due sistemi sociali ed economici antitetici,
a nascondere come le matrici del nazismo facciano parte della
“tradizione occidentale” (razzismo, eugenetica, guerra totale,
sterminio seriale, colonialismo) e a tentare di occultare come i
fascismi, insieme alle “democrazie occidentali”, si inseriscano a
pieno titolo nel sistema economico e politico imperialistico. Al di
là di questo fraintendimento creato ad arte, anche nel caso
specifico dei campi di concentramento vi sono radicali differenze che
dovrebbero essere note: i lager
sono suddivisibili sostanzialmente in tre principali categorie:
Konzentrationslager
(campi di concentramento), Arbeitslager
(campi di lavoro forzato), Vernichtungslager
(campi di sterminio), tre realtà differenti che nel caso esemplare
di Auschwitz venivano a coincidere; nel gulag l’eliminazione
del prigioniero non è l’obiettivo ultimo, il gulag è uno
strumento, un mezzo per imprigionare i cosiddetti “nemici del
popolo”, e non gli è costitutivamente estraneo il problema della
“rieducazione” del condannato (impossibile nel momento in cui il
discrimine sia costituito dall’immodificabile elemento razziale),
mentre nel caso nazista l’eliminazione delle razze inferiori e dei
comunisti è un fine; la pena nel gulag ha una durata temporalmente
definita; nelle tipologie dei gulag non è presente il campo di
sterminio e la mortalità è molto più bassa, mediamente meno del
10% (il 4,8% prima dell’assassinio di Kirov nel 1934 che porta a
intensificare la lotta di Stalin contro i suoi avversari), mentre
l’eccezione è costituita dal periodo 1941-43 quando le condizioni
determinate dalla guerra rendono più alto il numero dei morti e si
può arrivare nel 1942 a una percentuale del 25%; i tassi di
mortalità nei lager tedeschi superano il 40-50% e ancor più
significativo un confronto con un campo di sterminio come Auschwitz:
ebrei sopravvissuti 5,6%, zingari 6,5%, sovietici 0,8%.
Dopo
l’apertura degli archivi sovietici, tutte le più recenti ricerche,
peraltro condotte da storici non accusabili di simpatie comuniste,
hanno ridotto drasticamente il numero delle vittime del periodo
staliniano. Richard Overy stima che fra il 1930 e il 1953 fra
esecuzioni e morti nei campi si arrivi come cifra massima a 2.700.000
vittime. Nel 1993 la prestigiosa American
historical review
pubblica una ricerca di Arch Getty, Gábor. T. Rettersporn e Viktor
N. Zemskov, relativa esclusivamente alla contabilità dei campi e
giunge a una cifra di morti che supera di poco il milione nel periodo
1934-53. Ludo Martens, autore di un’opera simpatetica con Stalin,
fra collettivizzazione delle campagne e repressione in ogni sua forma
arriva a 1.300.000. È poi importante capire la realtà di un paese
circondato a lungo da potenze ostili che cercano in ogni modo di
rovesciarlo, dalle invasioni a partire dal 1918 a sostegno delle
armate bianche ai tentativi di accordo delle “democrazie
occidentali” coi nazisti per spingere Hitler contro il “comune
nemico” e all’interno caratterizzato da fenomeni di “guerra
civile” che si reinfiamma regolarmente. In un arco di tempo simile
pressoché sovrapponibile agli anni di governo di Stalin (1924-1953)
il capitale ha mietuto oltre 80 milioni di vittime con le due guerre
interimperialistiche, per non parlare degli stermini coloniali.
Mentre solo nei lager
nazifascisti fra il 1933 e il 1945 si contano 11 milioni di vittime.