Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/platone-la-repubblica-luciano-canfora.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/filosofi-al-potere-mario-vegetti.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/platone-antonio-gargano-1-2-di-2.html
http://177ermanno.blogspot.it/2014/02/blog-post.html?spref=fb
Il testo: http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/PlatoneRepubblica.pdf
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
domenica 19 febbraio 2017
sabato 18 febbraio 2017
Sulla Costituzione - Luciano Canfora
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/legge-elettorale-costituzione.html
https://www.marxists.org/italiano/archive/storico/cost-urss.htm
("Chi non lavora non mangia")
Al fine di distruggere gli elementi parassitàri della società e di organizzare l'economia nazionale, viene istituito per tutti il servizio obbligatorio del lavoro.
[ I° Costituzione sovietica (1918) ]
https://www.marxists.org/italiano/archive/storico/cost-urss.htm
("Chi non lavora non mangia")
Al fine di distruggere gli elementi parassitàri della società e di organizzare l'economia nazionale, viene istituito per tutti il servizio obbligatorio del lavoro.
[ I° Costituzione sovietica (1918) ]
venerdì 17 febbraio 2017
La scienza e la tecnologia secondo Fidel Castro*- Massimo Zucchetti
*Da: http://www.marx21.it/
La scomparsa del Comandante Fidel Castro Ruz, avvenuta in questi giorni, mi ha portato a scrivere un breve ricordo di quelli che sono stati – avendoli verificati di persona - il suo pensiero sulla Scienza e la Tecnologia, la sua influenza sullo sviluppo di queste discipline a Cuba e nel mondo, e di come questo suo pensiero abbia contributo a conservare a Cuba la sua indipendenza.
Partiamo dalla mia esperienza personale, e non certo per mettere me stesso in mostra, ma per cercare di far capire a quale titolo vengano scritte queste righe: in questi giorni abbondano infatti sedicenti neo-esperti di Cuba, che nell’isola caraibica non hanno mai messo piede, se non al massimo per una settimana all-inclusive in un albergo a Varadero. Ho partecipato – dagli anni 90 fino all’anno scorso - a molte Conferenze internazionali a Cuba, in particolare relative a materie vicine alla mia disciplina, cioè la fisica nucleare e lo studio dell’ambiente. Nella serie di convegni internazionali WONP (Workshop On Nuclear Physics) e NURT (Nuclear and Related Techniques) ho potuto presentare molti miei lavori scientifici, trovando sempre ottima accoglienza, pubblico ampio, colleghi interessati con i quali ho anche intessuto rapporti di collaborazione.
Un solo esempio per tutti: nel 2001 presentai un lavoro scientifico sull’impatto ambientale e sulla salute dell’utilizzo militare dell’Uranio Impoverito [1], uno dei primi lavori presentati a livello internazionale da un italiano dopo la guerra contro la Jugoslavia nel 1999. Attenzione alla data: nel 2001 era molto difficile parlare scientificamente di quel problema, dato che nel democratico occidente vigeva una vulgata de facto che relegava l’allarme sull’uso di quel materiale radioattivo ad una protesta complottista. Ora, nel 2016, sappiamo che la NATO fece un uso criminale di quegli ordigni nei Balcani (come prima in Iraq e poi in altre guerre), mentre il governo “di sinistra” italiano, prima partecipò con le proprie basi ai bombardamenti, e poi inviò i soldati italiani in Kosovo, senza alcuna protezione contro l’inquinamento da polveri radioattive e composti chimici cancerogeni: l’odissea delle malattie e delle morti dei nostri militari si protrae tuttora. A Cuba, così come quando parlai di fusione termonucleare controllata a deuterio-elio-3, di monitoraggio e previsione dei sismi mediante il gas radon, ed altri argomenti scientifici di avanguardia, trovai spazio, accoglienza, attenzione, critica costruttiva, e dignità scientifica.
La scomparsa del Comandante Fidel Castro Ruz, avvenuta in questi giorni, mi ha portato a scrivere un breve ricordo di quelli che sono stati – avendoli verificati di persona - il suo pensiero sulla Scienza e la Tecnologia, la sua influenza sullo sviluppo di queste discipline a Cuba e nel mondo, e di come questo suo pensiero abbia contributo a conservare a Cuba la sua indipendenza.
Partiamo dalla mia esperienza personale, e non certo per mettere me stesso in mostra, ma per cercare di far capire a quale titolo vengano scritte queste righe: in questi giorni abbondano infatti sedicenti neo-esperti di Cuba, che nell’isola caraibica non hanno mai messo piede, se non al massimo per una settimana all-inclusive in un albergo a Varadero. Ho partecipato – dagli anni 90 fino all’anno scorso - a molte Conferenze internazionali a Cuba, in particolare relative a materie vicine alla mia disciplina, cioè la fisica nucleare e lo studio dell’ambiente. Nella serie di convegni internazionali WONP (Workshop On Nuclear Physics) e NURT (Nuclear and Related Techniques) ho potuto presentare molti miei lavori scientifici, trovando sempre ottima accoglienza, pubblico ampio, colleghi interessati con i quali ho anche intessuto rapporti di collaborazione.
Un solo esempio per tutti: nel 2001 presentai un lavoro scientifico sull’impatto ambientale e sulla salute dell’utilizzo militare dell’Uranio Impoverito [1], uno dei primi lavori presentati a livello internazionale da un italiano dopo la guerra contro la Jugoslavia nel 1999. Attenzione alla data: nel 2001 era molto difficile parlare scientificamente di quel problema, dato che nel democratico occidente vigeva una vulgata de facto che relegava l’allarme sull’uso di quel materiale radioattivo ad una protesta complottista. Ora, nel 2016, sappiamo che la NATO fece un uso criminale di quegli ordigni nei Balcani (come prima in Iraq e poi in altre guerre), mentre il governo “di sinistra” italiano, prima partecipò con le proprie basi ai bombardamenti, e poi inviò i soldati italiani in Kosovo, senza alcuna protezione contro l’inquinamento da polveri radioattive e composti chimici cancerogeni: l’odissea delle malattie e delle morti dei nostri militari si protrae tuttora. A Cuba, così come quando parlai di fusione termonucleare controllata a deuterio-elio-3, di monitoraggio e previsione dei sismi mediante il gas radon, ed altri argomenti scientifici di avanguardia, trovai spazio, accoglienza, attenzione, critica costruttiva, e dignità scientifica.
giovedì 16 febbraio 2017
martedì 14 febbraio 2017
lunedì 13 febbraio 2017
La via maestra*- Antonio Gramsci
*(editoriale
del num. 1 del quotidiano «L’Unità» 12 febbraio 1924). Da:
http://www.senzatregua.it/
La tragica esperienza compiuta dagli operai e dai contadini d’Italia in questi ultimi anni non deve essere perduta, essa può costituire anzi la taglia che essi hanno pagato e pagano per raggiungere la capacità politica necessaria a portare a termine lo sviluppo della loro rivoluzione. Il martirio subito può passare all’attivo della classe proletaria, se rimarrà a debellare definitivamente le illusioni che le hanno fatto segnare il passo negli anni 1919-1920. Occorre per ciò impedire che il fascismo, come già la guerra mondiale, passi senza aver trasformato radicalmente lo spirito delle masse, occorre che sotto l’assillo delle sofferenze e per l’anelito alla riscossa, non siano realizzate formule, stati d’animo e pregiudizi atti a sabotare ogni possibilità di ripresa proletaria, a precludere ogni seria prospettiva di rivincita.
Il
nostro giornale si propone a tale scopo di sondare metodicamente le
cause che hanno piegato i lavoratori sotto il peso di una gravissima
sconfitta e di farne pesare gli insegnamenti nella loro coscienza
militante. L’unità a cui noi facciamo appello non è quindi un
richiamo di ordine sentimentale e decorativo; non è il fiotto
fangoso e torbido dei consensi stagnanti e senza sbocco; essa tende a
forgiare lo strumento idoneo per la lotta del proletariato, ed ha
alla sua base una concezione politica ben definita e coerente, che vi
circola come sangue vivo, che la genera e la rinsalda.
domenica 12 febbraio 2017
sabato 11 febbraio 2017
«Sono utili le prove Invalsi?» - Giorgio Israel*
*Giorgio
Israel (Roma, 6
marzo 1945 – Roma, 25
settembre 2015)
è stato uno storico
della scienza ed epistemologo italiano.
Membro
della Académie
Internationale d'Histoire des Sciences e
professore dell'Università di Roma La
Sapienza,
è stato autore di più di 200 articoli
scientifici e
30 volumi, nei quali ha esplorato il ruolo della scienza nella
storia della cultura europea e ha condotto una critica dell'idea di
razionalità matematica e del meccanicismo.
venerdì 10 febbraio 2017
Il comunismo nella storia cinese: riflessioni su passato e futuro della Repubblica popolare cinese*- Maurice Meisner**
*Da: http://digitalcommons.macalester.edu/macintl/vol18/iss1/8 https://traduzionimarxiste.wordpress.com/
**Meisner, Maurice (1931-2012), storico della Cina contemporanea. “The Place of Communism in Chinese History: Reflections on the Past and Future of the People’s Republic of China,” Macalester International: Vol. 18, Article 8. (2007)
[…]
Questo non è il luogo adatto per discutere seriamente gli sviluppi
del capitalismo seguiti rapidamente alle riforme degli anni ottanta,
probabilmente il più massiccio processo di sviluppo capitalistico
della storia mondiale. Vorrei occuparmi esclusivamente di alcuni
aspetti strettamente correlati di tale esito: innanzitutto, il ruolo
dello stato nello sviluppo del capitalismo; secondo, il fenomeno del
“capitalismo burocratico” nella storia cinese; infine, alcuni
brevi commenti circa le conseguenze politiche e culturali del
capitalismo cinese contemporaneo, in particolare riguardo al posto
del comunismo nella storia cinese.
III.
Capitalismo e stato
Una
delle grandi ironie della storia moderna cinese è il fatto che la
dinamica capitalistica che ha trasformato la Cina nell’ultimo
quarto di secolo è il risultato di decisioni prese da un partito e
da un potente stato comunisti. Per quanto incongruo in termini di
classica ideologia liberale, nella fattualità storica un ruolo
cruciale dello stato nello sviluppo del capitalismo non è inusuale.
Lo stato bismarkiano, ad esempio, diede gran parte dell’impeto e
dell’orientamento per lo sviluppo del moderno capitalismo
industriale nella Germania del tardo XIX secolo, mentre
l’industrializzazione promossa dallo stato rappresentò la forza
dominante nella storia del Giappone nell’epoca Meiji (1868-1912).
Nelle cosiddette “nazioni di recente industrializzazione” del
secondo dopoguerra, la modernizzazione patrocinata dallo stato
costituì un fatto universale. Corea del sud, Taiwan e Singapore sono
alcuni degli esempi di maggior successo.
Di
fatto, non è solo nel caso della tarda modernizzazione (o di quella
che Barrington Moore ha definito “modernizzazione conservatrice”)
che si è assistito al coinvolgimento dello stato nella promozione
dello sviluppo capitalistico. Il potere statale ha giocato un ruolo
essenziale nel precedente sviluppo del capitalismo nei paesi
occidentali, ruolo oscurato dalla necessità ideologica di dipingerlo
come espressione naturale di una presunta natura umana essenziale.
Una necessità che ha trovato esternazione nell’ideologia del
“libero mercato”, secondo la quale il capitalismo opera meglio
laddove libero da qualsiasi ingerenza governativa esterna. Eppure,
anche in Inghilterra, la classica patria del capitalismo e
dell’ideologia liberale, fu l’intervento dello stato a creare il
mercato del lavoro, precondizione allo sviluppo di un moderno
capitalismo industriale. Le enclosure, che promossero il capitalismo
rurale espellendo dalla terra milioni di contadini trasformandoli in
proletari urbani, nono furono semplicemente frutto di leggi naturali
dell’economia, bensì di provvedimenti del parlamento applicati da
tribunali e polizia. E fu la riforma della Poor Law del 1834 a porre
fine ai tradizionali diritti di sussistenza in favore di un mercato
del lavoro “libero”, la funzione del quale venne rafforzata dalla
minaccia della Workhouse. Lo stato britannico era pesantemente
coinvolto nella creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo
del moderno capitalismo industriale nella sua patria nonché classica
incarnazione (11).
giovedì 9 febbraio 2017
La Rivoluzione contro il Capitale*- Antonio Gramsci
*Pubblicato
sull'Avanti il
24 novembre 1917 e su Il Grido del Popolo il 5 gennaio 1918 https://www.marxists.org/
La rivoluzione dei bolscevichi
si è definitivamente innestata nella rivoluzione generale del popolo
russo. I massimalisti che erano stati fino a due mesi fa il fermento
necessario perché gli avvenimenti non stagnassero, perché la corsa
verso il futuro non si fermasse, dando luogo ad una forma definitiva
di assestamento - che sarebbe stato un assestamento borghese, - si
sono impadroniti del potere, hanno stabilito la loro dittatura, e
stanno elaborando le forme socialiste su cui la rivoluzione dovrà
finalmente adagiarsi per continuare a svilupparsi armonicamente,
senza troppi grandi urti, partendo dalle grandi conquiste già
realizzate.
La rivoluzione dei bolscevichi
è materiata di ideologie più che di fatti. (perciò, in fondo, poco
ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione
contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia,
il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostarzione
critica della fatale necessità che in Russia si formasse una
borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una
civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse
neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe,
alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti
hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia
della Russia avebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del
materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano
con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste
realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così
feroci come si potrebbe pensare e come si è pensato.
Eppure c'è una fatalità
anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune
affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente
vivificatore. Essi non sono "marxisti", ecco tutto; non
hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di
affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista,
quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero
idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone
sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti,
ma l'uomo, ma la società degli uomini, degli uomini che si accostano
fra di loro, si intendono fra loro, sviluppano attraverso questi
contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i
fatti economici e li giudicano e li adeguano alla loro volontà,
finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della
realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di
materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove
alla volontà piace.
mercoledì 8 febbraio 2017
Sulla NEP e sul capitalismo di Stato* - Lenin
*da: Lenin, Opere
Complete, vol. 33, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 385-397.
Relazione al IV congresso dell'Internazionale comunista, 13 novembre 1922. Pravda n. 258, 15 novembre 1922.
https://archive.org/stream/LeninOpereComplete/Lenin_Collected%20works_4th%20edition_Vol_33_Italian#page/n375/mode/2up
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste_28.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste_28.html
Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale
Compagni! Sono
iscritto nell'elenco degli oratori come relatore principale, ma voi
comprenderete che dopo la mia lunga malattia non posso fare un grande
rapporto. Non posso che limitarmi a un'introduzióne alle questioni
più importanti. Il mio tema sarà molto limitato. Il tema: Cinque
anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale
è troppo vasto e grandioso perché, in generale, un solo oratore, in
un solo discorso, possa esaurirlo. Perciò mi limiterò a trattare
soltanto una piccola parte di questo tema, cioè la questione della
«nuova politica economica». Scelgo di proposito soltanto questa
piccola parte del tema per informarvi su di un problema che oggi ha
la massima importanza, almeno per me che ci lavoro attorno in questo
momento.
Vi dirò perciò
come abbiamo dato inizio alla nuova politica economica e quali
risultati abbiamo ottenuto per mezzo di questa politica. Se mi limito
a questo problema, riuscirò forse a farne un esame generale e a
darne un'idea generale.
Per incominciare dal
modo come siamo giunti alla nuova politica economica, devo
richiamarmi a un articolo che io scrissi nel 1918 (101). Al princìpio
del 1918, in una breve polemica, sfiorai, per l'appunto, la questione
dell'atteggiamento che dovevamo assumere verso il capitalismo di
Stato. Scrivevo allora:
«II capitalismo di
Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale
delle cose (cioè, relativamente alla situazione di allora) nella
nostra Repubblica sovietica. Se, per esempio, tra sei mesi si
instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme
successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia che tra un anno
il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso
invincibile».
Dicevo questo,
s'intende, in un periodo nel quale eravamo più inesperti di adesso,
ma non tanto inesperti da non poter esaminare simili questioni.
Cosicché, nel 1918,
sostenevo l'opinione che, relativamente alla situazione economica
allora esistente nella Repubblica sovietica, il capitalismo di Stato
rappresentava un passo avanti. Ciò sembra molto strano, e forse
perfino assurdo, poiché anche allora la nostra repubblica era già
una repubblica socialista, poiché allora noi prendevamo ogni giorno
con grande fretta - probabilmente con fretta esagerata - diverse
nuove misure economiche che non possono essere chiamate altrimenti
che socialiste. E ciò nondimeno io presumevo allora che il
capitalismo di Stato, rispetto alla situazione economica allora
esistente nella Repubblica sovietica, fosse un passo avanti, e
spiegavo poi questa idea elencando semplicemente gli elementi
fondamentali della struttura economica della Russia. Secondo me,
questi elementi erano i seguenti: «1. la forma patriarcale, ossia la
più primitiva dell'economia agricola; 2. la piccola produzione
mercantile (questa forma comprende anche la maggioranza dei contadini
che vendono il grano); 3. il capitalismo privato; 4. il capitalismo
di Stato; e 5. il socialismo». Tutti questi elementi economici erano
rappresentati nella Russia di quel tempo. Mi proposi allora di
mettere in chiaro quali rapporti reciproci esistessero tra questi
elementi e se non si dovesse attribuire a uno degli elementi non
socialisti, cioè al capitalismo di Stato, un valore più alto del
socialismo. Ripeto: sembra a tutti molto strano che un elemento non
socialista sia stimato a un livello più alto, sia ritenuto più
elevato del socialismo in una repubblica che si proclama socialista.
Ma la cosa sarà chiara se ricorderete che non consideravamo la
struttura economica della Russia come un qualche cosa di omogeneo e
di altamente sviluppato, e che eravamo pienamente consci di avere in
Russia un'agricoltura patriarcale, vale a dire la forma più
primitiva di agricoltura, accanto alla forma socialista. Quale
funzione, dunque, avrebbe potuto esercitare il capitalismo di Stato
in una tale situazione?
Io mi domandavo
inoltre: quale di questi elementi predomina? È chiaro che in un
ambiente piccolo-borghese domina l'elemento piccolo-borghese. Io mi
rendevo conto, allora, che l'elemento piccolo-borghese predominava;
non era possibile pensare altrimenti. Il problema che mi prospettavo
allora - si trattava di una polemica speciale che non riguardava la
questione attuale - era il seguente: qual'è il nostro atteggiamente
verso il capitalismo di Stato? E rispondevo: il capitalismo di Stato,
pur non essendo una forma socialista, sarebbe per noi e per la Russia
una forma preferibile a quella attuale. Che cosa vuoi dire questo?
Vuol dire che non sopravvalutavamo né i germi né gli inizi
dell'economia socialista, quantunque avessimo già compiuto la
rivoluzione sociale; al contrario, già allora, comprendevamo, fino a
un certo punto, che sarebbe stato meglio se dapprima fossimo
pervenuti al capitalismo di Stato e soltanto dopo al socialismo.
martedì 7 febbraio 2017
Salario, concorrenza e mercato mondiale*- Maurizio Donato**
*Da: https://mrzodonato.wordpress.com/
** Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo, aprile 2015.
“Nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore. Dunque, la loro forma autonoma di valore si presenta qui, di fronte ad esse, ovviamente come denaro mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto”. Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, terzo capitolo, pagg. 171-2 dell’edizione Einaudi, 1978.
Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.
Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.
Da questa prospettiva l’elemento del mercato mondiale è presente – come concetto – da subito nel modello marxiano che già nel terzo capitolo del I libro, dedicato al denaro come forma di valore delle merci, intitola un paragrafo “denaro mondiale”. Ma in che senso era da intendersi allora e oggi l’espressione “mercato mondiale”?
Se è senz’altro corretto assumere la categoria di “mercato mondiale” a un livello di astrazione alto, non si possono ignorare o sottovalutare le profonde differenze, le vere e proprie stratificazioni di cui il mercato mondiale è stato ed è ancora composto a partire dalle condizioni generali della produzione e dunque anche – necessariamente – in riferimento al salario. Senza cercare di ripercorrere la storia dei differenziali salariali mondiali, va almeno tenuto presente che attorno alla metà degli anni ’90 i lavoratori specializzati dei paesi più ricchi del mondo guadagnavano in media sessanta volte di più dei lavoratori appartenenti al gruppo più povero, i braccianti dell’Africa subsahariana.
** Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo, aprile 2015.
“Nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore. Dunque, la loro forma autonoma di valore si presenta qui, di fronte ad esse, ovviamente come denaro mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto”. Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, terzo capitolo, pagg. 171-2 dell’edizione Einaudi, 1978.
Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.
Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.
Da questa prospettiva l’elemento del mercato mondiale è presente – come concetto – da subito nel modello marxiano che già nel terzo capitolo del I libro, dedicato al denaro come forma di valore delle merci, intitola un paragrafo “denaro mondiale”. Ma in che senso era da intendersi allora e oggi l’espressione “mercato mondiale”?
Se è senz’altro corretto assumere la categoria di “mercato mondiale” a un livello di astrazione alto, non si possono ignorare o sottovalutare le profonde differenze, le vere e proprie stratificazioni di cui il mercato mondiale è stato ed è ancora composto a partire dalle condizioni generali della produzione e dunque anche – necessariamente – in riferimento al salario. Senza cercare di ripercorrere la storia dei differenziali salariali mondiali, va almeno tenuto presente che attorno alla metà degli anni ’90 i lavoratori specializzati dei paesi più ricchi del mondo guadagnavano in media sessanta volte di più dei lavoratori appartenenti al gruppo più povero, i braccianti dell’Africa subsahariana.
domenica 5 febbraio 2017
Cos’è l’intelligenza numerica nell’uomo? Daniela Lucangeli*
*Daniela Lucangeli, una laurea in Filosofia Logica e una laurea in Psicologia e un PhD in Developmental Science conseguito presso l’università di Leiden (Olanda), si occupa da sempre dei processi maturazionali nello sviluppo e nell’ apprendimento.
sabato 4 febbraio 2017
Convergenza, democrazia, sovranità. La transizione europea e il ruolo della politica. - S.Fabbrini, S.Biasco, V.Giacché, P.Guerrieri.
Organizzato da Treccani e la rivista Pandora.
venerdì 3 febbraio 2017
La guerra dei ricchi è cominciata*- Bruno Amoroso** (8/02/2016)
** Bruno Amoroso (Roma, 11 dicembre 1936 – Copenaghen, 20
gennaio 2017) è stato un economista e saggista italiano naturalizzato danese.docente
all’università di Roskilde in Danimarca
E come scriveva Sartre: “Siamo tutti complici e vittime”. La tragedia già descritta nel passato è di tale ampiezza che “in un mondo in cui tutti fuggono a gambe levate in tutte le direzioni, anche chi cammina composto nella direzione opposta sembra che fugga”.
“Hai viaggiato attraverso i deserti e con il rischio di affogare, hai attraversato il Mediterraneo con imbarcazioni insicure, e non sei arrivato da nessuna parte: hai camminato in circolo e sei sempre arrivato nello stesso accampamento da cui sei scappato. La tenda è il tuo destino. Il tuo futuro è fuggire. Sei condannato a vita a emigrare da tenda a tenda, un condannato a vita senza fissa dimora. Renditene conto!”. (Carsten Jensen)
Redditi e rapine
La crisi politica dell’Europa – che ha raggiunto il suo
apice, per ora, con il problema dei profughi
in fuga dalla guerra e dalla fame, e della lotta al “terrorismo” –
è un dramma da tempo annunciato,
così come lo è la reazione dei popoli e dell’establishment politico, economico e militare. Il filosofo di Treviri lo aveva previsto:
non saranno le teorie o le ideologie a indirizzare le aspirazioni dei popoli, ma
il peggioramento delle loro condizioni di vita e di sicurezza. L’establishment
lo sa ed è per questo che ha rinunciato a contrastare i movimenti per la pace,
le richieste di co-sviluppo tra nord e sud, i programmi di giustizia sociale ed
equità giuridica. Per cambiare la
testa degli individui è sufficiente togliergli il tappeto sotto i piedi. Facendosi
promotore della “pace” e della “democrazia” negli altri paesi, porgendo la mano
alla protesta contro i governi e le ineguaglianze da essa stessa promosse, la
Triade ha fomentato le rivolte e le guerre civili nei paesi arabi e africani
con l’aiuto dei propri regimi fantoccio e del “terrorismo”.
Ha costruito il suo alibi con anni di campagne sulla
necessità dei tagli e dei risparmi nei paesi europei, che hanno trasformato
l’immagine di quella gioiosa macchina di pace che fu lo Stato del Benessere in una banda di spendaccioni a spese del
mercato e del capitalismo. È stato così che nei paesi europei si è
scatenato il clamore sulla generosità sconsiderata dello Stato a spese delle
imprese e dei capitali, ed è iniziata la caccia predatoria a spese dei pensionati, dei malati e dei più deboli. Anche nella felice Danimarca ci si è messi a
contare il numero delle merende dei bambini e dei minuti di assistenza ai
vecchi e malati, l’”agenzia delle entrate” si è impegnata nella
caccia all’evasione e al lavoro nero dei piccoli commercianti e dei disoccupati
dimenticando i grandi evasori.
Questo all’indomani di una “crisi” finanziaria che ha
rapinato i risparmi dei lavoratori. Alla crescente disaffezione per questo Stato delle cose si è fatto fronte
con la difesa dei “valori”
nazionali e della “democazia” rafforzando la presenza del paese sui
fronti di Guerra della Nato, costruendo al centro di Copenaghen un nuovo
mausoleo ai caduti delle guerre Nato, e con decisioni legislative per la difesa
dei “valori” nazionali che impongono la carne di “maiale” nelle colazioni
dei bambini negli asili e nelle scuole. Il ritorno del “terrorismo”, con le armi e i soldi dell’Occidente, ha
legittimato sia moralmente sia contabilmente i tagli alle politiche di aiuto
verso i paesi africani e asiatici. La reazione di sgomento e sorpresa
per la recente approvazione parlamentare della legge L87 che autorizza la perquisizione
e il sequestro da parte della polizia danese degli “ori e diamanti” che i
migranti trascinerebbero con se nelle loro valigie è stata
stigmatizzata come ipocrita da parte del governo danese. La tesi ufficiale,
ribadita anche a Bruxelles, è che questo è in linea con quanto il governo fa in
Danimarca anche verso i propri cittadini. La rapina eretta a sistema, verso i
propri e gli altri cittadini, durante la quale i risparmi di una vita non sono
distinguibili dal bottino della finanza e delle guerre, quelli mai conteggiati
e tassati.
I migranti sono i veri speculatori del nostro tempo
giovedì 2 febbraio 2017
L’imperialismo americano e la socialdemocrazia europea*- L. Trotsky (1924)
*Da: https://www.marxists.org/
Leggi anche: http://ilmattino.it/primopiano/esteri/canfora_trump_islam_unione_europea-2231555.html
Ma prima di affrontare questa importante questione, esaminiamo qual è il ruolo che il capitale americano riserva ai radicali e ai menscevichi europei, alla socialdemocrazia in questa Europa che sta per essere posta a regime controllato.
La socialdemocrazia è incaricata di preparare questa nuova situazione, cioè di aiutare politicamente il capitale americano a mettere a razione l’Europa. Che fanno in questo momento le socialdemocrazie tedesca e francese, che fanno i socialisti di tutta Europa? Si educano e si sforzano di educare le masse operaie nella religione dell’americanismo; in altre parole, fanno dell’americanismo, del ruolo del capitale americano in Europa, una nuova religione politica. Si sforzano di persuadere le masse lavoratrici che, senza il capitale americano, essenzialmente pacificatore, senza i prestiti dell’America, l’Europa non potrà resistere. Fanno opposizione alla loro borghesia, come i socialpatrioti tedeschi, non dal punto di vista della rivoluzione proletaria, e neanche per ottenere delle riforme, ma per dimostrare che questa borghesia è intollerabile, egoista, sciovinista e incapace di andare d’accordo con il capitale americano pacifista, umanitario, democratico. È il problema fondamentale della vita politica dell’Europa e, in particolare, della Germania. In altri termini, la socialdemocrazia europea diventa oggi l’agenzia politica del capitale americano. È un fatto inaspettato? No, poiché la socialdemocrazia, che era l’agenzia della borghesia, nella sua degenerazione politica, doveva fatalmente diventare l’agenzia della borghesia più forte, della più potente, della borghesia di tutte le borghesie, cioè della borghesia americana. Poiché il capitale americano assume il compito di unificare, di pacificare l’Europa, di insegnarle a risolvere i problemi dei risarcimenti e altri ancora, e poiché tiene i cordoni della borsa, la dipendenza della socialdemocrazia nei confronti della borghesia tedesca in Germania, della borghesia francese in Francia, diventa sempre di più una dipendenza nei confronti del padrone di queste borghesie. Il capitale americano è attualmente il padrone dell’Europa. Ed è naturale che la socialdemocrazia cada politicamente sotto la dipendenza del padrone dei suoi padroni. Questo è il fatto essenziale per comprendere la situazione attuale e la politica della Seconda Internazionale. Non rendersene conto, significa non poter comprendere gli avvenimenti di oggi e di domani, significa vedere soltanto la superficie delle cose e soddisfarsi di frasi generiche.
Leggi anche: http://ilmattino.it/primopiano/esteri/canfora_trump_islam_unione_europea-2231555.html
Ma prima di affrontare questa importante questione, esaminiamo qual è il ruolo che il capitale americano riserva ai radicali e ai menscevichi europei, alla socialdemocrazia in questa Europa che sta per essere posta a regime controllato.
La socialdemocrazia è incaricata di preparare questa nuova situazione, cioè di aiutare politicamente il capitale americano a mettere a razione l’Europa. Che fanno in questo momento le socialdemocrazie tedesca e francese, che fanno i socialisti di tutta Europa? Si educano e si sforzano di educare le masse operaie nella religione dell’americanismo; in altre parole, fanno dell’americanismo, del ruolo del capitale americano in Europa, una nuova religione politica. Si sforzano di persuadere le masse lavoratrici che, senza il capitale americano, essenzialmente pacificatore, senza i prestiti dell’America, l’Europa non potrà resistere. Fanno opposizione alla loro borghesia, come i socialpatrioti tedeschi, non dal punto di vista della rivoluzione proletaria, e neanche per ottenere delle riforme, ma per dimostrare che questa borghesia è intollerabile, egoista, sciovinista e incapace di andare d’accordo con il capitale americano pacifista, umanitario, democratico. È il problema fondamentale della vita politica dell’Europa e, in particolare, della Germania. In altri termini, la socialdemocrazia europea diventa oggi l’agenzia politica del capitale americano. È un fatto inaspettato? No, poiché la socialdemocrazia, che era l’agenzia della borghesia, nella sua degenerazione politica, doveva fatalmente diventare l’agenzia della borghesia più forte, della più potente, della borghesia di tutte le borghesie, cioè della borghesia americana. Poiché il capitale americano assume il compito di unificare, di pacificare l’Europa, di insegnarle a risolvere i problemi dei risarcimenti e altri ancora, e poiché tiene i cordoni della borsa, la dipendenza della socialdemocrazia nei confronti della borghesia tedesca in Germania, della borghesia francese in Francia, diventa sempre di più una dipendenza nei confronti del padrone di queste borghesie. Il capitale americano è attualmente il padrone dell’Europa. Ed è naturale che la socialdemocrazia cada politicamente sotto la dipendenza del padrone dei suoi padroni. Questo è il fatto essenziale per comprendere la situazione attuale e la politica della Seconda Internazionale. Non rendersene conto, significa non poter comprendere gli avvenimenti di oggi e di domani, significa vedere soltanto la superficie delle cose e soddisfarsi di frasi generiche.
domenica 29 gennaio 2017
Il ruolo del progresso tecnologico in un sistema di produzione capitalistico*- Francesco Piccioni
* Da: Automazione e disoccupazione tecnologica http://contropiano.org/ (Relazione
di Francesco Piccioni al Forum “il piano inclinato degli imperialismi”,
organizzato dalla Rete dei Comunisti a Bologna il 7 marzo 2015)
I primi tre articoli:
http://contropiano.org/documenti/2017/01/15/automazione-disoccupazione-tecnologica-divario-
I cento anni più veloci della Storia
A 100 anni quasi esatti dall’Imperialismo di
Lenin un aggiornamento, anche a livello delle categorie, appare necessario, ma
decisamente non facile. Lo chiede la realtà che abbiamo di fronte, che riesce
sempre più difficile descrivere nei soliti modi. Bisogna ricordare, infatti,
che la dialettica materialistica non è per nulla una
particolare griglia di lettura da sovrapporre ai dati empirici, ma è interna
alla cosa stessa. Va insomma riconosciuta nel suo tratto
fondamentale per cogliere ciò che – nella trasformazione continua – resta
stabile e ciò che invece svanisce. Vale il paragone con le leggi che regolano
la fisiologia umana: sono in linea generale decisamente stabili, ma cambia
molto – soprattutto nella pratica quotidiana – se l’organismo si trova più
vicino alla nascita oppure alla morte.
Al tempo de L’imperialismo erano passati
appena trenta anni dalla morte di Marx, caratterizzati dalla stagnazione e poi
dalla crisi della prima globalizzazione, e già Lenin individuava –
sulla scia di altri studi contemporanei – una forma capitalistica decisamente
“nuova”, tale da cambiare molti parametri decisivi per la lotta di classe e soprattutto per la lotta politica rivoluzionaria.
Difficile pensare che i 100 anni più veloci della storia
dell’umanità siano trascorsi senza effetti tali da dover essere riconosciuti
anche su piano teorico. Eppure i marxismi del ‘900 sono stati particolarmente
immobili su questo fronte – sostanzialmente fermi alle dinamiche descritte dal
primo libro de Il Capitale e inchiodati alla necessità di
giustificare teoricamente le scelte tattiche dei diversi partiti comunisti –
lasciando alla fin fine il compito dell’innovazione ad avventurieri del
pensiero, eretici di assai diversa onorabilità, pezzenti a caccia di abiti
rubati.
Ma da quale punto di osservazione si deve procedere?
martedì 24 gennaio 2017
Edward Hallett Carr, storia e rivoluzione*- Matthijs Krul
Link all’intervista in inglese Notes & Commentaries
Quella che segue è la trascrizione di un’intervista al
celebre storico britannico E. H. Carr come pubblicata dalla New Left
Review nel 1978, col titolo “La sinistra oggi”. Carr, uno dei primi
seri specialisti della storia russa e sovietica (forse un po’ datato ma ancora
utile e leggibile), all’epoca aveva ottantasei anni. Pur non
essendo mai stato comunista, egli si identificava chiaramente con la
sinistra politica, dedicando gran parte dei suoi sforzi accademici a combattere
la storiografia conservatrice e liberale (Whig). Ciò nonostante, per una significativa parte della
sua carriera non fu un accademico, lavorando presso il Foreign Office, ed in
seguito come vicedirettore del Times, due organi non certo noti per la loro
vicinanza alla sinistra. Questo gli consentì di avere una prospettiva ampia e
non settaria sugli eventi.
Il discorso di Carr tocca questioni ancor’oggi rilevanti per
il comunismo, a dispetto del fatto che l’articolo qui riprodotto abbia ormai
più di trent’anni. Per molti versi, esso è rappresentativo della disillusione
della sinistra post-stalinista. Disillusione allora talmente profonda in alcuni
comunisti, e frutto dello scontro tra la realtà e le loro aspettative, da
spingerli a trarre conclusioni opposte e divenire rabbiosi esponenti della
destra. Carr, d’altra parte, non seguì tale percorso, conservando una
prospettiva più distante e dunque maggiormente obiettiva, nonché meno isterica.
Ancor più importante, egli non solo fu in grado di separare il grano dal loglio
nell’esperienza comunista, e ciò nonostante l’enorme pressione accademica e
politica esercitata contro di lui (persino Orwell lo considerava pericoloso),
ma ebbe anche la capacità in età avanzata di analizzare correttamente gli
sviluppi politici ricorrendo al metodo di Marx. Meglio di tanti comunisti, in
particolare i cosiddetti “eurocomunisti”, esaminò gli sviluppi nelle
relazioni economiche che avevano avuto luogo dopo la morte di Marx e, in particolare,
dopo la Seconda guerra mondiale, indicando, inoltre, la sempre più
aristocratica e compromessa condizione della classe operaia nelle nazioni più
sviluppate, se comparata con quella dei paesi caratterizzati da
un’industria, e dunque, un proletariato sottosviluppati. Senza timore di trarre
le conclusioni necessarie, diede un forte impulso ad una migliore comprensione
storica di tale fenomeno, il quale a posteriori diverrà generalmente accettato
come una delle decisive rotture storiche del XX secolo.
La fama di Carr non è legata esclusivamente alla sua
eccellente analisi della storia economica sovietica, campo nel quale è stato un
pioniere insieme a R. W. Davies, bensì è dovuta in egual misura al suo lavoro
storiografico Sei lezioni sulla storia. Un libro generalmente
considerato come l’espressione maggiore della scrittura
storiografica moderna, una presa di distanza dalla vecchia storia
Whig, così come da un certo positivismo sterile e conservatore (à la Namier). In esso viene inaugurata un’epoca in cui il
mestiere dello storico, in maniera crescente, è stato visto come un
particolare modo di selezionare e disporre gli elementi storici, che si
vogliano o meno definire questi ultimi “fatti storici”; e nel fare ciò, ha
aperto la strada, sostenendole, a quelle modalità di scrittura
storiografica che hanno enfatizzato inediti trattamenti di materiali
esistenti e ignorati, allo scopo di condurre alla ribalta segmenti sino ad
allora oscuri della storia, quali la storia sociale, quella delle donne, del
quotidiano e così via. Il clima generale instaurato dall’ascesa della New Left
e dall’influenza del gruppo degli storici vicini al PCGB, particolarmente in
Gran Bretagna, ha senz’altro avuto un ruolo. Altro aspetto importante del
contributo fornito da Carr alla storiografia, nel libro in questione come in
altri, è la sua rivendicazione dell’idea di progresso nella storia, come
prerequisito necessario al fine di rendere la disciplina storica un’impresa, in
primo luogo, comprensibile ed utile. Il tutto senza invocare il deus ex
machina del Geist o concezioni analoghe, cosa di per
sé degna di nota, per quanto anche un prodotto della peculiare avversione
britannica nei confronti della filosofia della storia. Gran parte di questa
intervista e da vedersi sotto questa luce, compresi i riferimenti al
lavoro succitato. Poiché è essenziale difendere l’idea di progresso nella
storia senza cadere nella trappola del progressismo o idealismo whig, Edward
Hallett Carr è stato un grande storico anche solo per quest’unico motivo.
Una teoria del miracolo cinese*- Cheng Enfu, Ding Xiaoqin**
**Cheng Enfu è un membro dell'Accademia Cinese delle Scienze
Sociali e presidente della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World
Association for Political Economy). ----- Ding Xiaoqinè vice direttore del Centro di Economia Politica
Socialista con Caratteristiche Cinesi presso la Shanghai University of Finance
and Economics, ricercatore post-dottorato presso l'Accademia cinese delle
scienze sociali, e segretario generale della Associazione Mondiale per l’Economia
Politica (World Association for Political Economy).
Questo articolo è stato tradotto dal cinese all’inglese da
Shan Tong (Università di Scienze Politiche e Giurisprudenza della Cina
Orientale) e, successivamente, dall’inglese all’italiano ad opera di Francesca
Cirillo ed Andrea Genovese.
Il rapido sviluppo economico della Cina negli ultimi anni è
stato spesso definito con aggettivi quali “miracoloso” [1]. Parlare di un "Beijing
Consensus" o di un "modello cinese" è diventata ormai prassi
comune nei dibattiti accademici.
Ma, come abbiamo scritto altrove, “forti problemi teorici
sono iniziati ad emergere per quanto riguarda l'esistenza, il contenuto, e le
prospettive del modello Cina” [2]. La domanda chiave, quindi, è la
seguente: quale tipo di teoria economica e quale strategia sono alla base di
questo "miracolo”? Il modello cinese è stato variamente descritto,
alternativamente, come una forma di neoliberismo, o come un nuovo
tipo di keynesismo. Riteniamo che i grandi progressi recenti
registrati nello sviluppo del paese siano i risultati dei progressi teorici nel
campo dell’Economia Politica, verificatisi all’interno dello stesso contesto
cinese; al contrario, i principali problemi che hanno accompagnato lo sviluppo
della Cina riflettono l’influenza dannosa del neoliberismo occidentale.
Il presidente Xi Jinping ha sottolineato la necessità di
sostenere e sviluppare una politica economica Marxiana per il XXI secolo,
adattata alle esigenze e alle risorse della Cina. Il bollettino di una
conferenza sullo stato dell’Economia cinese del Comitato Centrale del Partito
Comunista (tenutasi nel Dicembre 2015), ha riaffermato, di conseguenza,
l'importanza degli otto grandi principi della "Economia Politica
Socialista con Caratteristiche Cinesi".
Questi principi e le loro applicazioni sono discussi nel
seguito, insieme ad alcuni commenti sulle possibili interpretazioni,
attualmente oggetto di dibattito intellettuali cinesi.
Scopo di questo articolo è quello di chiarire il modello
teorico ufficiale che sta alla base del “miracolo” economico cinese,
utilizzando, a tal fine, i termini e i concetti prevalenti nella Cina odierna.
1. Sostenibilità guidata da Scienza e Tecnologia
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