**Osvaldo Coggiola, docente di Storia economica all'Università di San Paolo del Brasile
Video dell'incontro (UniGramsci): https://www.youtube.com/watch?v=-JB1I3hvqXM
La crisi economica mondiale, nelle sue diverse diramazioni (crisi europea, recupero limitato ed ampiamente fittizio degli USA, cronica stagnazione del Giappone, frenata della Cina), è definitivamente penetrata nei “mercati emergenti”, colpendo anche l’America Latina e i suoi pilastri (Brasile, Messico, Argentina). Il fattore essenziale dell’arretramento dei suoi mercati d’esportazione viene attribuito soprattutto alla Cina (il che dimostra che queste economie continuano ad essere basicamente piattaforme d’esportazione di materie prime o di prodotti semi-manifatturati). Ci si dimentica così della fuga di capitali, attratti da tassi d´interesse imbattibili a livello mondiale, i quali hanno fatto del continente il principale spazio di valorizzazione fittizia del capitale finanziario internazionale; del basso o inesistente livello di investimenti e del fatto che i palliativi “programmi sociali” hanno favorito soprattutto il lavoro nero o informale (che in Argentina, per esempio rappresenta il 30% della forza-lavoro) senza creare un mercato interno solido e capace di espandersi; ci si dimentica della straordinaria crescita del debito pubblico e privato, che compromette gli investimenti pubblici e gli stessi programmi sociali (consumando per esempio il 47% del bilancio federale brasiliano); si dimenticano la crisi e l´arretramento di diversi progetti di integrazione continentale. Il PIL regionale è cresciuto dello 0,9% nel 2014 (contro il 6% del 2010) e si prevede una performance ridicola nel 2015, a crescita zero o negativa per il Brasile secondo le previsioni della Banca Centrale. Già si parla di un nuovo “decennio perso” per l´America Latina, come lo furono gli anni Ottanta.
Su questo sfondo si proiettano significative crisi politiche che colpiscono, in
misura maggiore o minore, tanto i regimi “neoliberisti” (di destra) quanto i
regimi nazionalisti o “progressisti”, nella cui agenda politica si ripropone di
nuovo la prospettiva di golpe civili o civico-militari. Paraguay (Lugo) e
Honduras (Zelaya) sono in questo senso le prime manifestazioni di una tendenza
più vasta. Lo sfondo complessivo è quello della crisi capitalista mondiale, la
crisi storica del modo di produzione del capitale. Sono i paesi più
“sviluppati” dell´America Latina i più colpiti dalla crisi. La “periferia
emergente” del capitalismo “globale” deve far fronte ad enormi pagamenti
esteri, un debito contratto soprattutto dalle multinazionali, il quale supera
in alcuni casi le riserve nazionali. Si dissolve così il miraggio di quanti
avevano supposto che con il ciclo economico 2002-2008 le nazioni dipendenti si
sarebbero trasformate in creditrici del sistema mondiale: con l´aumento del
debito privato estero, tali Stati sono rimasti sempre debitori netti; l´avanzo
commerciale ha costituito la garanzia finanziaria dell´indebitamento privato.
Il capitale finanziario internazionale si è appropriato dell´eccedente
commerciale generato dall´aumento dei prezzi e dal volume delle esportazioni.
La crisi mondiale ha colpito l´America Latina per la sua fragilità finanziaria
e commerciale e per la sua debole struttura industriale. I governi dell´America
Latina avevano affermato in un primo momento che sarebbero rimasti incolumi
alla crisi grazie alla solidità delle riserve delle Banche Centrali. Ma il calo
delle borse regionali, la fuga di capitali e la svalutazione delle monete hanno
mostrato come questi argomenti fossero privi di fondamento. Il Brasile,
orgogliosamente proclamato “sesta economia del mondo”, è appena al ventiduesimo
posto nel ranking degli esportatori (con il 3,3% del PIL mondiale, detiene solo
l´1,3% delle esportazioni internazionali). La produttività totale dei fattori
economici, che è cresciuta dell´1,6% nel primo decennio del secolo, è in fase
di stagnazione dal 2010.










