martedì 16 giugno 2015

Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento - Riccardo Bellofiore

        ...Il mio Marx, è bene confessarlo subito, è sempre e ancora il Marx della teoria del lavoro astratto, della teoria del valore e del plusvalore, della teoria del denaro: più precisamente, della costituzione monetaria del comando capitalistico sul lavoro vivo, e della lotta delle classi innanzi tutto nel cuore della produzione. Ma, è bene confessare anche questo: proprio questo Marx a cui mi riaggancio, e di cui non saprei fare a meno, è per me un Marx problematico, un Marx pieno di questioni irrisolte cui occorre sempre e di nuovo tentare di dare risposta. Un Marx, dunque, dove i lavori sono perennemente in corso. E’ proprio per questo che fare la storia «a ritroso» è utile ed essenziale, e apre prospettive inedite. Secondo una metafora che è quella della spirale più che quella del circolo, qualcosa che ci consegna alla responsabilità: non solo della nostra interpretazione, ma anche della nostra ricostruzione in positivo della critica dell’economia politica. Fare la storia a ritroso significa, in realtà, proprio questo: partire dai problemi che noi ci troviamo squadernati davanti oggi, e significa partire dall’ipotesi di soluzione che noi intendiamo sperimentare, per far così emergere quegli interrogativi con cui interrogare gli autori del passato per aiutarci nella ricerca. Da questo punto di vista, si deve dire, non conta tanto la fedeltà «filologica» a quello che pensavano gli autori di se stessi. Contano mille volte di più gli strumenti e le categorie e le piste che questi autori ci hanno lasciato e che sta a noi saper sfruttare. Un metodo questo che non dovrebbe risultare poi così strano, visto che è lo stesso impiegato da Marx nelle sue Teorie sul plusvalore quando ingaggia un confronto con l’economia politica classica di Smith e Ricardo. 

domenica 14 giugno 2015

Marx e Hegel. Contributi a una rilettura - Roberto Fineschi




         Lo studio che presento è la continuazione organica di una ricerca iniziata da alcuni anni che ha dato i suoi primi frutti nel volume apparso alcuni anni fa dal titolo Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”. Tenendo conto del legame esplicito valgono qui le stesse tre premesse di carattere generale allora introdotte.

          Nella voce Karl Marx per il dizionario enciclopedico Granat Lenin scriveva: «Il Marxismo è il sistema delle concezioni e della dottrina di Marx» [Lenin (1914): 9], proseguendo poi con un’esposizione dei principi generali e concludendo con un capitolo sulla tattica del proletariato. Non intendo certo pronunciarmi qui su Lenin come personaggio storico, politico o come pensatore; limitandosi però a questa affermazione, mi pare si possa sostenere che egli operi una forzatura che è stata poi propria di tutta una tradizione, alla quale sono appartenuti anche gli oppositori di Lenin. Definirei, infatti, più propriamente il marxismo come “una prassi politica ispirata alle concezioni ed alla dottrina di Marx”. La teoria del modo di produzione capitalistico elaborata da Marx non è infatti – né può essere – immediatamente una teoria politica; si tratta piuttosto della ricostruzione, ad un altissimo livello di astrazione, del funzionamento “epocale” della società borghese, che implica delle linee di tendenza, delle forme di movimento, ma immediatamente non una politica. Ciò non per negare le esplicite prese di posizione di Marx, né che si possa utilizzare questa teoria con finalità politiche, ma per stabilire: (i) che la politica, collocandosi ad un livello di astrazione molto più basso, per essere raggiungibile ha innanzitutto bisogno di una serie di teorie cuscinetto che il Moro non ha sviluppato, (ii) che quindi la politica non ha a che fare solo con le forme – che rappresentano l’oggetto essenziale della teoresi di Marx – ma anche con le “figure”, che sono via via quei soggetti che in sottoperiodizzazioni della fase epocale si trovano ad incarnarne la forma di moto. Così, per fare un esempio, lo “operaio massa” è stato legittimamente ritenuto una figura di movimento della società capitalista, ma la forma di tale movimento funziona in altre fasi anche con altre figure, proprio perché non c’è identità fra forma e figura. Così, se facendo politica Marx si rivolgeva giustamente all’operaio nella fabbrica, ciò non esaurisce lo spettro d’applicabilità della sua teoria. Se da una parte si guadagna in ampiezza, dall’altra si perde in precisione (necessità di teorie cuscinetto).[1] Più in generale, si può sostenere che a livello politico si agisce inevitabilmente con le figure, ma una cosa è la tattica ed altra la teoria del modo di produzione come fase epocale.

         Così, Marx ed il marxismo non possono essere la stessa cosa ed è inevitabile che si debba parlare di “marxismi”, al plurale.[2] Questi hanno la loro dignità storica e, nel bene e nel male, rappresentano un momento importante – se non imprescindibile in certi casi – della storia recente, ma si stia attenti a non operare fuorvianti appiattimenti. Gli oggetti d’indagine sono, infatti, due. Non si deve d’altronde compiere l’errore opposto, ossia credere che non sia lecito stabilire quanto i vari marxismi siano stati fedeli alle indicazioni date da Marx: che non ci sia identità fra forma e figura non significa neppure che ogni tentativo di applicazione politica vada bene. Come sempre occorre mostrare le mediazioni (o eventualmente l’assenza di esse). 



venerdì 12 giugno 2015

ROMERO BEATO, MARTIRE DELLA GUERRA FREDDA O COSTRUTTORE DI PACE? - Alessandra Ciattini



 Credo che per comprendere il significato profondo della beatificazione di Oscar Arnulfo Romero (1917-1980), celebrata come un evento mediatico volto a rilanciare l'immagine positiva della Chiesa cattolica in America Latina, dobbiamo partire da una ben nota riflessione di Antonio Gramsci: "Ogni religione, anche la cattolica (anzi specialmente la cattolica, appunto per i suoi sforzi di rimanere unitaria “superficialmente”, per non frantumarsi in chiese nazionali e stratificazioni sociali) è in realtà una molteplicità di religioni distinte e contraddittorie..."

A mio parere, in generale ciò significa che, se vuole restare un'istituzione universale e continuare a giocare un ruolo internazionale, la Chiesa cattolica deve accogliere in sé istanze diverse, anche contrastanti, provenienti dalle diverse entità regionali, dai differenti strati sociali, dalle difformi sensibilità culturali, benché non sempre abbia intenzione o alla fine non sia in grado di dare ad essi risposte concrete.
Un altro elemento importante e utile per approfondire l'argomento lo ricaviamo dal concetto di “modello di santità”; concetto utilizzato dagli studiosi del cristianesimo per contestualizzare storicamente e culturalmente le scelte operate dall'istituzione ecclesiastica per individuare coloro che possano rappresentare al meglio lo stile di vita santa, che essa propone e che si fonda sull'imitazione della vicenda umana di Cristo.

giovedì 11 giugno 2015

L'ASTRAZIONE DELL'ECONOMISTA, Note sul capitolo VI del Capitale di Marx* - Stefano Garroni

Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole


 "Ciò che qui [nella società civile, dunque nella sfera dei rapporti economici moderni o capitalistici] abbiamo di fronte è il mondo dell'apparizione, dell'apparire; Questa sfera è solo apparizione perché i principi non sono nella loro verità, non sono nella loro unità, identità, ma sono reciprocamente contrapposti nella loro diversità ed autonomia; e ciò non è il vero. Ma è al tempo stesso l'universalità che in essi appare, e questo apparire dell'universalità, nella particolarità è ciò che di interessante e di essenziale abbiamo da esaminare... Ciò che è meraviglioso [nell'ambito della società civile] è l'interiore necessità per cui ognuno crede di lavorare per sé, ma l'egoismo si rovescia, e nel lavoro per il proprio fine realizza i fini degli altri."       (G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto)

 ...I margini del gioco, che si aprono alla determinata contrattazione nella compra-vendita della forza-lavoro, danno a me - singolo lavoratore -, che in essa son coinvolto, il senso che quella del salario sia una partita dall'esito non scontato, ché piuttosto è da me che esso dipende: dalle abilità che posseggo, dall'alacrità che testimonio, dalla disponibilità mia al sacrificio, alla costanza. Se, dunque, quella partita si chiude male per me, son io stesso chiamato in causa, è la solidità della mia personalità, che è in questione. Pur se in qualche zona della mia coscienza è presente la consapevolezza che i limiti, entro cui è contenuto il 'gioco' della contrattazione, prescindono da me e dipendono da vicende e situazioni, su cui non ho presa alcuna, proprio questa loro 'distanza', questa loro 'imprevedibilità', 'inafferrabilità', fanno sì, che essa resti sempre sullo sfondo - quasi un inefficace sottinteso.
 Eppure, l'analisi economica - ma questo vuol dire l'assunzione di una prospettiva, che non è più quella del lavoratore in quanto singolo, in quanto coinvolto da persona determinata nell'esperienza della contrattazione - mi dice che è legge economica la sostanziale stabilità del salario medio e che, dunque, lo scacco dei miei sforzi è sostanzialmente pre-scritto.
 Ma ciò significa due terribili conclusioni: che la realtà effettiva del mio impegno contrattuale prescinde da me, essendo orientata da forze, affatto estranee al mio controllo; e che, addirittura, quella media salariale sostanzialmente stabile è attraverso i miei sforzi - e quelli dei tanti singoli lavoratori -, che va affermandosi. Sono io stesso, insomma, che conduco i miei sforzi al loro scacco; paradossalmente, in quanto si inscrive nella cornice dell'organizzazione capitalistica, il senso di responsabilità scade a moralismo, ad illusoria prospettiva. Peggio: si riduce a momento di quell'hegeliano "universale brulichio", attraverso cui si realizza la regola o 'necessità' capitalistica.

mercoledì 10 giugno 2015

DAL JOBS ACT A “LA BUONA SCUOLA” SECONDO RENZI - Renato Caputo



 ...sviluppando l’analisi di Adam Smith, anche l’altro padre nobile dell’economia liberale, David Ricardo, già agli albori del diciannovesimo secolo non poteva più dare credito alla tesi mitologico-religiosa della mano invisibile delle leggi del mercato le quali, lasciate liberamente operare, avrebbero automaticamente risolto ogni squilibrio. Tanto più che le contraddizioni dell’economia capitalistica continuavano ad aumentare insieme allo sviluppo della moderna plebe. 

 Ciò porta Ricardo alla celebre tesi che la ricchezza sociale è come una torta – la cui grandezza è data in una certa epoca storica – che deve essere spartita fra le tre componenti fondamentali della società capitalista: i rentiers, i capitalisti e i lavoratori salariati.

 Dunque la parte della ricchezza sociale di cui si appropriano i lavoratori è necessariamente inversamente proporzionale a quella che si intascano i rentiers – oggi essenzialmente i finanzieri – e i capitalisti, con buona pace degli odierni cantori della concertazione e del comune interesse nazionale.


 È, dunque, il conflitto sociale e non la presunta concertazione a decidere come verrà spartita la torta e se si lascia fare alle leggi del mercato ad avere la meglio saranno sempre coloro che possono permettersi di acquistare la forza-lavoro e non coloro che sono costretti a vendere, perché i primi possono attendere di trovare i migliori offerenti, mentre i secondi hanno la necessità immediata e assoluta di vendere, pena l’impossibilità di riprodursi come classe sociale. 

PER UNA RIPRESA DI RIFLESSIONE* - Stefano Garroni

*Da "tracciati dialettici (note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa 


    "<Da premesse contraddittorie, qualunque conclusione è inferibile

Interpreto questo enunciato come un divieto, come l'indicazione di una 'mossa' proibita: ed è proprio per questo, che lo indico con R - in quanto 'regola grammaticale' del calcolo logico.
Insomma, attribuisco ad R questo senso: enunciati costruiti secondo il modello indicato, non sono corretti perché renderebbero impossibile il calcolo logico; il divieto implicito in R va rispettato, se l'obbiettivo è giocare quel gioco determinato, detto 'calcolo logico'. 

     Ma rientra la dialettica dentro 'questo' gioco determinato?...

martedì 9 giugno 2015

"RICOLONIZZAZIONE", dall’esperienza storica del presente - Edoarda Masi



 L’espansione del capitale ha alterato equilibri precedenti, e non è dimostrabile che costituisca un “progresso”, giacché dovunque arriva produce sottosviluppo e povertà crescente, oltre che disintegrazione sociale e distruzione di civiltà. Non solo, ma questi risultati sono necessari alla sussistenza del meccanismo di accumulazione del capitale stesso. Tanto che al periodo di rapina nelle regioni del mondo non capitalistiche succede al presente una tendenziale riduzione al sottosviluppo di zone già capitalistiche, all’interno delle società cosiddette avanzate o nel pianeta. Così vediamo ridotti al rango di colonie grandi paesi già liberi e semicapitalistici, e all’interno del cosiddetto Occidente si riproducono rapporti di lavoro che credevamo appartenere al passato (sfruttamento dei minori) o addirittura al lontano passato (riduzione in schiavitù). Non si tratta di fenomeni marginali, ma della stessa essenza del sistema del capitale al livello più “sviluppato”. L’imperialismo conduce oggi a una sorta di ricolonizzazione, che parte dalle sfere già colonizzate ma tende ad allargarsi generalmente. La questione se questo processo sia ulteriormente possibile è tutt’uno con la domanda se vi sia spazio per una ulteriore sopravvivenza del sistema che lo postula. 

lunedì 8 giugno 2015

Storiografia degli strati di tempo. Una rilettura dell’accumulazione - Massimiliano Tomba

 In  Italia, nonostante  la  finanza,  la  tecnologia  e  la  manodopera  il  capitalismo  non  riuscì  a  svilupparsi. Mancava ciò che Machiavelli esortava a mettere in forma al più presto: uno Stato. È infatti lo Stato ad operare una prima violenta sincronizzazione delle diverse temporalità storiche, a produrre, come effetto della concentrazione della Gewalt (violenza · autorità · potenza) e come reazione alle lotte di emancipazione dei serventi, lavoratori  formalmente  liberi  e  contrattualizzazione  dei  rapporti  di  lavoro.  Prodotti  gli  individui  e trasformati in proletari una parte di essi, bisognava disciplinarli al lavoro: distruggere i precedenti rapporti  consuetudinari  e  imporre  il  diritto  astrattamente  uguale  in  quella  che  sarà  la lunga  guerra dei Cent’anni contro i diritti collettivi.

Delle lotte operaie hanno così indirettamente messo in essere una maggiore concentrazione operaia e  quindi  anche  una  maggiore  potenza  di  classe.  Diversamente,  lo  sviluppo  tecnologico  può permettere  anche  una  disintegrazione  dei  grandi  concentramenti  operai,  dando  luogo  a  una centralizzazione  finanziaria  e  produttiva  senza  concentrazione  di  operai.  In  questo  caso  è  il capitale a trovarsi in una posizione di forza, complice l’ideologia del progresso e lo sviluppo tecnico.

«Questa  è  la  ragione – scrive  ancora  Marx  nella Prefazione (Das Kapital) – per  la  quale  in questo volume ho dato un posto così esteso, fra l’altro, alla storia, al contenuto e ai risultati della legislazione  inglese  sulle  fabbriche».

Se  una  massa  di proletari era così stata prodotta attraverso la dissoluzione del sistema feudale, bisognava ora disciplinarla, farla muovere al tempo cronometrico del mercato:

domenica 7 giugno 2015

L’INFERIORITÀ DELLA DONNA TRA NATURA E CULTURA - Alessandra Ciattini

   Sottomissione alla specie

Questo intervento prende le mosse da un problema teorico assai dibattuto e che costituisce un topos della riflessione classica sia antropologica che filosofica. Mi riferisco in particolare alla vexata quaestio della controversa relazione tra natura e cultura che, negli ultimi decenni, da quando cioè si è affermato il cosiddetto pensiero postmoderno, è stata apparentemente risolta mettendo esclusivamente l'accento sulla dimensione culturale, a cui vengono ridotte tutte le forme di materialità, siano esse di natura biologica che di natura economica.

Contro questa posizione che, per contrastare il riduzionismo materialistico, ricade inevitabilmente in una visione di stampo idealistico definita “culturalismo” (anch'essa riduzionistica seppure in senso diverso), vorrei richiamarmi a quanto scrive Terry Eagleton nel suo efficace pamphlet (Le illusioni del postmodernismo, 1998), dove rifiuta la tendenza a dissolvere la natura nella cultura e viceversa, indicando una ipotesi alternativa, anche se non certo nuova. Infatti, egli afferma: <<noi... siamo esseri culturali in virtù della nostra natura, cioè in virtù del corpo che abbiamo e del tipo di mondo cui esso appartiene>>. A queste parole egli aggiunge una riflessione, che si ispira certamente all'antropologia di Sigmund Freud, e che qui riportiamo: <<Poiché nasciamo tutti prematuramente, incapaci di provvedere a noi stessi, la nostra natura contiene una voragine nella quale la cultura deve immettersi all'istante, altrimenti periremmo ben presto. E questa immissione della e nella cultura è insieme la nostra gloria e la nostra catastrofe>> (1998: 87).

mercoledì 3 giugno 2015

Soren Kierkegaard - Antonio Gargano



 ...Specie tra i comunisti si trova spesso quello che dice: "bisogna legare teoria e pratica e quindi: studia, però poi vai a dare i volantini". Pensando, in questo modo, di legare teoria e pratica, perché la si vede un po' cristianamente come una vicenda "mia personale", e non si comprende che la mediazione avviene per es. nel partito, nell'organizzazione, nel grande e non nella vicenda personale...

 In Kierkegaard è centrale questo motivo del "commitment" personale, dell'impegno quotidiano. Ho usato il termine inglese commitment, l'impegno quotidiano, perché questo del commitment è un problema che si fa sentire molto nel '600/'700, in particolare attraverso autori inglesi come Locke, come Hume per es. E il commitment è appunto il fatto che un certo pensiero, una certa teoria ha un risvolto pratico-operativo, etico-politico. Una certa teoria intanto è sostenuta in quanto ha quella ricaduta etico-politica, e dunque implica un atteggiamento da un lato di critica, verso una separatezza della filosofia rispetto alla dimensione etico-politica, e dall'altro lato ha dietro quella diffidenza di tipo empiristico, contro la teoria che non sia rapportabile ad esperienze. Ora aggiungiamo un terzo fattore molto importante che è questo: alla fine del '700 si afferma nel mondo protestante, il "pietismo". Il senso fondamentale del pietismo è quello della fede come militanza pratica, quindi non tanto come momento riflessivo, teologico, quanto invece come impegno personale, come vincolo a un rispetto costante, una messa in pratica costante della morale cristiana.

 E' molto interessante che sia in Kierkegaard, sia in Nietzsche, noi troviamo con abbondanza pagine che criticano la società di massa, quella che noi oggi vediamo tutti i giorni, e che queste menti grandi hanno anticipato rispetto alla nostra quotidianità; e quindi sia Kierkegaard sia Nietzsche si sono prestati molto bene a questo atteggiamento di denuncia e di critica della quotidianità capitalistica.     (S. Garroni) 

martedì 2 giugno 2015

SAGGI SULLA TEORIA DEL VALORE DI MARX - Isaak Ilijc Rubin



 ...una volta ridotte le forme socio-economiche al loro contenuto tecnico-materiale, gli economisti classici considerano esaurito il proprio compito. Ma proprio dove finisce la loro analisi, Marx inizia la propria. Poiché non era limitato dall'orizzonte economico borghese, ma lo considerava uno dei possibili modi storici di organizzazione economica, Marx si chiese: perché il contenuto tecnico-materiale del processo lavorativo a un dato livello di sviluppo delle forze produttive si presenta in una particolare, determinata forma sociale? La formulazione metodologica del problema in Marx suona approssimativamente: perché il lavoro assume la forma di valore, i mezzi di produzione quella di capitale, i mezzi di sussistenza dei lavoratori quella di salario, la crescente produttività del lavoro la forma di un crescente plusvalore?

 "Come in generale per ogni scienza storica e sociale, nell'ordinare le categorie economiche si deve sempre tener fermo che, come nella realtà così nella mente, il soggetto - qui la moderna società borghese - è già dato, e che le categorie perciò esprimono modi d'essere, determinazioni d'esistenza, spesso soltanto singoli lati di questa determinata società, di questo soggetto.[...]Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto."  (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica)


 Partendo dunque da un concreto presupposto sociologico, dalla struttura sociale di una data economia, l'economia politica deve anzitutto fornirci le caratteristiche di questa formazione socio-economica e i rapporti di produzione ad essa specifici. Marx descrive tali caratteri nella sua "teoria del feticismo della merce", che andrebbe perciò più correttamente definita una teoria generale dei rapporti di produzione dell'economia mercantile capitalistica.

Riassumendo, nella 'Sacra Famiglia' la contraddizione è posta tra l'elemento "umano" dell'economia e le forme materiali "alienate" ed è un'opposizione tra l'ideale e la realtà. Nella 'Miseria della filosofia' Marx giunge a cogliere la presenza dei rapporti sociali di produzione sotto l'apparenza reificata  delle cose. In 'Per la critica' viene colto l'elemento specifico dell'economia mercantile nel carattere reificato degli stessi rapporti di produzione. La descrizione specifica del fenomeno e la spiegazione della sua oggettiva necessità in una economia mercantile la troviamo nel I libro del 'Capitale' soprattutto in rapporto al valore di scambio, al denaro, al capitale. Nel III libro, infine, Marx ci da un'ulteriore anche se frammentaria trattazione della teoria, nel capitolo sulla 'Formula trinitaria'. Qui Marx sviluppa il concetto in rapporto alle categorie centrali dell'economia capitalistica, mettendo in particolare risalto la specifica "connessione" dei rapporti sociali di produzione con il processo di produzione materiale. 

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lunedì 1 giugno 2015

SULLA DEUTSCHE IDEOLOGIE* - Stefano Garroni

*Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole


 Mi pare plausibile che la decisione di Marx ed Engels non solo di non pubblicare, ma neppure di finire 'Die deutsche ideologie' possa spiegarsi esattamente in questo modo: partiti da una sostanziale assimilazione delle tesi neo-hegeliane a quelle dello stesso Hegel, nel corso della loro 'resa dei conti critica', Marx ed Engels penetrano meglio il pensiero di quest'ultimo e, quindi, comprendono l'improponibilità del loro assunto iniziale e la necessità, invece, di un ulteriore approfondimento e sviluppo della lezione hegeliana - che poi, sappiamo, si rivelerà fondamentale per la stesura stessa di 'Das Capital'. A ribadire le ambiguità della Deutsche ideologie, si ricordi come A. Schaff sottolineasse la citazione althusseriana di certi luoghi appunto di questo testo, a sostegno della polemica contro la filosofia/ideologia/metafisica, - polemica che, secondo Schaff, mostra il legame profondo tra marxismo strutturalistico e neo-positivismo. 

domenica 31 maggio 2015

Hegel. Lo spirito e la storia - Francesco Valentini



 Ricordiamo allora la genesi della lotta tra il signore e il servo. Qualcuno ha detto che questa lotta a morte è una lotta di puro prestigio. Veramente direi che il vero movente della lotta, hegelianamente, è più razionale: è cioè l'esigenza di una certezza che diventi verità. L'uomo si trova di fronte alle cose, ma si trova di fronte anche all'altro uomo. I due uomini lottano perché ciascuno di essi desidera che l'altro lo riconosca, gli sia sottoposto. Questa lotta è una lotta a morte, e a un certo punto uno dei due combattenti ha paura della morte e si sottomette e quindi riconosce il vincitore, riconosce l'altro. Abbiamo perciò da una parte il signore che si è emancipato dalle cose, si è emancipato dalla natura perché non ha avuto paura di morire, e dall'altra il servo, che invece è rimasto legato alla natura proprio perché ha temuto di morire. Abbiamo quindi una situazione ineguale: da una parte il signore, dall'altra parte il servo. A questo punto però Hegel sottolinea che il servo fa due esperienze essenziali che il signore non fa. La prima è l'esperienza della paura della morte: il servo trema - dice Hegel - "in tutte le sue fibre", cioè non ha una paura particolare, ma ha paura di morire, di non essere. Questa paura è liberatrice, nel senso che il servo sperimenta il suo poter non essere, e quindi sperimenta quella che per Hegel è una caratteristica dell'uomo, cioè la cosiddetta negatività: la possibilità di dire la propria negatività, e anche di imprimere la propria negatività e il proprio fare alle cose. L'altra esperienza che il servo fa e il signore no è quella del lavoro: il servo lavora per il signore e porta al signore i frutti del suo lavoro. Questa esperienza è anch'essa essenziale, perché il servo lavorando imprime se stesso all'oggetto: il suo lavoro traspone nell'oggetto la sua personalità. Così il lavoro - anche se servile, anzi, proprio perché servile -, ha una funzione liberatrice: l'uomo diventa uomo lavorando, formando l'oggetto e formando attraverso ciò se stesso.

Francesco Valentini

http://www.emsf.rai.it/dati/interviste/In_231.htm
http://www.emsf.rai.it/dati/interviste/In_232.htm#torna

Vedi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html

Hegel: il sistema - Antonio Gargano



Seconda parte:
https://www.youtube.com/watch?v=zGjkmgcb3YA

Parte finale:
https://www.youtube.com/watch?v=ZldJF3Ck44M

http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/hegel-il-sistema-antonio-gargano.html

Come ripensare oggi crisi e patologie sociali? - Rachel Jaeggi

 Decisiva per questa comprensione dell’appropriazione e dell’alienazione [estraniazione] è la loro fondazione in un concetto filosofico di lavoro, che per Marx rappresenta la vera e propria relazione paradigmatica dell’uomo con il mondo. Il lavoro è qui concepito come un’esteriorizzazione e un’oggettivazione delle forze essenziali dell’uomo. Detto molto schematicamente: le «forze essenziali umane» – la volontà, gli scopi, le capacità dell’uomo – diventano oggettive, si materializzano, solo in quanto sono «esteriorizzate» nel mondo attraverso il lavoro. La capacità di lavoro, concepita come un processo materiale di scambio con la natura, trasforma simultaneamente il mondo e l’essere umano. L’essere umano produce se stesso e il suo mondo in uno stesso atto. Nel produrre il suo mondo, egli produce se stesso, e viceversa. E nella misura in cui questo processo riesce, si appropria allo stesso tempo del mondo oggettivo e di se stesso. Egli si «riconosce» (si potrebbe tradurre: riconosce la sua volontà e la sua capacità) nelle sue attività e nei suoi prodotti e trova se stesso attraverso il rapporto con questi ultimi; egli si «realizza», quindi, in una relazione di appropriazione con il mondo come prodotto delle sue attività. In questo senso il lavoro – quello non alienato [non estraniato] – è per Marx una determinazione essenziale dell’uomo. Ciò che costituisce l’essere umano come tale è il fatto che, a differenza dell’animale, è capace di dare forma a se stesso e al suo mondo in modo consapevole e attraverso la cooperazione sociale e che non solo egli «realizza» se stesso in questo processo ma anche «produce se stesso», nel senso molto concreto che le sue capacità, i suoi sensi e i suoi bisogni si sviluppano nella misura in cui egli si rapporta al mondo, lavorando e dandogli forma.

Una vita non alienata, allora, non sarebbe una vita riconciliata, né felice, forse neanche la buona vita. Non essere alienato significherebbe, invece, un certo modo di condurre la propria vita e un certo modo di mettersi in rapporto con se stessi e con le condizioni in cui si vive e da cui si è determinati: significherebbe potersene appropriare. 

sabato 30 maggio 2015

LA BEKANNTSCHAFT DI ENGELS* - Stefano Garroni

*Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole

 "Le forme di pensiero, i punti di vista ed i principi fondamentali, che valgono nelle scienze e che sono l'ultimo punto d'arrivo di tutto il restante loro materiale, non sono tuttavia esclusivamente proprie delle scienze, ma piuttosto son comuni alla cultura di un'epoca e di un popolo. La cultura propriamente consiste negli scopi e nelle rappresentazioni generali, nell'insieme di certi poteri spirituali, che reggono la coscienza e la vita. La nostra coscienza possiede queste rappresentazioni, le lascia valere come sue ultime determinazioni, si svolge essa stessa entro le direttrici loro ma, tuttavia, non le sa, non fa di esse l'oggetto e l'interesse della sua ricerca".           (G.W.F. Hegel, Werke. Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie, III, Frankfurt/Main 1971)

 "Noi riteniamo... che le teorie scientifiche siano influenzate dal pensiero culturale e sociale circostante, e che a loro volta influiscano su di esso. Questo è quanto studi sociali di storia della scienza stanno dimostrando in misura sempre crescente. Non dobbiamo più pensare  al contributo apportato dalla scienza al bagaglio delle idee sociali come ad un processo unidirezionale; ancor meno siamo tenuti ad accettare questo contributo in virtù di una qualche certezza peculiare insita nelle teorie scientifiche. Piuttosto, l'influenza è reciproca; e nella nostra concezione riveduta della scienza vi è posto per considerare la teoria scientifica come un modo in cui una cultura esibisce la propria concezione generale del mondo e delle persone, in altre parole, come uno fra i molti insiemi di schemi sociali."             (M.A. Arbib - M.B. Hesse, La costruzione della realtà, Bologna 1992)

 "(Reichenbach) era convinto che lo sviluppo della scienza, per quanto autonomo nel porsi i propri problemi, si muova sempre parallelamente alle tendenze generali, intellettuali e sociali, che caratterizzano un certo periodo. Minima è la coscienza di questo parallelismo in coloro che massimamente determinano lo sviluppo della scienza... Reichenbach conclude che il parallelismo fra i risultati della scienza di un'epoca poggia su una legge sociologica indipendente, la quale esiste senza che la volontà dei pensatori interessati ne abbia consapevolezza."           (Maria Reichenbach, introduzione a H. Reichenbach, Relatività e conoscenza apriori, Bari 1984)

venerdì 29 maggio 2015

A proposito di certe tendenze della letteratura psicoanalitica* - Stefano Garroni

*Da "tracciati dialettici (note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa



 ...nel settecento, ... iniziava la polemica contro la modernità, non solo in nome della spiritualità dell'uomo, ma anche coll'attribuire alla scienza -"in quanto tale" - colpe, se così si può dire, che sono invece della nascente organizzazione capitalistica della vita e del lavoro.
In sostanza - e con tutte le modifiche del caso -, tra gli anni 60 e 70 del nostro secolo, questa critica spiritualistica della modernità si riproponeva, utilizzando - paradossalmente - Marx ed anche Freud per un rinnovato attacco alla scienza, condotto però sotto l'aspetto di una 'nuova' scientificità, che si diceva ricavabile, appunto, elaborando e generalizzando un nucleo contenuto nella psicoanalisi.
E' questo il mito, che - salutarmente - è caduto... 



giovedì 28 maggio 2015

Nietzsche - Antonio Gargano



F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125. L’uomo folle.

 Avete sentito di quel folle uomo che accese
una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare
incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano
raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È
forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro.
“0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” –
gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a
loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo
voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi
assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo
fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero
orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo
sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli?
Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da
tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come
attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è
fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo
accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre
seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della
divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta
morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti
gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad
oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo
sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali
giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza
di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno
degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno
dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di
quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle
uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano
e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in
frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio
tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo
cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono
vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono
tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate.
Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane
costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che
l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e
quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e
interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in
questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri
di Dio?”.
 (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1882, Mondadori, 1971) 

Seconda parte:


mercoledì 27 maggio 2015

TEMI TEORICI ATTUALI* - Stefano Garroni

*Da "Tracciati dialettici (Note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa

 Un luogo centrale dell'incontro fra nuovo Lumpenproletariat e residuali componenti comuniste (del centrismo comunista) è la costante oscillazione tra un 'punto di vista operaio' (ma, in realtà, non più che tradunionistico) e un punto di vista 'piccolo borghese' - radicale -: oscillazione che, com'è ovvio, si conclude - sempre - subordinando il primo al secondo, l'ottica 'operaia' a quella 'radicaldemocratica'. 

 Il tratto d'unione, ciò che consente questo su e giù continuo tra l'uno e l'altro punto di vista, è una bizzarra operazione ideologica (dunque non precisamente culturale), descrivibile in questi termini: 

 (a) La sostituzione effettiva della lotta di classe con l'opposizione fra democrazia e statalismo; 

 (b) l'identificazione della democrazia con la condizione, in cui l'individuo è libero di gestire la propria vita come vuole, a meno che non danneggi per qualche aspetto la vita altrui (in altre parole, la ripresa della classica distinzione inglese fra self-regarding action ed others-regarding action); 

 (c) mancando ormai tale concezione di forti ancoraggi obbiettivi nell'effettiva organizzazione e dinamica del modo di produzione e della formazione sociale, la rivendicazione democratica vien sostenuta da un'ideologia irrazionalistica, che fa perno su melmose categorie come 'vissuto', 'sentimento', 'diversità' ecc. 

 Il proprio di tale situazione ideologica è d'essere autenticamente 'delirante', nel senso di proporre un'immagine del mondo non 'rovesciata' ('a testa in giù', come capitava agli ideologi con cui Marx polemizzava), bensì 'sostitutiva': esattamente come un sogno sostituisce il reale. 

martedì 26 maggio 2015

Marx: Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner - Enrico Galavotti

 ...nello sfruttamento il valore di una merce non può mai essere un equivalente del lavoro impiegato per produrla. La merce contiene un plusvalore, cioè un valore supplementare che non viene pagato, proprio perché il salario è stabilito prima della produzione, sulla base di un certo tempo del lavoro. Finché c'è salario c'è sfruttamento del lavoro. E' vero che il salario si può contrattare, ma fino a un certo punto, poiché l'eccedenza di forza-lavoro (dovuta alla mancanza di proprietà privata), gioca a favore del capitalista, che può imporre un salario minimo di sopravvivenza (quel salario - si può aggiungere - che andrà oltre la soglia della sopravvivenza in seguito allo sfruttamento imperialistico della periferia coloniale dei paesi occidentali).

 "Il capitalista - scrive Marx - appena ha pagato all'operaio l'effettivo valore della sua forza-lavoro [qui Marx vuol dire "quello stabilito per contratto"], si appropria del plusvalore con pieno diritto... Nel valore, non 'costituito' dal lavoro del capitalista, c'è una parte di cui egli può appropriarsi 'legalmente', cioè senza violare il diritto corrispondente allo scambio delle merci".

 Questo significa che il capitalismo è basato sullo sdoppiamento tra realtà di fatto (la non proprietà dei mezzi produttivi da parte del lavoratore) e un'astrazione formale (la libertà giuridica universalmente riconosciuta, indipendentemente dalla propria origine sociale). 

http://www.homolaicus.com/teorici/marx/wagner.htm