*Da: http://www.retedeicomunisti.org/
Ho tenuto a lungo nel cassetto questo breve articolo, pensato per lettori non italiani – e già pubblicato in versione tedesca (in cooperazione con la rivista Jacobin) su LuXemburg (periodico della fondazione omonima), n. 2, 2016 – perché temevo che la concezione “stretta” di partito che qui propongo potesse influenzare negativamente il processo di costruzione di una vera forza socialista nel nostro paese.
Se è infatti vero che abbiamo bisogno anche di un partito fatto di elementi molto selezionati, è altrettanto vero, però, che tale selezione deve avvenire su una platea molto più vasta di quella che abbiamo a disposizione oggi. Oggi servono organismi politici capaci di avviare la crescita di una prospettiva socialista attraendo forze di buona consistenza numerica e di diversa estrazione sociale e culturale: solo sulla base di questa prima crescita si potrà operare, o verrà operata dai fatti, una selezione che estragga gli elementi più consapevoli e determinati. Considerato che organismi del genere stanno per fortuna iniziando a nascere, e con il passo giusto (penso alle pur diverse esperienze di Eurostop e della Confederazione di Liberazione Nazionale), mi sembra adesso che questo scritto posa avere una qualche utilità anche per la discussione italiana: per questo lo rendo pubblico, con minime modifiche rispetto alla precedente versione. Il suo titolo originale era “Machiavelli 2016” (anche se, per scelta redazionale, l’edizione tedesca reca un titolo diverso): il passaggio al 2017 non deriva solo da pedanteria cronologica ma anche dal fatto che, a leggere bene, oltre a parlarci della contemporaneità Machiavelli ha molto da dirci sugli indimenticabili eventi di 100 anni fa.
1. Il partito connettivo: perché?
Negli ultimi anni del ‘900 era ormai evidente a tutti la crisi del partito di massa come forma di organizzazione politica delle classi subalterne: una crisi che era irreversibile proprio perché era un frutto del successo di quel tipo di partito. Il partito di massa era infatti cresciuto inglobando efficacemente il maggior numero possibile di individui e di associazioni: ma la gestione dell’eterogeneità di questa folla di soggetti creava crescenti problemi di egemonia interna. Il partito di massa aveva raggiunto l’obiettivo di “portare le masse nello stato”, ma per farlo molti dei militanti si erano trasformati in amministratori ed i gruppi dirigenti erano divenuti parte dell’élite dello stato capitalistico, ceto di governo. Da qui la trasformazione da partito di integrazione di massa a partito professionale, e da questo a catch-all-party, partito “pigliatutto” o comunque interclassista: il risultato del parziale successo del partito delle classi subalterne era che le classi subalterne non avevano più un partito.
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
lunedì 17 aprile 2017
domenica 16 aprile 2017
SUL PARTITO* - Stefano Garroni
*passaggi
tratti dalla discussione sul: DOCUMENTO DI S. GARRONI: ‘LENIN, LA
RIFLESSIONE SUL PARTITO’. 12/99 - Qui l'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/playlist?list=PLAA23B4D87D6C9F26
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/03/partito-e-teoria-stefano garroni - https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/prefazione-di-stefano-garroni.html - https://ilcomunista23.blogspot.it/2010/09/sul-partito.html -
[...]
la méra registrazione del tipo di figure proletarie, è vista
prevalentemente a fini sindacali, non politici, perché ovviamente il
problema del partito – e questo lo vediamo appunto in Lenin in modo
chiarissimo -, è fondamentalmente il problema di uno strumento per
realizzare certi fini, e allora il problema di fondo è stabilire
quali sono i fini, quindi andare oltre la questione del partito
[...]la
problematica del partito, nascendo all’interno di una problematica
più vasta - che è l’analisi della situazione, le finalità del
partito, il modo di concepire la teoria marxista -, inevitabilmente
coinvolge la totalità del movimento marxista pensante, e quindi è
immediatamente – anche la posizione di Lenin -, il risultato di un
confronto critico, di uno scontro, di una pluralità di voci.
[...]E’
estremamente bello mi pare, come i grandi protagonisti del movimento
comunista usino l’uno verso l’altro un linguaggio estremamente
vigoroso, con accuse pesantissime. Lenin è – sappiamo – una
figura enorme e sacramentale per tutto il movimento comunista, ed
esistono documenti enormi di Trotskij, Bucharin, di Stalin stesso,
che dicono cose terribili contro Lenin e viceversa, proprio perché
c’è questo costume molto vigoroso e molto con i piedi per terra,
per cui l’analisi non si ricava deduttivamente e dogmaticamente
dalla teoria, ma si ricava dal confronto reale con i problemi e con
tutta la molteplicità dei problemi che al movimento effettivamente
si pongono.
[...]Ovviamente,
questo sottolineare che Lenin filosofo lo si ricava ragionando sul
suo far politica, come dire, è anche una presa di posizione
sull’attuale. Voi lo sapete che verso la filosofia c’è un
atteggiamento diffuso molto ambiguo. Solitamente si riserva un grande
rispetto alla filosofia, nel senso che tutti se ne fregano: “Il
filosofo è persona nobile che si occupa dei problemi dello spirito”,
cioè è uno stronzo. Se invece andiamo a vedere in concreto, allora
ci rendiamo conto che per esempio l’uomo politico Lenin, intanto fa
l’uomo politico, in quanto non solo interviene su situazioni
determinate proponendo soluzioni determinate, ma in quanto implica in
questo una certa teoria, una filosofia, e allora scopriamo come
l’intreccio filosofia-politica, stia nell’agire politico stesso.
Donde l’indicazione che noi dobbiamo fare molta attenzione a noi
stessi quando facciamo politica, nel senso che nel far politica,
volendo o non volendo, portiamo avanti una teoria, e quando portiamo
avanti una teoria non sapendolo, o non volendolo, stiamo sicuramente
portando avanti la teoria peggiore, cioè quella non critica, non
consapevole, non ragionata, e quindi vale la pena di nobilitare fino
in fondo l’azione politica rendendoci conto che è l’applicazione
di una teoria di cui dobbiamo prendere coscienza. Il che ovviamente
non significa – come dire – né riproporre il mito del filosofo
che fa politica o del politico che è ipso facto del filosofo.
Ovviamente il filosofo professionale sarà una cosa diversa dal
politico, però rendiamoci conto che né il filosofo professionale
può esser sé stesso senza fare anche lui le ricerche politiche di
cui deve essere consapevole, né il politico può esser sé stesso
senza fare delle scelte teoriche di cui è bene che sia consapevole.
sabato 15 aprile 2017
ORDOLIBERISMO E EURO: LA LUNGA MARCIA DELLA RESTAURAZIONE*- Luciano Barra Caracciolo
*Da: https://scenarieconomici.it/
1)
ORDOLIBERISMO
Per
parlare dell’ordoliberismo (o
“ordoliberalismo”:
la distinzione, fatta in italiano, deriva dalla non conoscenza della
lingua inglese, dove non esiste la parola liberism,
ma solo quella “liberalism”,
che indica indistintamente una dottrina economica e la sua
inscindibile ideologia politica) prendiamo spunto da questa citazione
di una frase di Giuliano Amato in un’intervista rilasciata in
inglese.
La
traduciamo così non ci sono equivoci: “Non
penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo
lento ed efficace – che solleva gli Stati nazionali dall’ansia
mentre vengono privati del potere–
con grandi balzi istituzionali…Perciò preferisco andare
lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando
brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è
il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni
europee...”.
“Ordoliberismo:
veste €uro-attuale del neo-liberismo che, imperniata sull’obiettivo
del lavoro-merce, prende atto dell’ostacolo delle Costituzioni
sociali contemporanee (fondate sul lavoro), ed agisce divenendo
“ordinamentale”, cioè impadronendosi delle istituzioni
democratiche per portarle gradualmente ad agire in senso invertito
rispetto alle previsioni costituzionali.”
Questa vicenda
di gradualità nell’impossessamento delle istituzioni democratiche,
per invertirne la direzione di intervento, cioè per
portarle a tutelare e realizzare interessi di segno opposto a
quello per
cui vennero concepite dalle Costituzioni nate
dalla Resistena al nazifascimo,
ha una avuto una fase operativa che ne ha consentito l’attuazione
tecnocratica, secondo una precisa ideologia
economica di tipo restaurativo, come fine ultimo.
2)
LE RADICI RESTAURATRICI
venerdì 14 aprile 2017
60 anni di UE, niente da festeggiare*- Luciano Vasapollo**
*Da: noirestiamo.org
**Professore di Politica economica internazionale alla Sapienza di Roma e dirigente della Rete dei Comunisti.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/autogoverno-e-tirannide-alessandro_12.html
Per Vasapollo, già la crisi del 1929 è una grossa crisi di accumulazione da cui il capitalismo esce da un lato con un nuovo modello produttivo – il fordismo – dall’altro ridefinendo il ruolo dello Stato, conferendogli una presenza molto più attiva in termini di spesa pubblica che, come Vasapollo ha sottolineato, di per sé non significa necessariamente spesa sociale, e anzi ha assunto la dimensione prevalente di spesa in armamenti. In effetti, l’uscita da quella crisi è stata storicamente possibile solo con la seconda guerra mondiale e ha visto a quel punto gli Stati Uniti, il cui territorio è rimasto intatto da bombardamenti e distruzioni, imporsi come potenza imperialistica egemone a livello globale, seppur in coesistenza con il blocco socialista a guida sovietica. In questa fase gli USA, tramite ingenti finanziamenti economici, hanno di fatto legato a sé la ricostruzione economica e i destini dell’Europa e del Giappone.
Germania e Giappone hanno sviluppato successivamente una forma particolare di capitalismo, ciò che Vasapollo definisce modello renano-nipponico: alti salari, alta produttività e buon livello di stato sociale in cambio di un livello molto basso di conflittualità. Gradualmente – mentre l’egemonia economica globale statunitense iniziava a incrinarsi, e il 1971 sanciva la fine degli accordi di Bretton Woods e della convertibilità diretta oro-dollaro – questi paesi sono stati in grado di sviluppare un proprio modello di accumulazione, rendendosi gradualmente indipendenti dagli Stati Uniti e anzi diventando suoi competitori.
L’Unione Europea nasce poco dopo la fine della seconda guerra mondiale – i primi passi vanno rintracciati nella Comunità del carbone e dell’acciaio – e da subito rappresenta un progetto di costruzione di un fronte europeo in funzione antisovietica. Vasapollo ha illustrato come ogni passaggio di questo processo di integrazione abbia seguito un importante avvenimento a livello di politica internazionale: il trattato di Roma del 1957 segue i fatti di Ungheria, l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna è del 1973 e segue la fine di Bretton Woods.
Gradualmente, la Germania imprime la sua impronta indelebile sul processo di integrazione europeo: in particolare, data la dimensione fortemente esportatrice della sua economia, essa incoraggia la deindustrializzazione progressiva dei paesi del Sud e dell’Est Europa, in un processo che naturalmente manifesta un fondamentale salto di qualità con la fine del socialismo reale e la riunificazione della Germania, fatti preceduti dall’importante Atto unico europeo del 1986, con cui si sancisce la nascita del mercato unico.
I trattati europei firmati a partire da quello di Maastricht rappresentano la cornice che dà forma al progetto a guida franco-tedesca (dove la Francia è particolarmente importante in quanto braccio militare, mentre la Germania è la potenza economica preponderante), progetto incentrato fin da subito – e non potrebbe essere altrimenti – sulla costruzione di un ruolo da protagonista nella competizione globale, in crescente divaricazione con gli Stati Uniti. Da qui inizia la costruzione di quella borghesia transnazionale europea, di cui la borghesia tedesca rappresenta la parte più avanzata ma certo non l’unica, si pensi ai settori di borghesia italiana che hanno interesse alla costruzione di un polo europeo forte e autonomo e che fanno riferimento al Partito democratico.
**Professore di Politica economica internazionale alla Sapienza di Roma e dirigente della Rete dei Comunisti.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/autogoverno-e-tirannide-alessandro_12.html
Per Vasapollo, già la crisi del 1929 è una grossa crisi di accumulazione da cui il capitalismo esce da un lato con un nuovo modello produttivo – il fordismo – dall’altro ridefinendo il ruolo dello Stato, conferendogli una presenza molto più attiva in termini di spesa pubblica che, come Vasapollo ha sottolineato, di per sé non significa necessariamente spesa sociale, e anzi ha assunto la dimensione prevalente di spesa in armamenti. In effetti, l’uscita da quella crisi è stata storicamente possibile solo con la seconda guerra mondiale e ha visto a quel punto gli Stati Uniti, il cui territorio è rimasto intatto da bombardamenti e distruzioni, imporsi come potenza imperialistica egemone a livello globale, seppur in coesistenza con il blocco socialista a guida sovietica. In questa fase gli USA, tramite ingenti finanziamenti economici, hanno di fatto legato a sé la ricostruzione economica e i destini dell’Europa e del Giappone.
Germania e Giappone hanno sviluppato successivamente una forma particolare di capitalismo, ciò che Vasapollo definisce modello renano-nipponico: alti salari, alta produttività e buon livello di stato sociale in cambio di un livello molto basso di conflittualità. Gradualmente – mentre l’egemonia economica globale statunitense iniziava a incrinarsi, e il 1971 sanciva la fine degli accordi di Bretton Woods e della convertibilità diretta oro-dollaro – questi paesi sono stati in grado di sviluppare un proprio modello di accumulazione, rendendosi gradualmente indipendenti dagli Stati Uniti e anzi diventando suoi competitori.
L’Unione Europea nasce poco dopo la fine della seconda guerra mondiale – i primi passi vanno rintracciati nella Comunità del carbone e dell’acciaio – e da subito rappresenta un progetto di costruzione di un fronte europeo in funzione antisovietica. Vasapollo ha illustrato come ogni passaggio di questo processo di integrazione abbia seguito un importante avvenimento a livello di politica internazionale: il trattato di Roma del 1957 segue i fatti di Ungheria, l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna è del 1973 e segue la fine di Bretton Woods.
Gradualmente, la Germania imprime la sua impronta indelebile sul processo di integrazione europeo: in particolare, data la dimensione fortemente esportatrice della sua economia, essa incoraggia la deindustrializzazione progressiva dei paesi del Sud e dell’Est Europa, in un processo che naturalmente manifesta un fondamentale salto di qualità con la fine del socialismo reale e la riunificazione della Germania, fatti preceduti dall’importante Atto unico europeo del 1986, con cui si sancisce la nascita del mercato unico.
I trattati europei firmati a partire da quello di Maastricht rappresentano la cornice che dà forma al progetto a guida franco-tedesca (dove la Francia è particolarmente importante in quanto braccio militare, mentre la Germania è la potenza economica preponderante), progetto incentrato fin da subito – e non potrebbe essere altrimenti – sulla costruzione di un ruolo da protagonista nella competizione globale, in crescente divaricazione con gli Stati Uniti. Da qui inizia la costruzione di quella borghesia transnazionale europea, di cui la borghesia tedesca rappresenta la parte più avanzata ma certo non l’unica, si pensi ai settori di borghesia italiana che hanno interesse alla costruzione di un polo europeo forte e autonomo e che fanno riferimento al Partito democratico.
giovedì 13 aprile 2017
LOCKE E DINTORNI - Stefano Garroni
*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione: Risposta a un testo di Eugenio Di Rienzo, Dal filosofo allintellettuale politico (11/99)
Qui l'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/watch?v=nCSYIPwWd9s&list=PL2FEDB228D4F2E69B&index=1
[...]buona parte della tematica di Locke è tematica in realtà pre-borghese.
[...]Questo senso del valore che è dato dal lavoro che io ho impiegato nel trasformare la materia, questo è un motivo medievale, è un motivo che trovi in Tommaso d’Aquino per esempio, e di cui Tommaso d’Aquino si serve quando scrive contro l’usura. Cioè, il giusto profitto, è quello che io ricavo dal lavoro che esercito su una materia. Ovviamente questo è in un quadro in cui la dimensione economica è ancora vista dentro una dimensione morale: non è ancora avvenuto quel fenomeno capitalistico di emancipazione dell’economico, e allora da questo punto di vista c’è un altro collegamento con il testo di Marx, proprio quando Marx sottolinea questo emergere dell’economico nella sua autonomia, nel volgersi della società capitalistica.
[...]Ma dal testo viene fuori anche un altro elemento a cui accennavamo in un’altra occasione, e cioè che succede qualche cosa di importante quando il capitalismo, da prevalentemente commerciale, diventa prevalentemente industriale, qualcosa di importante sia a livello della teoria, sia a livello, ovviamente, della vita economica quotidiana, cioè l’emergere sempre di più dell’interesse privato e la rottura della comunità. Questo ha ripercussioni a livello teorico, come anche per esempio ha ripercussioni importanti a livello religioso, cioè processi interni in particolare al cristianesimo protestante, in cui viene più o meno accentuato l’elemento comunitario individuale del rapporto con il testo sacro. Questo pone anche una relazione importantissima con un fenomeno che Marx chiama il feticismo della merce.
[...]Chiamiamo feticismo quella situazione per cui io attribuisco un potere alla cosa, la cosa è dotata di una sorta di potere magico che agisce su di me. Per esempio gli economisti del '700 affrontano sotto questo aspetto il problema del valore: nell’opinione comune si dice che le cose hanno valore, ma questa è, in sostanza, una mentalità feticistica, è quella mentalità magica che attribuisce valore, potere, alle cose.
[...]In realtà, la lotta contro questo mondo magico, incantato, deve portarci, a livello economico, per esempio a concepire, a renderci conto che il valore delle cose è una decisione dell’uomo, il valore delle cose è l’apprezzamento che l’uomo da alla cosa, quindi tu vedi proprio il meccanismo analogo alla lotta del protestante contro il cattolico: cioè non ha valore in sé il detto del dio. Il problema è quello di cogliere invece la consonanza con il soggetto, quindi emerge il soggetto come elemento giudicante: la fonte del valore è il soggetto, anche del valore economico. E’ interessante che la critica al feticismo in questo senso la trovi in Marx, con un esito diverso da questa soggettivizzazione.
Qui l'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/watch?v=nCSYIPwWd9s&list=PL2FEDB228D4F2E69B&index=1
[...]buona parte della tematica di Locke è tematica in realtà pre-borghese.
[...]Questo senso del valore che è dato dal lavoro che io ho impiegato nel trasformare la materia, questo è un motivo medievale, è un motivo che trovi in Tommaso d’Aquino per esempio, e di cui Tommaso d’Aquino si serve quando scrive contro l’usura. Cioè, il giusto profitto, è quello che io ricavo dal lavoro che esercito su una materia. Ovviamente questo è in un quadro in cui la dimensione economica è ancora vista dentro una dimensione morale: non è ancora avvenuto quel fenomeno capitalistico di emancipazione dell’economico, e allora da questo punto di vista c’è un altro collegamento con il testo di Marx, proprio quando Marx sottolinea questo emergere dell’economico nella sua autonomia, nel volgersi della società capitalistica.
[...]Ma dal testo viene fuori anche un altro elemento a cui accennavamo in un’altra occasione, e cioè che succede qualche cosa di importante quando il capitalismo, da prevalentemente commerciale, diventa prevalentemente industriale, qualcosa di importante sia a livello della teoria, sia a livello, ovviamente, della vita economica quotidiana, cioè l’emergere sempre di più dell’interesse privato e la rottura della comunità. Questo ha ripercussioni a livello teorico, come anche per esempio ha ripercussioni importanti a livello religioso, cioè processi interni in particolare al cristianesimo protestante, in cui viene più o meno accentuato l’elemento comunitario individuale del rapporto con il testo sacro. Questo pone anche una relazione importantissima con un fenomeno che Marx chiama il feticismo della merce.
[...]Chiamiamo feticismo quella situazione per cui io attribuisco un potere alla cosa, la cosa è dotata di una sorta di potere magico che agisce su di me. Per esempio gli economisti del '700 affrontano sotto questo aspetto il problema del valore: nell’opinione comune si dice che le cose hanno valore, ma questa è, in sostanza, una mentalità feticistica, è quella mentalità magica che attribuisce valore, potere, alle cose.
[...]In realtà, la lotta contro questo mondo magico, incantato, deve portarci, a livello economico, per esempio a concepire, a renderci conto che il valore delle cose è una decisione dell’uomo, il valore delle cose è l’apprezzamento che l’uomo da alla cosa, quindi tu vedi proprio il meccanismo analogo alla lotta del protestante contro il cattolico: cioè non ha valore in sé il detto del dio. Il problema è quello di cogliere invece la consonanza con il soggetto, quindi emerge il soggetto come elemento giudicante: la fonte del valore è il soggetto, anche del valore economico. E’ interessante che la critica al feticismo in questo senso la trovi in Marx, con un esito diverso da questa soggettivizzazione.
mercoledì 12 aprile 2017
AUTOGOVERNO E TIRANNIDE*- Alessandro Mazzone
*Da: La contraddizione. 145 – ott.dic.13
Questo
articolo è stato pubblicato nel 1999 sul no. 73 della rivista. In
questa occasione, per ragioni editoriali, pur riproponendo
integralmente il corpo del testo, abbiamo ridotto il numero delle
note a margine, escludendo quelle di carattere bibliografico per cui
rimandiamo alla precedente versione presente anche sul sito web della
rivista.
L’idea dello stato:
un’analisi del potere presente
1. Perfino un liberale
come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’attacco
neoliberale ad ogni forma di socialismo è ormai, e sostanzialmente,
un attacco alla democrazia tout court. Ma per chi ritiene
che gli ideologemi neoliberali siano piuttosto figure di
superficie di un processo, in cui il capitalismo transnazionale
tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di
democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli
Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il
nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante quattro
generazioni) – conviene riprendere la questione alla radice.
Si tratta di domandarsi a
quali condizioni sia pensabile, nel mondo attuale,
democrazia, cioè autogoverno di una comunità umana, in cui
gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche
attraverso regole e istituzioni, il miglior sviluppo
dei suoi membri. E si vede allora che la questione della democrazia
è più ampia di quella delle istituzioni, o anche della
configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi istituzionali
di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei
fini dello Stato, innanzitutto dei “fini” tout court
(“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in
apertura dell’Etica Nicomachea), e di come questi fini
possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma
dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale.
Questo, naturalmente, è il problema della politica da
Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui
anche quella liberale è, certo, un elemento – ma è solo per
strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto,
decretando che prima di Locke e Hobbes c’è il buio, che la nozione
di comunità umana e del suo rapporto con la natura
(cioè con la non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra
le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni,
“individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula
sæculorum.
Chiamo Corpus collectivum
hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione
(astratta!) di una qualsiasi comunità umana, capace di riprodursi
bioticamente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè
dotata di un suo rapporto biotopico tipico con l’ambiente
naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha,
innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le
modalità o forme di moto della produzione e riproduzione della
comunità stessa, che variano nel tempo, e che – oggi – tendono a
inglobare non solo la produzione e riproduzione di individui
umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di
modalità d’azione storicamente definite) – ma le determinanti
biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto
dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le
forme di vita della comunità, ma solo nella misura in cui la
comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa,
ossia – al limite – non ha niente fuori di sé.1
Ma – si dirà giustamente – quante cose una comunità umana
ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare, inclusa la
sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo
“materia” dell’autogoverno, e abbiamo che materia
dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei
fini, che gli uomini si pongono, come materia, ossia
non-volontà, non-ragione, non-posizione e realizzazione di
fini, ma appunto materia e condizione di quelle. La “materia”
non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini
2,
perché senza questi fini non ci sarebbero né condizioni né
mezzi della loro realizzazione, e anzi la comunità
sarebbe un insieme di automi.3
martedì 11 aprile 2017
Intelligenza artificiale: Frankestein o macchina da soldi del capitalismo*- James Petras
* petras.lahaine.org - Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/il-ruolo-del-progresso-tecnologico-in.html
Introduzione
Lo Special Report del Financial Times (16/02/2017) ha pubblicato un inserto di quattro pagine sugli usi e possibili pericoli dell'intelligenza artificiale (AI). Diversamente da quelli dei consueti giornalisti spazzatura che servono come megafoni di Washington negli editoriali e nei pezzi sulla politica, quello dello Special Report è un saggio ponderato che solleva questioni importanti, anche se in modo fondamentalmente errato.
L'autore, Richard Walters, passa in rassegna i diversi e maggiori problemi che accompagnano la questione dell'intelligenza artificiale: dalle ansie del pubblico alle diseguaglianze ed alla precarietà del lavoro. Walters supplica quelli che lui chiama i "controllori dei sistemi indipendenti" di prestare attenzione alle frizioni politiche o di confrontarsi con la disgregazione sociale. Gli esperti ed i giornalisti che dissertano sulla distruzione a lungo termine e su larga scala della classe lavoratrice e del pubblico impiego affermano che l'intelligenza artificiale può essere perfezionata attraverso l'amministrazione e l'ingegneria sociale.
Questo saggio procederà a sollevare argomenti fondamentali, questioni che conducono ad un approccio alternativo all'intelligenza artificiale che riposa sull'analisi di classe. Rifiuteremo lo spettro di un'intelligenza artificiale come sorta di Frankenstein, identificando le forze sociali che finanziano progettano e dirigono l'intelligenza artificiale e che traggono beneficio dal suo negativo impatto sociale.
Questioni fondamentali: demistificare l'intelligenza artificiale
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/il-ruolo-del-progresso-tecnologico-in.html
Introduzione
Lo Special Report del Financial Times (16/02/2017) ha pubblicato un inserto di quattro pagine sugli usi e possibili pericoli dell'intelligenza artificiale (AI). Diversamente da quelli dei consueti giornalisti spazzatura che servono come megafoni di Washington negli editoriali e nei pezzi sulla politica, quello dello Special Report è un saggio ponderato che solleva questioni importanti, anche se in modo fondamentalmente errato.
L'autore, Richard Walters, passa in rassegna i diversi e maggiori problemi che accompagnano la questione dell'intelligenza artificiale: dalle ansie del pubblico alle diseguaglianze ed alla precarietà del lavoro. Walters supplica quelli che lui chiama i "controllori dei sistemi indipendenti" di prestare attenzione alle frizioni politiche o di confrontarsi con la disgregazione sociale. Gli esperti ed i giornalisti che dissertano sulla distruzione a lungo termine e su larga scala della classe lavoratrice e del pubblico impiego affermano che l'intelligenza artificiale può essere perfezionata attraverso l'amministrazione e l'ingegneria sociale.
Questo saggio procederà a sollevare argomenti fondamentali, questioni che conducono ad un approccio alternativo all'intelligenza artificiale che riposa sull'analisi di classe. Rifiuteremo lo spettro di un'intelligenza artificiale come sorta di Frankenstein, identificando le forze sociali che finanziano progettano e dirigono l'intelligenza artificiale e che traggono beneficio dal suo negativo impatto sociale.
Questioni fondamentali: demistificare l'intelligenza artificiale
lunedì 10 aprile 2017
Avanti! Avanti!*- Karl Marx
*Da: Lavoro salariato e capitale, 1847. Pubblicato per la prima volta sulla Neue Rheinische Zeitung, a partire dal 4 aprile 1849.
(qui tutto il testo: https://www.marxists.org/italiano/)
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/che-cosa-e-il-salario-come-viene-esso.html#more
Colonia, 10 aprile.
L’accrescimento del capitale produttivo e l’aumento del salario sono però davvero così inseparabilmente uniti come pretendono gli economisti borghesi? Non dobbiamo creder loro sulla parola. Non dobbiamo nemmeno creder loro che, quanto più florido è il capitale, tanto meglio viene ingrassato il suo schiavo. La borghesia è troppo intelligente, essa sa fare i conti troppo bene, per condividere i pregiudizi dei signori feudali, i quali si vantavano dello sfarzo della loro servitù. Le condizioni di esistenza della borghesia la costringono a calcolare.
Dobbiamo quindi esaminare più da vicino la questione seguente:
Quale influenza esercita sul salario l’accrescimento del capitale produttivo?
Se il capitale produttivo della società borghese si accresce nel suo insieme, ha luogo una accumulazione di lavoro più vasta. I capitalisti crescono di numero, i loro capitali crescono di dimensione. L’aumento del numero dei capitali aumenta la concorrenza fra i capitalisti. La crescente dimensione dei capitali fornisce i mezzi per portare sul campo di battaglia dell’industria eserciti sempre più potenti di operai, con strumenti di guerra sempre più giganteschi.
Un capitalista può cacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale solamente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più a buon mercato senza rovinarsi, deve produrre più a buon mercato, cioè aumentare quanto più è possibile la forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro viene però aumentata, innanzi tutto, con una maggiore divisione del lavoro, con un’introduzione generale e un perfezionamento costante del macchinario. Quanto più grande è l’esercito degli operai fra i quali il lavoro viene diviso, quanto più gigantesca è la scala in cui vengono introdotte le macchine, tanto più diminuiscono proporzionalmente i costi di produzione, tanto più fruttuoso diventa il lavoro. Sorge quindi una gara generale fra i capitalisti per accrescere la divisione del lavoro e il macchinario e per sfruttarli sulla scala più grande che sia possibile [78].
domenica 9 aprile 2017
sabato 8 aprile 2017
Cinque risposte su marxismo ed ecologia*- John Bellamy Foster**,
*Da: http://climateandcapitalism. https://traduzionimarxiste.wordpress.com/
**John Bellamy Foster è direttore della monthlyreview. e docente di sociologia presso l’Università dell’Oregon.
Il marxismo può rafforzare la nostra comprensione della crisi ecologica? L’autore di Marx’s Ecology, John Bellamy Foster, replica alle critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo.
Introduzione:
Il sito indiano Ecologize ha recentemente pubblicato la prefazione scritta da John Bellamy Foster al libro di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Nel commentare l’articolo di Foster, il giornalista ed attivista Saral Sarkar, il quale definisce il proprio punto di vista come eco-socialista, solleva alcuni interrogativi che sfidano l’utilità dell’analisi marxista ai fini della comprensione della crisi ecologica globale. La replica di Foster è stata pubblicata da Ecologize il 26 marzo.
Lo scambio, qui riproposto, affronta importanti questioni circa le prospettive marxiste sulla crisi ecologica globale.
ALCUNE DOMANDE PER JOHN BELLAMY FOSTER
di Saral Sarkar
Il professor Bellamy Foster è un rinomato studioso. E se il suo lavoro ha anche lo scopo di servire le cause nelle quali è impegnato, di certo vorrà rispondere alle seguenti domande/commenti di un lettore di quest’articolo:
Quale utilità può avere sostituire la nozione comunemente usata e ben comprensibile di “grande crisi ecologica” con quella marxiana, poco conosciuta e di difficile comprensione, di “frattura metabolica nel rapporto tra l’uomo e la terra”?
**John Bellamy Foster è direttore della monthlyreview. e docente di sociologia presso l’Università dell’Oregon.
Il marxismo può rafforzare la nostra comprensione della crisi ecologica? L’autore di Marx’s Ecology, John Bellamy Foster, replica alle critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo.
Introduzione:
Il sito indiano Ecologize ha recentemente pubblicato la prefazione scritta da John Bellamy Foster al libro di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Nel commentare l’articolo di Foster, il giornalista ed attivista Saral Sarkar, il quale definisce il proprio punto di vista come eco-socialista, solleva alcuni interrogativi che sfidano l’utilità dell’analisi marxista ai fini della comprensione della crisi ecologica globale. La replica di Foster è stata pubblicata da Ecologize il 26 marzo.
Lo scambio, qui riproposto, affronta importanti questioni circa le prospettive marxiste sulla crisi ecologica globale.
ALCUNE DOMANDE PER JOHN BELLAMY FOSTER
di Saral Sarkar
Il professor Bellamy Foster è un rinomato studioso. E se il suo lavoro ha anche lo scopo di servire le cause nelle quali è impegnato, di certo vorrà rispondere alle seguenti domande/commenti di un lettore di quest’articolo:
Quale utilità può avere sostituire la nozione comunemente usata e ben comprensibile di “grande crisi ecologica” con quella marxiana, poco conosciuta e di difficile comprensione, di “frattura metabolica nel rapporto tra l’uomo e la terra”?
venerdì 7 aprile 2017
Esiste in Marx una teoria generale e unitaria della crisi?*- Ascanio Bernardeschi
*Da: http://dialetticaefilosofia.it/
2. La possibilità
astratta della crisi
Ai tempi di Marx,
secondo l’ortodossia degli economisti borghesi la crisi non doveva
esistere. Non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi,
grandi economisti classici.
Secondo Adam Smith, per esempio, i
meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere
all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del
mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio,
dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale
l’istruzione, la difesa ecc. astenendosi dall’interferire
nell’economia.
David Ricardo, da parte sua, aderì alla cosiddetta
legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di
sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti
crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni
settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al
raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta7 .
Certamente
anche a quei tempi non mancarono gli eretici più dubbiosi, quali
Sismondi e Malthus. Ma si trattò appunto di eresie contro l’egemonia
schiacciante dei negazionisti. Figuriamoci poi cosa poterono dire gli
apologeti. Qualcuno ebbe modo perfino di studiare le macchie solari8
, tanto per escludere che le crisi potessero essere causate da
contraddizioni insite al modo di produzione capitalistico.
Insomma la crisi o
non esiste, o è il prodotto di cause “esogene”, o frutto di
comportamenti di operatori irrazionali, o troppo egoisti
(capita a volte di esagerare), oppure è il risultato di politiche
sbagliate. Comunque si tratta di uno spiacevole inconveniente, di un
evento patologico estraneo alla fisiologia del capitalismo.
Marx ha confutato la
legge degli sbocchi, partendo dall’incipit del Capitale:
il duplice carattere della merce9 . Questa «cellula elementare» del
capitalismo è già in sé una contraddizione in quanto è sia un
bene utile a soddisfare bisogni umani che una depositaria di
ricchezza sociale astratta, di lavoro umano sociale astratto
occorrente per la sua produzione. Per il produttore la sua utilità è
solo quella di essere un potenziale involucro di ricchezza sociale ma
non ha un valore d’uso immediato, altrimenti non la scambierebbe; è
un valore di scambio potenziale che per realizzarsi come effettivo
valore di scambio deve incontrare nel mercato qualcuno che le
consideri un buon valore d’uso.
Con l’introduzione
del denaro il valore si polarizza in quest’ultimo, più
appropriato, contenitore, la cui utilità sta solo nel conferire al
possessore il potere di acquistare merci utili, mentre al polo
opposto, specularmente, le merci sono valori d’uso che possono
realizzare il loro valore solo scambiandosi con denaro.
Il denaro separa in
due atti distinti la metamorfosi della merce (M-D-M’) a differenza
di quanto avviene con lo scambio immediato o baratto (M-M’). Nel
baratto colui che vende è nello stesso istante colui che acquista
l’altra merce e viceversa, vendita e acquisto coincidono, per cui
in questo contesto vale la legge degli sbocchi. Se invece lo scambio
viene spezzato in due fasi (vendita e acquisto) esiste la possibilità
che, dopo la prima, il venditore preferisca non spendere subito il
suo denaro, ma tesaurizzarlo o spenderlo in altri mercati,
togliendolo quindi dalla circolazione senza mettere in atto la
domanda corrispondente. In tal modo ci sarà da qualche parte un
potenziale venditore che non troverà il suo acquirente, che non
riuscirà a trasformare la sua merce in denaro10.
mercoledì 5 aprile 2017
martedì 4 aprile 2017
Storia dell'Unione Europea - Emiliano Brancaccio
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/su-europa-e-globalizzazione-cristina-re.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/perche-il-diem-2025-di-varoufakis-sta.html
Storia dell'Unione Europea - Romano Prodi: https://www.youtube.com/watch?v=1jNeIn8i-p4
https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/perche-il-diem-2025-di-varoufakis-sta.html
Storia dell'Unione Europea - Romano Prodi: https://www.youtube.com/watch?v=1jNeIn8i-p4
lunedì 3 aprile 2017
POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE*- Giovanna Vertova**
*Etica & Politica / Ethics & Politics, XIX, 2017, 1. http://www2.units.it/etica/
**Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi Università di Bergamo.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/un-reddito-garantito-ci-vuole-ma-quale.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/salario-minimo-garantito-reddito-di.html
Quesito 1.
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignitàpugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni?
G. Vertova:
Trovo abbastanza bizzarro che la prima domanda di un dibattito sul reddito di base (RdB) non riguardi la validità della proposta, quanto il ritardo nella discussione teorica e nella pratica politica italiana. Lo trovo ancora più bizzarro quando si invita al dibatto una persona che, in più di una occasione, ha sollevato critiche, sia teoriche che politiche, al RdB1 . Forse sarebbe stato intellettualmente più stimolante chiedere ai partecipanti una analisi di tale proposta. Mi prendo, quindi, la libertà di riassumere, molto velocemente, le mie perplessità, prima di rispondere.
Prima di tutto è necessario chiarire di cosa si sta parlando, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato a un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro)2 . Questa nuova forma di welfare viene presentata dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
**Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi Università di Bergamo.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/un-reddito-garantito-ci-vuole-ma-quale.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/salario-minimo-garantito-reddito-di.html
Quesito 1.
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignitàpugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni?
G. Vertova:
Trovo abbastanza bizzarro che la prima domanda di un dibattito sul reddito di base (RdB) non riguardi la validità della proposta, quanto il ritardo nella discussione teorica e nella pratica politica italiana. Lo trovo ancora più bizzarro quando si invita al dibatto una persona che, in più di una occasione, ha sollevato critiche, sia teoriche che politiche, al RdB1 . Forse sarebbe stato intellettualmente più stimolante chiedere ai partecipanti una analisi di tale proposta. Mi prendo, quindi, la libertà di riassumere, molto velocemente, le mie perplessità, prima di rispondere.
Prima di tutto è necessario chiarire di cosa si sta parlando, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato a un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro)2 . Questa nuova forma di welfare viene presentata dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
domenica 2 aprile 2017
STACANOVISMO E CONTRORIFORME NEL CAPITALISMO NEOLIBERISTA*- Paolo Massucci**
*Da: http://contropiano.org/
**collettivo di formazione marxista Stefano Garroni
**collettivo di formazione marxista Stefano Garroni
Analisi
dei messaggi ideologici nella presente fase del capitalismo
In
una edificante serata del popolare festival di San Remo di quest’anno
abbiamo avuto il piacere di assistere alla presentazione di una
“nuova” figura nel panorama ideologico neoliberista: quella dello
Stachanov nostrano. Si tratta di un impiegato pubblico modello, il
quale, in quarant’anni di lavoro, non ha fatto neppure un giorno di
malattia ed inoltre ha accumulato ben 239 giorni di ferie non godute.
Ci si potrebbe chiedere -se fosse cosa seria- se la ricerca medica
stia studiando il caso, per scoprire i segreti della “salute
miracolosa”. Invece, riguardo ai 239 giorni di ferie non godute -se
fosse vero-, saremmo curiosi di sentire anche il parere della moglie,
se mai ne avesse.
E’
notizia di questi stessi giorni che Boeri, presidente dell’INPS, il
quale si è distinto per il tentativo -ad oggi fallito- di
sacrificare la pensione di reversibilità per i superstiti,
intenderebbe intensificare i controlli medico-fiscali per i
dipendenti pubblici assenti per malattia. E, con l’occasione,
richiederebbe di aumentare, da quattro a sette, le ore giornaliere di
reperibilità per le visite di controllo del medico fiscale per i
dipendenti in malattia del settore privato, uniformando così la
durata della reperibilità dei dipendenti privati a quella dei
dipendenti pubblici. Per questi ultimi infatti detta durata era già
stata portata da quattro a sette ore dal ministro Brunetta del
governo Berlusconi.
Si
tratta, secondo Boeri, la classe dirigente e i giornalisti venditori
al dettaglio dell’ideologia neoliberista e repressiva, di semplice
ristabilimento di un principio di equità (naturalmente non viene
neppure considerata la possibilità di uniformare per tutti la durata
delle fasce di controllo alle quattro ore attuali dei dipendenti
privati e neppure di stabilire un livello intermedio tra le quattro e
le sette ore). Eppure, specularmente, nessuno di loro ha giudicato
iniquo il cambiamento effettuato da Brunetta, allorché introduceva
l’aumento della fascia oraria di reperibilità esclusivamente per
il pubblico impiego: è stata considerata, anzi -quella di Brunetta-
una misura “più che sacrosanta!”.
Al
principio di equità si è ispirata anche la controriforma delle
pensioni Fornero del governo Monti: essa ha innalzato di tanti anni
l’età pensionabile (che secondo le stime supererà i 70 anni per i
quarantacinquenni di oggi), soprattutto per le donne, le quali prima
avevano una pensione anticipata rispetto agli uomini e ora sono state
equiparate agli uomini, semplicemente innalzando l’età delle donne
a quella degli uomini (con un aumento di ben dieci anni!). Non
volevamo la “parità tra sessi”?
martedì 28 marzo 2017
La filosofia - Antonio Gargano
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/filosofia-georg-wilhelm-friedrich-hegel.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-barbarie-dello-specialismo-jose.html
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA GRECA. Da Talete a Parmenide: http://www.iisf.it/scuola/int_fil_greca/term_fil.htm
https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-barbarie-dello-specialismo-jose.html
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA GRECA. Da Talete a Parmenide: http://www.iisf.it/scuola/int_fil_greca/term_fil.htm
lunedì 27 marzo 2017
La Cina nel processo di globalizzazione*- Spartaco A. Puttini
Sotto la guida di Reagan e della Thatcher, Stati Uniti e Gran Bretagna vararono nel corso degli anni Ottanta una serie di politiche che contribuirono a ristrutturare le società dell’Occidente (e non solo dell’Occidente) e l’ordine internazionale. Il processo di globalizzazione neoliberista [1] che ha plasmato il mondo negli ultimi decenni ha il proprio epicentro proprio nella Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Su
quest’onda si impose un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal
“Washington Consensus”.
Oggi,
invece, il presidente USA, Donald Trump e la premier britannica
Theresa May puntano esplicitamente a sottrarsi, in termini e modalità
pur differenti, alla morsa dell’interdipendenza sempre crescente
tra le varie regioni del globo che è stata un tratto caratteristico
del processo di globalizzazione. Il nuovo presidente statunitense, in
particolare, arriva a mettere in discussione alcune delle stelle
cardinali seguite dalla politica americana negli ultimi decenni. Lo
fa sul dossier messicano, principalmente per porre fine ai processi
migratori che scavalcano il Rio Grande, incorrendo nella seria
conseguenza di mandare in malora il NAFTA, l’area integrata di
libero scambio che riunisce USA, Canada e Messico e che riveste
un’importanza strategica essenziale nella politica estera
statunitense. Più in generale Trump mette in discussione la bontà
dei progetti di integrazione regionale a guida Usa, che erano stati
promossi al fine di legare al carro statunitense aree strategiche
vitali nella sempre più difficile competizione geopolitica con gli
antagonisti dell’unipolarismo americano: Russia e Cina.
Cosa
ha spinto Trump, finora, ad assumere posizioni così singolari? In
parte, questa postura risponde alla promessa di far rinascere uno
stato del benessere che ha caratterizzato il sogno americano, sogno
ormai sepolto grazie all’impatto sociale del neoliberismo. E’
questo il significato più profondo dello slogan agitato durante la
corsa per la Casa Bianca: “first america great again”. Far
tornare grande l’America, significava per lui, ricostruire le basi
dello standard di vita statunitense, ormai museo dei ricordi e
tornare ad alimentare il mito del self made man di cui lui stesso
rappresenta incarnazione evidente. Su questa base ha costruito il suo
successo contro chi sosteneva lo status quo di strategie politiche
che parte dell’establishment stretto attorno alla Clinton riteneva
indiscutibili, al fine di garantire l’egemonia statunitense. Questo
non significa che a Washington siano stati abbandonati i sogni di
gloria, ma significa che il paese è al suo interno spaccato e che
nelle stanze del potere il dibattito sulla strada da intraprendere è
serrato.
Forse
la strategia di Trump inverte quella precedente: non tenta più di
strappare la Cina dalla Russia, come ipotizzato dalla diplomazia del
ping-pong di Kissinger in poi, ma di strappare la Russia dalla Cina.
Una trappola nella quale la Russia non intende cadere, come ha
sottolineato in un discorso alla Duma il ministro degli Esteri russo
Lavrov [2].
Se
in alcune cerchie si parla (propriamente o meno è un’altra
questione) di de-globalizzazione, in discussione ci sono le relazioni
troppo stringenti e vincolanti che sono state strette nei decenni
scorsi tra Usa e Cina, che hanno dato un loro contributo nel
promuovere lo spostamento dell’asse economico del mondo
dall’Atlantico all’Asia orientale e nel mirino c’è la Cina.
Cina che appare oggi paradossalmente come alfiere delle politiche di
interdipendenza. Per capirne i motivi bisogna risalire però alle
radici della scelta di Deng Xiaoping di attuare la politica di
riforme e apertura che sono state alla base del miracolo cinese.
domenica 26 marzo 2017
Vita quotidiana all'Avana*- Alessandra Ciattini
*Da: https://www.lacittafutura.it/
Vedi anche: Il blocco contro Cuba: il genocidio più lungo della Storia https://www.youtube.com/watch?v=vItDZLwt6Hg
Vita quotidiana all'Avana
Uscendo la mattina ancora fresca da un edificio popolare e periferico ti accoglie la tiepida umidità non incontaminata dell'Avana. I vicini si avvicinano e ti salutano, chiedendoti informazioni sulla tua vita e suoi tuoi famigliari. È difficile liberarsi in pochi minuti tanto i rapporti sono stretti e continui. Trascinando il suo carrettino, qualche venditore ambulante grida offrendo ai passanti pane, frutta e verdura. È anche possibile veder passare un carretto, caricato di materiale vario, tirato da un cavallino docile e mansueto. Le piante lussureggianti che ombreggiano qualche viale danno un senso di vitalità istintuale che può rianimare qualche turista del vecchio mondo. Ora comincia la grande fatica, cui non si sottraggono neppure gli uomini (anzi questa sembra essere una grande conquista delle donne cubane): fare la spesa per sopperire alle necessità quotidiane. Se ti sei fatto la lista delle cose da comprare devi fare parecchi giri, perché non tutto si trova nel medesimo luogo. Ci sono i grandi magazzini dello Stato, che in molti casi hanno più l'aspetto di depositi che di supermercati, e le tiendas particulares. È possibile pagare sia in convertibles (CUC, grosso modo l'equivalente di un euro) o in pesos, tenendo presente che un CUC vale 24 pesos. Per esempio, se si compra una piccola bottiglia di olio di oliva, che non fa certo parte degli alimenti consumati dai cubani, in CUC costa 6,40 in pesos 160.
Vi sono alimenti che per le difficoltà di produzione e di approvvigionamento sono introvabili, altri è possibile trovarli dopo aver fatto alcuni giri e seguendo i consigli dei passanti che ti indicano i possibili luoghi riforniti di quello che cerchi. Senza voler risalire troppo indietro nel tempo, appare evidente che nessun settore dell'economia cubana sia stato colpito come quello agricolo, dopo la dissoluzione del blocco socialista. In particolare la produzione dello zucchero e dei suoi derivati: se alla fine degli anni ‘80 del ventesimo secolo a Cuba si lavoravano circa 8 milioni tonnellate metriche di canna da zucchero, a partire dal 2010 si supera appena un milione di tonnellate. Quasi tre quarti delle industrie di lavorazione della canna sono state chiuse e le terre prima destinate a tale coltivazione sono state abbandonate. Dal 2007 si è cominciato a ridistribuire queste terre sotto varie forme, ma solo nel primo decennio del ventunesimo secolo è cresciuta la produzione dei prodotti più cari nei mercati dei prodotti agricoli. Questa è la ragione per la quale Cuba è diventata fortemente dipendente dall'importazione di alimenti dall'estero (J. I. Domínguez, Introducción, in Desarrollo económico y social en Cuba, 2013: 11).
sabato 25 marzo 2017
Introduzione a Per la Critica dell'Economia Politica*- Stefano Garroni
*Da: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1857/introec/intro.htm#n1
Tutto il testo: Karl Marx, Per la Critica dell'Economia Politica, (1859) https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/index.htm
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/10/marx-introduzione-del-1857-schema.html
Tutto il testo: Karl Marx, Per la Critica dell'Economia Politica, (1859) https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/index.htm
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/10/marx-introduzione-del-1857-schema.html
Nel primo §. (Individui autonomi. Idee del XVIII secolo), l’argomento di Marx è facilmente riassumibile. L’economia politica ha come oggetto la produzione materiale, la quale è svolta da individui, che lavorano in certe condizioni sociali; è naturale, dunque, (nel senso di “è ovvio”, “va da sé”) che il discorso dell’economia politica prenda le mosse dagli individui, che operano in condizioni socialmente determinate. E’ pur vero che nel Settecento si è andato imponendo un altro modo di procedere, ovvero, si è ritenuto di poter iniziare il discorso dell’economia politica a partire dall’individuo isolato, dal Robinson Crusoe (il personaggio dell’omonimo romanzo settecentesco di Daniel De Foe). ma si tratta di un’illusione dell’epoca (la robinsonata), la quale consegue, per un verso, dal tentativo di legittimare l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un altro, dalla cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia possibile, solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime se stessa attraverso individui isolati.
Questo è, di primo acchito, il discorso che Marx fa. E’ vero, tuttavia, che guardando le cose più a fondo -per così dire con uno sguardo più sospettoso e scaltrito-, la faccenda si rivela più complessa.
Il fatto stesso che Marx ponga il tema del ‘punto di partenza’ (Ausgangspunkt) significa, implicitamente, richiamare Hegel, il quale aveva iniziato, ad es., la sua Scienza della logica (Wisenschaft der Logik) proprio affrontando la questione dell’Ausgangspunkt. Ed Hegel è richiamato anche nel proseguo. Infatti, quello che Marx, subito, indica come naturalmente il punto di partenza, a ben vedere, corrisponde ad una immediata considerazione, ad un diretto collegamento con l’esperienza: in altre parole, è come se Marx dicesse «basta guardar gli uomini che lavorano, per rendersi conto che lavorano in condizioni socialmente determinate».
Sennonché uno dei punti centrali del ragionamento, che Marx svolgerà in questo testo, è proprio la dimostrazione che cogliere la struttura sociale della produzione è operazione tutt’altro che naturale, perché, al contrario, assai raffinata -un’operazione, che richiederà di far ricorso a complesse procedure sia logiche che epistemologiche. Insomma, come vedremo, l’effettivo Ausgangspunkt, per Marx, richiederà un rapporto tutt’altro che immediato e naturale con l’esperienza.
Giungere all’effettivo punto di partenza, infatti, richiede superare la fase della robinsonata. Ma che cos’è quest’ultima? E’ il momento in cui l’insieme immediato -di uomo e sue condizioni di lavoro- viene rotto: il «tutto» dell’esperienza si scinde e l’individuo si separa dalle condizioni oggettive (sociali e naturali) della sua attività produttiva, ponendosele, per così dire, di fronte, come poteri estranei, dai quali egli è tanto indipendente, quanto essi stessi sono indipendenti da lui. In termini hegeliani, questo è il momento dell’intelletto (Verstand) che, giusta la lezione di Hegel, introduce, appunto, la scissione nella totalità immediata. Solo superando questo momento, sarà possibile -lo vedremo- conquistare l’effettivo punto di partenza.
La conclusione è chiara: il semplice discorso che Marx fa di primo acchito, in realtà, è un richiamo assai preciso ad un fondamentale ritmo del ragionamento hegeliano. Fin da subito, dunque, comprendiamo che sarà possibile intendere effettivamente queste pagine di Marx, solo a condizione di evidenziarne il legame con la riflessione di Hegel.
venerdì 24 marzo 2017
Tesi su Feuerbach* - Karl Marx
*Questo testo tanto breve quanto denso fu scritto da Marx nel marzo del 1845. Rimase tuttavia a lungo inedito finchè non fu pubblicato nella Neue Zeit (1886) da Engels che lo riprodusse in appendice al suo Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888). Si è usata qui la traduzione italiana di Palmiro Togliatti, in appendice al vol. Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80. https://www.marxists.org/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/05/ancora-sulla-dialettica-tesi-su.html
Ascolta anche: https://www.youtube.com/watch?v=b8MG0OUn4Vo
I
Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E' accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l'importanza dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica.
II
La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/05/ancora-sulla-dialettica-tesi-su.html
Ascolta anche: https://www.youtube.com/watch?v=b8MG0OUn4Vo
I
Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E' accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l'importanza dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica.
II
La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.
giovedì 23 marzo 2017
mercoledì 22 marzo 2017
Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero di Gramsci*- Salvatore Tinè
Quello del rapporto tra internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione cosmopolitica del sistema di produzione capitalistica. Una vocazione che gli appariva particolarmente evidente nei settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli e delle nazioni e su quello della libertà degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918.
L’economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo.[1]
martedì 21 marzo 2017
lunedì 20 marzo 2017
La barbarie dello «specialismo»*- José Ortega y Gasset
*Da: José Ortega y Gasset, LA RIBELLIONE DELLE MASSE http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/OrtegaRibellioneMasse.pdf
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/conoscenzasapienzasaggezza-il-triangolo.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/conoscenzasapienzasaggezza-il-triangolo.html
La tesi era che la civiltà del secolo XIX ha prodotto automaticamente l’uomo‐
massa. Conviene di non chiudere la sua esposizione generale senza analizzare, in un
caso particolare, il meccanismo di questa produzione. In tal modo, nel concretarsi, la tesi
guadagna in forza persuasiva.
Questa civiltà del secolo XIX, dicevamo, può riassumersi in due grandi
dimensioni: democrazia liberale e tecnica. Consideriamo adesso soltanto quest’ultima.
La tecnica contemporanea nasce dall’accoppiamento del capitalismo con la scienza
sperimentale. Non tutta la tecnica è scientifica.
Chi fabbricò nell’età preistorica le torce con la pietra focaia, mancava di senso
scientifico non sospettarlo minimamente l’esistenza della fisica.
Soltanto la tecnica moderna europea ha una radice scientifica, e da questa radice
le deriva il suo carattere specifico, la possibilità di un progresso illimitato. Le altre
tecniche ‐mesopotamiche, nilota, greca, romana, orientale‐ tendono fino a un punto di
sviluppo che non possono sorpassare, e, appena lo raggiungono, cominciano a
retrocedere in una misera involuzione.
Questa prodigiosa tecnica occidentale ha reso possibile la meravigliosa prolificità
della casta europea. Si ricordi il dato statistico da cui è partito questo saggio e che, come
facemmo notare, racchiude in germe tutte queste meditazioni. Dal secolo V al 1800,
l’Europa non giunge a ottenere una popolazione maggiore di 180 milioni. Dal 1800 al
1914 ascende a più di 460 milioni. Il salto è unico nella storia dell’umanità. Non si può
dubitare che la tecnica ‐insieme alla democrazia liberale‐ ha generato l’uomo‐massa nel
senso quantitativo di questa espressione. Però queste pagine hanno cercato di mostrare
che è anche responsabile dell’esistenza dell’uomo‐massa nel senso qualitativo e
peggiorativo del termine.
Per «massa» ‐ed è un’avvertenza che facemmo fin dal principio‐ non si intenda
specialmente l’operaio; non designa qui una classe sociale, ma un tipo o un modo d’essere dell’uomo che si ritrova oggi in tutte le classi sociali, che per ciò stesso
rappresenta il nostro tempo, su cui esso prevale e domina.
Chi esercita oggi il potere sociale? Chi impone la struttura del proprio spirito
all’epoca? Senza dubbio, la borghesia. Chi, in seno a questa borghesia, è considerato
come il gruppo superiore, come l’aristocrazia del presente? Senza dubbio, il tecnico:
ingegnere, medico, finanziere, professore ecc., ecc. Chi, dentro a questo ambiente
tecnico, lo rappresenta con maggiore altezza e purezza? Indubbiamente, l’uomo di
scienza. Se un personaggio «astrale» visitasse l’Europa e, con animo di giudicarla, le
domandasse attraverso a quale tipo d’uomo, fra quelli che l’abitano, preferisse di essere
giudicata, non c’è, dubbio che l’Europa indicherebbe, compiaciuta e sicura di una
sentenza favorevole, i suoi uomini di scienza. E, naturalmente, il personaggio «astrale»
non domanderebbe di portare il giudizio su individui d’eccezione, ma cercherebbe la
norma, il tipo generico dell’uomo di scienza, vertice dell’umanità europea.
Ebbene, dunque: risulta che l’attuale uomo di scienza è il prototipo dell’uomo‐massa,. E non a caso, né per difetto personale di ciascun uomo di scienza, ma perché la
scienza stessa ‐radice della civiltà- lo tramuta automaticamente nell’uomo‐massa: cioè,
fa di lui un primitivo, un barbaro moderno.
domenica 19 marzo 2017
Sul CAPITALE: Storia e Logica*- Stefano Garroni
*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione del 11/03/99: Sul Capitale - Storia e Logica https://www.facebook.com/groups/
Qui l'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/playlist?list=PL88CA5CCDE4BD1EAC
[...] La prova induttiva, in definitiva, è questa: il mondo, il mondano, cioè la dimensione dell’esistente, è la dimensione del finito, del particolare; di ciò che per esistere ha bisogno di altro. E’ il mondo degli effetti che hanno bisogno delle cause, ma a loro volta le cause sono effetti di altre cause, quindi ogni esistente rinvia ad altro per giustificare la propria esistenza. In questo continuo rinvio del contingente a una causa che lo spiega, la quale causa a sua volta diventa però un contingente che è effetto di un’altra causa ecc., ; in questo continuo rinvio non si raggiunge mai una stabilità, non si raggiunge mai una ragione dell’esistenza di questo contingente: donde la necessità di postulare una ragione fuori del mondo del contingente, che sia la ragione di tutto il mondo contingente.
[...] E’ molto importante il fatto che quando Hegel affronta questo tipo di prova dell’esistenza di dio, mette in evidenza che accettando queste prove, e quindi accettando quel ragionamento per cui il contingente trova nel necessario la propria causa, si dimostra anche il contrario, e cioè che è proprio il contingente che pone il necessario. Cioè che così come è vero che il particolare, il finito, il contingente, ha bisogno del necessario per esistere, il necessario intanto esiste in quanto è necessario del contingente.
E’ del tutto chiaro che se esiste una legge che vieti qualcosa, esisterà la violazione di quella legge: in quanto la gente ruba c’è una legge che dice “Non rubare”, e quindi la legge del non rubare, intanto può esistere in quanto esiste il contrario del non rubare, cioè il fatto del rubare. Questa legge, intanto può esistere in quanto esiste il contrario di se stessa, cioè la sua violazione, e quindi il mondo della legge, della regola, del diritto, implica l’esistenza del mondo del delitto.
[...] No, no, no, noi diamo per scontato che sia vero. Ma capisci che cosa mostruosa è dire che un evento storico, è quello che è per ragioni logiche? E’ cosa mostruosa perché tu hai fatto della logica, delle leggi logiche, la legge della storia. Il che è la follia più totale. Basta assistere a una seduta del nostro parlamento per vedere che la politica con la logica non ha nulla a che vedere. Spiegare la storia, la politica, l’economia, con le leggi logiche, è il massimo dell’aberrazione nel senso che tu inventi un mondo di sogni. Sembrerebbe allora che nella storia il miglior politico sia il miglior logico matematico, perché è quello che sa fare meglio i conti logici, ed è quindi il miglior politico, e invece non è vero nulla.
E' interessante che Marx molte volte, quando deve spiegare il suo discorso, ricorre proprio a quello schemino che dicevo. Per esempio c’è uno scritto sulla forma di valore, che è tutto costruito in questa maniera: tanto di X è uguale a tanto di Y, perché valgono tutti 10 lire.
Qui l'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/playlist?list=PL88CA5CCDE4BD1EAC
[...] La prova induttiva, in definitiva, è questa: il mondo, il mondano, cioè la dimensione dell’esistente, è la dimensione del finito, del particolare; di ciò che per esistere ha bisogno di altro. E’ il mondo degli effetti che hanno bisogno delle cause, ma a loro volta le cause sono effetti di altre cause, quindi ogni esistente rinvia ad altro per giustificare la propria esistenza. In questo continuo rinvio del contingente a una causa che lo spiega, la quale causa a sua volta diventa però un contingente che è effetto di un’altra causa ecc., ; in questo continuo rinvio non si raggiunge mai una stabilità, non si raggiunge mai una ragione dell’esistenza di questo contingente: donde la necessità di postulare una ragione fuori del mondo del contingente, che sia la ragione di tutto il mondo contingente.
[...] E’ molto importante il fatto che quando Hegel affronta questo tipo di prova dell’esistenza di dio, mette in evidenza che accettando queste prove, e quindi accettando quel ragionamento per cui il contingente trova nel necessario la propria causa, si dimostra anche il contrario, e cioè che è proprio il contingente che pone il necessario. Cioè che così come è vero che il particolare, il finito, il contingente, ha bisogno del necessario per esistere, il necessario intanto esiste in quanto è necessario del contingente.
E’ del tutto chiaro che se esiste una legge che vieti qualcosa, esisterà la violazione di quella legge: in quanto la gente ruba c’è una legge che dice “Non rubare”, e quindi la legge del non rubare, intanto può esistere in quanto esiste il contrario del non rubare, cioè il fatto del rubare. Questa legge, intanto può esistere in quanto esiste il contrario di se stessa, cioè la sua violazione, e quindi il mondo della legge, della regola, del diritto, implica l’esistenza del mondo del delitto.
[...] No, no, no, noi diamo per scontato che sia vero. Ma capisci che cosa mostruosa è dire che un evento storico, è quello che è per ragioni logiche? E’ cosa mostruosa perché tu hai fatto della logica, delle leggi logiche, la legge della storia. Il che è la follia più totale. Basta assistere a una seduta del nostro parlamento per vedere che la politica con la logica non ha nulla a che vedere. Spiegare la storia, la politica, l’economia, con le leggi logiche, è il massimo dell’aberrazione nel senso che tu inventi un mondo di sogni. Sembrerebbe allora che nella storia il miglior politico sia il miglior logico matematico, perché è quello che sa fare meglio i conti logici, ed è quindi il miglior politico, e invece non è vero nulla.
E' interessante che Marx molte volte, quando deve spiegare il suo discorso, ricorre proprio a quello schemino che dicevo. Per esempio c’è uno scritto sulla forma di valore, che è tutto costruito in questa maniera: tanto di X è uguale a tanto di Y, perché valgono tutti 10 lire.
Iscriviti a:
Post (Atom)