Ai tempi di Marx,
secondo l’ortodossia degli economisti borghesi la crisi non doveva
esistere. Non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi,
grandi economisti classici.
Secondo Adam Smith, per esempio, i
meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere
all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del
mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio,
dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale
l’istruzione, la difesa ecc. astenendosi dall’interferire
nell’economia.
David Ricardo, da parte sua, aderì alla cosiddetta
legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di
sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti
crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni
settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al
raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta7 .
Certamente
anche a quei tempi non mancarono gli eretici più dubbiosi, quali
Sismondi e Malthus. Ma si trattò appunto di eresie contro l’egemonia
schiacciante dei negazionisti. Figuriamoci poi cosa poterono dire gli
apologeti. Qualcuno ebbe modo perfino di studiare le macchie solari8
, tanto per escludere che le crisi potessero essere causate da
contraddizioni insite al modo di produzione capitalistico.
Insomma la crisi o
non esiste, o è il prodotto di cause “esogene”, o frutto di
comportamenti di operatori irrazionali, o troppo egoisti
(capita a volte di esagerare), oppure è il risultato di politiche
sbagliate. Comunque si tratta di uno spiacevole inconveniente, di un
evento patologico estraneo alla fisiologia del capitalismo.
Marx ha confutato la
legge degli sbocchi, partendo dall’incipit del Capitale:
il duplice carattere della merce9 . Questa «cellula elementare» del
capitalismo è già in sé una contraddizione in quanto è sia un
bene utile a soddisfare bisogni umani che una depositaria di
ricchezza sociale astratta, di lavoro umano sociale astratto
occorrente per la sua produzione. Per il produttore la sua utilità è
solo quella di essere un potenziale involucro di ricchezza sociale ma
non ha un valore d’uso immediato, altrimenti non la scambierebbe; è
un valore di scambio potenziale che per realizzarsi come effettivo
valore di scambio deve incontrare nel mercato qualcuno che le
consideri un buon valore d’uso.
Con l’introduzione
del denaro il valore si polarizza in quest’ultimo, più
appropriato, contenitore, la cui utilità sta solo nel conferire al
possessore il potere di acquistare merci utili, mentre al polo
opposto, specularmente, le merci sono valori d’uso che possono
realizzare il loro valore solo scambiandosi con denaro.
Il denaro separa in
due atti distinti la metamorfosi della merce (M-D-M’) a differenza
di quanto avviene con lo scambio immediato o baratto (M-M’). Nel
baratto colui che vende è nello stesso istante colui che acquista
l’altra merce e viceversa, vendita e acquisto coincidono, per cui
in questo contesto vale la legge degli sbocchi. Se invece lo scambio
viene spezzato in due fasi (vendita e acquisto) esiste la possibilità
che, dopo la prima, il venditore preferisca non spendere subito il
suo denaro, ma tesaurizzarlo o spenderlo in altri mercati,
togliendolo quindi dalla circolazione senza mettere in atto la
domanda corrispondente. In tal modo ci sarà da qualche parte un
potenziale venditore che non troverà il suo acquirente, che non
riuscirà a trasformare la sua merce in denaro10.