Da: https://contropiano.org - Stefano Porcari è redattore di Contropiano.
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Ieri mattina, a Palazzo Montecitorio, il Presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, ha presentato il 33esimo rapporto annuale dell’istituto, con il quale si fotografa la situazione dell’Italia nell’anno appena passato, a cui si affiancano le previsioni per il 2025.
Sarebbe da commentare, paragrafo per paragrafo, ognuno dei quattro capitoli che lo compongono, ma bastano alcuni dei dati per mostrare il fallimento della classe dirigente del paese. A cominciare dalle stime di crescita per l’anno in corso.
La guerra commerciale suggerisce un ulteriore rallentamento della crescita: se nel 2024 si era già fermata a +0,7%, ora le previsioni oscillano tra il +0,4% del FMI e il +0,6% di Bankitalia e MEF. Se i conti pubblici hanno segnato un netto miglioramento (e come potrebbe essere altrimenti, visto il continuo tagliare), non è lo stesso per le retribuzioni.
Tra il 2019 e il 2024 i salari hanno perso il 10,5% del potere d’acquisto a causa dell’inflazione. Se si parla di retribuzioni lorde di fatto per dipendente, la riduzione è più contenuta, ma segna comunque un -4,4%, più intensa rispetto a quella sperimentata in altri paesi quali Spagna e Germania.
Tale perdita è di gran lunga superiore di quella della produttività del lavoro, che ad ogni modo, come sottolineato dall’Istat, è il “risultato dell’espansione dell’occupazione maggiore rispetto a quella del valore aggiunto“. In altre parole, più persone a lavoro, ma un lavoro che produce meno ricchezza, e dunque anche meno salario.
È del resto questo il paese che ha in mente il governo quando dice, per bocca di Giorgia Meloni, che il turismo è un settore trainante dell’economia italiana. Lo confermano gli statistici stessi: la crescita del lavoro ha riguardato i settori ad alta intensità di lavoro e a bassa produttività, come il turismo e la ristorazione.
La produzione industriale in volume (corretta per i giorni lavorativi) è invece diminuita del 4% rispetto al 2023, quando era già calata del 2%. Un paese deindustrializzato, in cui le uniche opportunità di lavoro sono precarie, sottopagate e lontane dall’orizzonte dei settori più avanzati. Il reddito reale da lavoro per occupato, inoltre, è più basso del 7,3% rispetto al 2004.
Nonostante questo, il reddito familiare equivalente è aumentato del 6,3% “grazie ai cambiamenti demografici (in particolare la riduzione della quota delle famiglie con figli), all’aumento del numero di componenti occupati e alla maggior diffusione della proprietà della casa di abitazione“.
Sono elementi da non sottovalutare per capire anche come un palese peggioramento delle condizioni di lavoro non produce ancora una conflittualità sociale estesa come ci si potrebbe aspettare. Tante dinamiche concorrono ad alleggerire il peso del fallimento delle politiche industriali e salariali dei governi degli ultimi vent’anni.
Comunque, il risultato è che il 23,1% della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. Andando a vedere dove questo dato colpisce con più durezza, si nota che arriva al 39,8% al Sud – dove la grave deprivazione materiale è dieci volte maggiore che al Nord-Est – e cresce per quelle famiglie il cui principale percettore di reddito ha meno di 35 anni.
Il fatto che siano i giovani a pagare più di tutti il prezzo della crisi lo dimostra anche il fatto che negli ultimi dieci anni circa 97 mila laureati se ne sono andati dall’Italia, con il record raggiunto proprio lo scorso anno. L’istruzione è in affanno a livello generale: tra i cittadini di età compresa fra i 25 e i 64 anni appena il 65,5% risultava diplomato nel 2023, quando la media UE a 27 è del 79,8%.
Ci sono poi tutta una serie di informazioni sulla sanità e sul generale stato di salute della popolazione che inquietano: nel 2024 un italiano su dieci ha rinunciato a visite o a esami specialistici negli ultimi 12 mesi, a causa delle lunghe liste di attesa o per la difficoltà a pagare le prestazioni sanitarie. Il numero è in crescita rispetto al 2023, ma anche rispetto al periodo pre-pandemico.
Nell’anno passato è aumentata la speranza di vita alla nascita, ma si è ridotta la quota di anni vissuti in buona salute, in particolare per le donne. Per queste ultime una vita in buona salute si ferma, in media, ai 56,6 anni, mentre per gli uomini dura fino ai 59,8 anni. Ciò incrina tutta la narrativa sull’aumento dell’età pensionabile: andrebbe diminuita per riduzione della capacità lavorativa, non aumentata.
Infine, l’Italia è al secondo posto tra i paesi europei per perdite economiche dovute a eventi climatici estremi. Un’altra ‘emergenza’ ormai trasformatasi in problema strutturale, su cui viene fatto poco e niente, a tutela dei profitti. Ma il rapporto Istat di quest’anno lancia di certo un allarme che non può essere evitato.
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