Introduzione
Può un popolo, segnato da un trauma profondo, trasformare quel dolore in strumento di oppressione? Perché la memoria delle sofferenze subite non basta a impedire che, nel tempo, si ripetano nuove forme di violenza? In che modo un trauma non elaborato può trasmettersi da una generazione all'altra, generando risposte collettive tanto difensive quanto distruttive?
Sono domande che si impongono con urgenza nel contesto del conflitto israelo-palestinese. La più recente offensiva israeliana nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, in risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, ha riattivato antiche ferite storiche e identitarie, portando a interrogarsi sul rapporto tra trauma, memoria e violenza collettiva. La ferocia dell'intervento su Gaza, con l'enorme numero di vittime civili, comprese donne e bambini, ha scosso l'opinione pubblica in gran parte del mondo, ma sembra non aver avuto un analogo effetto in Israele e nelle comunità ebraiche della diaspora. Al contrario, pare aver prodotto una risposta autoassolutoria – quella della forza è l'unica risposta possibile alla minaccia concreta all'esistenza della Nazione – lasciando a una minoranza l'indignazione e la protesta per ciò che sta accadendo.
Come già Freud sapeva, nell'individuo come nella società, il trauma che giace nel profondo può ridestarsi, quando un'esperienza simile produce un'impressione analoga a quella originale: il massacro del 7 ottobre, imprevisto e dall'inatteso successo, sembra aver rivitalizzato i terrori e le paranoie connesse al grande trauma ebraico della Shoah, rafforzando nella maggior parte della popolazione israeliana e dell'ebraismo internazionale un consenso non riconosciuto, e neanche fino in fondo compreso nelle sue conseguenze, alle tradizionalmente posizioni minoritarie della destra sionista.
Occorre premettere mille cautele: i traumi collettivi sono più difficili da definire di quelli individuali e tuttavia sono ancor più degni di studio, perché hanno fatto sanguinare la storia e continuare a farlo. Eppure, diversi studi clinici e storici dimostrano l'esistenza di una trasmissione transgenerazionale del trauma psichico. Il caso negli Stati Uniti, dove ancora oggi si rilevano tracce psichiche della schiavitù nella popolazione afroamericana, rappresenta un esempio paradigmatico. Anche la biologia si interessa da tempo della eredità epigenetica transgenerazionale, dell'eventuale impronta biologica intergenerazionale di un trauma. Un lavoro recente (Mulligan, 2025) ha dimostrato che adulti e bambini siriani testimoni diretti di violenza negli anni '80 e dopo il 2011 presentavano segni epigenetici distintivi in alcune regioni del DNA. Nel caso di una donna che aveva assistito a episodi di violenza negli anni '80, queste marcature erano ancora presenti nella figlia e nei nipoti. I ricercatori non hanno riscontrato alcuna di queste modificazioni epigenetiche nel gruppo di controllo. In altri termini, sembrano rilevabili ormai anche firme epigenetiche di un trauma attraverso tre generazioni di umani in un disegno di ricerca controllato, per quanto il meccanismo preciso di trasmissione non sia ancora del tutto chiarito.
Ma al di là della biologia, l'influenza transgenerazionale del trauma si manifesta in forma particolarmente complessa nel contesto israeliano, dove la Shoah costituisce non solo un evento fondativo della memoria collettiva, ma anche un elemento identitario e politico.
Il conflitto israelo-palestinese si protrae da oltre cento anni e non intendiamo certo in questa sede ripercorrerne la storia e le ragioni. Anche perché, a ben vedere, ha radici talmente antiche che non è chiaro nemmeno dove ci si dovrebbe arrestare nella ricostruzione delle cause: certamente, il risentimento della popolazione palestinese nei confronti degli israeliani ha radici profonde, specie della popolazione della Cisgiordania verso i coloni, così come la violenza del sionismo verso i Palestinesi non nasce come reazione alla Shoah, ma ha origini ideologiche, strategiche e coloniali ben precedenti. Neppure la Shoah può quindi costituire un termine a quo: semmai, da alcuni gruppi ultra-religiosi e da alcuni partiti israeliani è stata utilizzata per rafforzare la legittimazione politica e morale del progetto sionista, rendendolo quasi intoccabile sul piano etico.
Qui vorremmo quindi soltanto rilanciare le domande iniziali, circostanziandole, e guardarci intorno per capire chi e come ha almeno provato a dare una risposta.
Il contratto narcisistico e la “cripta psichica”
In psicoanalisi, Freud ha aperto il campo alla comprensione del trauma come esperienza non solo individuale, ma anche storicamente sedimentata e culturalmente condivisa. In Totem e tabù e L'uomo Mosè e la religione monoteistica aveva ipotizzato che eventi traumatici fondativi, rimossi, sarebbero riemergere nel tempo sotto forma di nevrosi collettive. Il concetto di Nachträglichkeit (après-coup) diventa cruciale: il trauma non elaborato può attivarsi retroattivamente, acquistando forza distruttiva nel tempo.
Diversi studiosi — da Mitscherlich (1969) a LaCapra (2001), da Illouz a Butler — hanno mostrato come l'immane tragedia della Shoah abbia profondamente influenzato l'identità israeliana. Secondo LaCapra, la differenza tra acting out e working through rappresenta la discriminazione tra ripetizione cieca del trauma e possibilità di simbolizzazione. Quando il trauma non viene elaborato, rischia di riprodursi attraverso cicli di difesa paranoide, ipervigilanza e persino violenza preventiva. Per cui, osserva Eva Illouz, la vittima che si trasforma in carnefice non è tanto un paradosso psicologico, quanto il sintomo di un trauma irrisolto (2013).
La Shoah, divenuta fondamento identitario, può generare un “contratto narcisistico collettivo” — per riprendere l'espressione di Piera Castoriadis Aulagnier e poi di René Kaës (2009) — secondo cui l'essere stati vittime diventa fondamento dell'identità e giustificazione assoluta di ogni forma di difesa. In questo modo, si può arrivare però a una sacralizzazione della sofferenza che impedisce il lavoro di lutto.
Il concetto di contratto narcisistico torna utile per descrivere la trasmissione inconscia di mandati psichici non scelti. Il patto psichico non consapevole è tra un soggetto (di bambino solito) e le generazioni traumatizzate che lo precedono (genitori, famiglia, gruppo). In cambio dell'amore, della protezione, dell'identità, il soggetto accetta di farsi carico di qualcosa che non gli appartiene direttamente: un trauma, un ideale perduto, una colpa, un lutto non elaborato. Il rapporto è narcisistico perché riguarda l'identità, l'ideale dell'Io, il senso di appartenenza e valore. Non è un contratto cosciente, ma si struttura nella psiche del bambino fin dalle prime relazioni. In questo modo la soggettività è “colonizzata” da un mandato generazionale non scelto. In altri termini, il soggetto agisce, desidera, soffre per qualcosa che non è davvero “suo” e, in questo modo, il trauma non elaborato può diventare eredità psichica. Il soggetto, in cambio di amore e appartenenza, assume su di sé traumi non propri, interiorizzando colpe, lutti, ideali perduti. Questo contratto, se non riconosciuto e simbolizzato, può riprodursi nella psiche collettiva, trasformando l'identità in una fortezza difensiva.
Secondo Kaës, quindi, oltre ai legami individuali e familiari, esistono anche legami psichici inconsci che uniscono una comunità, un popolo, una nazione: il legame non è solo ciò che unisce, ma anche ciò che manca e divide. Il negativo è concepito come forza strutturante l'inconscio come fenomeno collettivo, in cui il “negativo” diventa una forza trasformativa e al contempo disgregante nei processi psichici. Questi legami si fondano spesso su una memoria condivisa, su un mito fondativo, ma anche — ed è qui il punto — su un trauma fondativo: qualcosa che ha ferito profondamente la comunità, e che ne struttura l'identità: la sofferenza stessa diventa titolo identitario, l'essere vittime diviene criterio morale superiore (tipicamente, nelle narrazioni nazionali sacralizzate). Infine, “Mai più” diventa imperativo, al punto da potersi trasformare in iper-difesa o attacco preventivo.
Un esempio? Ha fatto scalpore, anche in Israele, il cosplay dell'ambasciatore israeliano all'ONU Gilad Erdan che, dopo il 7 ottobre, si è presentato a una riunione del Consiglio di Sicurezza indossando una Judenstern con sopra scritto, appunto, “Mai più”. Appropriarsi dell'identità e dell'esperienza ebraica durante l'Olocausto è un mezzo retorico seducente, ma che può manifestare anche “una mancanza di rispetto per le vittime dell'Olocausto e per lo Stato di Israele stesso”, come ha fatto presente Dani Dayan, presidente di Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah, stigmatizzando la scelta dell'ambasciatore.
Analogamente, Nicolas Abraham e Maria Torok (1993) parlano di “cripta psichica”: il trauma non elaborato si deposita nell'inconscio delle generazioni successive come un “fantasma” che agisce da dentro. Dori Laub, sopravvissuto alla Shoah e fondatore del Fortunoff Video Archive for Holocaust Testimonies , descrive queste assenze come “vuoti vivi” — silenzi che si trasmettono e strutturano le narrazioni familiari e collettive.
Il trauma diviene una sorta di mandato politico e ideologico. Studi diversi evidenziano come la sua mancata elaborazione si traduca anche nelle scelte politiche. Zahava Solomon, psicologa dell'Università di Tel Aviv, ha mostrato come i figli dei sopravvissuti alla Shoah presentando maggiore propensione ad accettare l'uso della forza militare da parte di Israele. Si tratta di una forma di “trauma secondario” che si manifesta come iperidentificazione con la minaccia e aggressività difensiva. In questo contesto, il trauma si struttura come fondamento ideologico, rendendo difficile distinguere tra autodifesa e repressione. È il caso, ad esempio, della recente dichiarazione del Procuratore Capo del Tribunale Penale Internazionale, che ha ipotizzato la responsabilità di crimini di guerra da parte sia di Hamas sia del governo israeliano. Israele, peraltro, è accusato di genocidio ai danni della popolazione palestinese della Striscia di Gaza da due commissioni indipendenti delle Nazioni Unite, nonché da numerose ONG, in testa Amnesty International, oltre che da esponenti della stessa storiografia israeliana, come Raz Segal e Omer Bartov.
È uno scenario che solleva interrogativi etici e psichici profondi su quel confine tra sicurezza e dominio sul quale anche la filosofia ha ragionato. Per esempio, Jean-Luc Nancy – pur non trattando direttamente e sistematicamente il conflitto israelo-palestinese, né la fondazione dello Stato di Israele – in alcuni scritti ha toccato in profondità il nodo simbolico della Shoah, del trauma fondativo e della costituzione del senso politico in rapporto alla violenza originaria, riflettendo sullo sterminio non come evento storico da spiegare, ma come “interruzione del senso” che rompe il legame tra umano e significato. In altri termini, la Shoah non solo come tragedia del popolo ebraico, ma come apocalisse del senso occidentale, della forma-Stato. L'orrore è stato infatti perpetrato da uno Stato, e che Stato, quindi dallo stesso progetto moderno. La comunità ebraica, distrutta nel cuore dell'Europa, diventa così simbolo della fine del sogno comunitario occidentale, al punto che Auschwitz non è più solo un semplice evento, per quanto atroce, della storia, ma la messa in crisi dell'Occidente come forma di pensiero e di senso (Nancy, 2007). Quindi, il tentativo di rifondare il “senso” attraverso lo Stato dopo la Shoah ha tutte le caratteristiche di un gesto tragico, nel senso antico: il tentativo di ristabilire un ordine che porta però nuova dismisura. In altri termini, l'idea di uno Stato ebraico nasce sì, almeno in parte, come compensazione simbolica del trauma, ma non lo elabora: lo istituzionalizza. Insomma, la risposta al trauma attraverso l'edificazione di un nuovo Stato sembra essere inadeguata. Sovrapponendo Shoah e sovranità, trauma e forza, si compie un gesto tragico che vorrebbe proteggere la vita, e che invece genera nuova esclusione. La fondazione dello Stato di Israele, concepita come atto salvifico post-traumatico, si è accompagnata infatti a pratiche di espulsione e dominazione che, per alcuni, non fanno che riprodurre il paradigma traumatico.
La psicoanalisi insegna che ciò che non viene simbolizzato tende a tornare come ripetizione. La coazione a ripetere inconscia può investire l'intero corpo collettivo, trasformando il trauma in ideologia, il lutto in militanza, la difesa in conquista. Il caso del conflitto israelo-palestinese mostrerebbe un esempio di “nevrosi storica” in cui la violenza iniziale si perpetua attraverso la rimozione del dolore originario. Alcuni studiosi, anche israeliani, come Ilan Pappé (2004) e Jeff Halper, parlano apertamente di “colonialismo d'insediamento” e “apartheid”, evidenziando le distorsioni della memoria collettiva. Purtroppo, il “contagio psichico” è un pericolo ancora più reale del contagio batterico. La sua trasmissione è geografica – in uno stesso territorio – ma, come si è visto in precedenza, anche temporale, attraverso le generazioni. Come ha scritto Luigi Zoja (2018), i traumi psichici collettivi lasciano tracce lunghe.
Tuttavia, anche in Israele si alzano voci critiche e pacifiste che si oppongono all'uso strumentale della memoria. Molti studiosi di diversa estrazione e provenienza (sociologi come Eva Illouz [1] , scrittori come Amos Oz (2004), filosofi come Judith Butler [2] ) hanno riflettuto su come il trauma dell'Olocausto abbia influito sull'identità israeliana e sul modo in cui poi lo Stato di Israele ha percepito e costruito la propria sicurezza. Si è dovuto così constatare che, per una parte della società israeliana, il dolore subìto si è trasformato in una giustificazione per l'autodifesa estrema, in certi casi alla base di una degenerazione in pratiche oppressive. Naturalmente, non si tratta di un'equazione deterministica: non ogni vittima diventa carnefice, né ogni popolo traumatizzato è destinato a ripetere la violenza. Ma storicamente, purtroppo, la storia d'Israele nel secondo dopoguerra ha conosciuto cicli di trauma e contro-trauma, come se un dolore immenso, non digerito, cercasse di affermarsi in nuove forme di dominio, fino alla terrificante vicenda innescata, dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre, e culminata con l'invasione e la distruzione della Striscia di Gaza e di parte della Cisgiordania.
La domanda più difficile
È pensabile, e su quali basi, che come un bambino abusato, se non elaborerà il trauma a sufficienza, crescendo rischierà di divenire a sua volta un abusatore, anche un popolo antichissimo ma costituitosi da pochi decenni un uno Stato “giovane”, e che ha subìto una tragedia collettiva epocale come la Shoah, composta da milioni di traumi propri individuali, possa nel corso della storia riproporre quel trauma, magari in altre forme, se non si sarà nel frattempo del tutto emendato dalle sue conseguenze?
Vari studiosi e si sono posti questa domanda, esplorando il tema del trauma collettivo, in particolare riflettendo proprio sugli esiti della Shoah e sulla nascita, subito dopo, dello Stato di Israele. Esistono riferimenti storici e teorici che attestano la continuità tra l'ideologia del sionismo radicale – in particolare quello di destra e revisionista – e la legittimazione delle pratiche violente contro la popolazione palestinese, ben prima della Shoah, oltre che naturalmente dal 1948 in poi. Secondo Masalha, ad esempio, l'idea del trasferimento forzato, su base etnica, della popolazione residente era già presente nel sionismo dei primi decenni. Fondato nel 1931, l'Irgun Zvai Leumi (o Etzel) fu responsabile di attacchi terroristici contro civili arabi negli anni '30 e '40. Si trattava di un'organizzazione paramilitare sionista, staccatasi dall'Haganah (che aveva difensivi), con una linea esplicitamente compiti offensiva e terroristica, teorizzata tra gli altri da Vladimir (Ze'ev) Jabotinsky, figura cruciale e controversa nella storia del sionismo, padre del sionismo revisionista, la corrente nazionalista, militarista e fortemente anti-araba che ha influenzato in modo profondo la politica israeliana, fino ai giorni nostri. Già fondatore della Legione Ebraica che combatté con i britannici nella Prima guerra mondiale, il suo saggio più noto, The Iron Wall (1923), è un testo fondamentale per comprendere l'origine ideologica della linea intransigente verso i Palestinesi. Il suo sionismo non va inteso come spiritualità o diaspora redenta, ma come nazione concreta, armata, maschile, conquistatrice. D'altra parte, l'obiettivo dell'Irgun era imporre lo Stato ebraico in Palestina anche con la violenza, battendosi contro gli inglesi del Protettorato e gli arabi palestinesi.
Resta però fondamentale collocare Jabotinsky nel clima culturale e politico dell'Europa coloniale di fine Ottocento e inizio Novecento, perché la sua visione del sionismo è chiaramente plasmata da modelli imperialisti europei. Jabotinsky non è un'eccezione “ebraica”, ma un esempio pieno di intellettuale europeo immerso nel paradigma coloniale dell'epoca. La sua idea di “muro di ferro” pare l'equivalente sionista delle fortificazioni britanniche in India, delle missioni francesi in Algeria, delle linee di frontiera sudafricane volute, in quegli stessi anni, da Cecil Rhodes.
Ciò non significa dimenticare che da sempre lo Stato di Israele ei suoi abitanti hanno vissuto aggressioni e attacchi terroristici. La questione del trauma va quindi ben oltre lo studio accademico, facendo parte purtroppo della vita quotidiana. Queste circostanze hanno di fatto trasformato Israele in una sorta di laboratorio naturale di stress, che ha permesso la ricerca sistematica degli effetti biopsicosociali dello stress post-traumatico su soldati e civili. Zahava Solomon ha condotto diverse ricerche su veterani dell'esercito israeliano e su figli di sopravvissuti alla Shoah, mostrando come il trauma possa influenzare anche la disposizione a usare la violenza, giustificare l'autodifesa o sviluppare stati ansiosi e persecutori collettivi (Solomon et al., 1994). Così, la studiosa israeliana ha studiato a più riprese veterani (soprattutto dopo la guerra del Libano e l'Intifada) e figli di sopravvissuti alla Shoah, dimostrando che l'esperienza traumatica dei genitori influenza fortemente la debolezza dei figli, anche se questi non hanno subito direttamente violenza. Ha contribuito così a mettere in evidenza il concetto di “trauma secondario”, che può assumere anche forme politiche: atteggiamenti di sospetto, ritiro, aggressività difensiva. Un esempio chiave: in uno studio, ha riscontrato che figli di sopravvissuti alla Shoah erano più propensi ad accettare e ammettere l'uso della forza da parte di Israele, per una forma di iperidentificazione con la minaccia. In un altro lavoro (Solomon, 2020), ha passato in rassegna i risultati di una serie di ricerche sugli effetti a breve ea lungo termine della guerra sulla salute mentale dei veterani; sulle conseguenze della loro esposizione ripetuta alla guerra; sulle traiettorie del disturbo post traumatico da stress (PTSD) e, in particolare, sulla riattivazione del PTSD a insorgenza ritardata. Sono così emersi con chiarezza gli effetti a catena del trauma: com'è noto da tempo, i veterani non si lasciano alle spalle gli eventi della guerra una volta tornati a casa, ma ne vengono accompagnati ovunque. Di conseguenza, il trauma ha un effetto a catena che può estendersi ai coniugi e ai figli dei veterani (Solomon & Zerach, 2020), come si è visto anche nei Siriani, con molteplici manifestazioni e traiettorie del trauma acuto e cronico e mille ramificazioni e implicazioni cliniche.
In psicoanalisi e in psicologia sociale è ormai dunque acclarato il concetto noto come trasmissione transgenerazionale del trauma. Quando un individuo o un gruppo subiscono una violenza sistematica e profonda – come nel caso degli Ebrei nel corso del cosiddetto Olocausto – quel trauma può essere interiorizzato, rielaborato o, talvolta, non elaborato. Se non viene metabolizzato, può trasformarsi in paura costante, ipervigilanza o persino aggressività preventiva, sia a livello individuale che collettivo. Il contratto narcisistico non è solo intrafamiliare: può assumere appunto una forma collettiva. Un popolo può trasmettere ai suoi membri un mandato identitario costruito sul trauma: «Noi siamo coloro che sono stati perseguitati, dunque dobbiamo essere forti, diffidenti, mai più vittime». È un genere di mandato che tende a rinforzare la coesione del gruppo, ma anche a bloccare l'elaborazione del trauma, inducendo ripetizioni inconsce (compulsioni di difesa, violenza preventiva, idealizzazione del dolore). Il rischio è che il trauma diventi “mito”, sacro e intoccabile, impedendo la trasformazione e una reale, piena sua elaborazione, perché elaborarlo significherebbe riconoscerne anche le ambivalenze (nei termini di colpa, rabbia, impotenza), uscendo così dalla posizione di vittima assoluta e accettando la possibilità che la ferita non definisca tutta l'identità propria e della comunità. Etica è la “fatica”, scrive Badiou, citato qui da Giglioli, «che fa avvenire in questo mondo alcune verità» (citato in Giglioli, 2024, p. 107). E Giglioli prosegue così: «Una fatica a cui si può soccombere, ma non certo da vittime. Mentre niente è più nichilistico di un'etica capace di fondarsi solo sul male ricevuto, reale o possibile: edificata sul ricatto del nulla cui sempre si rischia di essere ridotti, la mitologia vittimaria è una religione della morte» (Giglioli, 2024, p. 107).
Oltre il trauma: possibilità di elaborazione
In sostanza, è evidente quanto la memoria della Shoah sia ancora centrale nella costruzione dell'identità nazionale israeliana. Ma gli studi che abbiamo menzione dimostrerebbero che, quando questa memoria si irrigidisce e viene istituzionalizzata quasi in forma sacra, può funzionare come una sorta di contratto narcisistico collettivo che rende pressocché impossibile distinguere tra critica legittima e antisemitismo, finendo col promuovere la giustificazione automatica di ogni forma di difesa, anche oppressiva, e inducendo la ripetizione inconscia della logica traumatica: il confine netto vittima/carnefice si fa instabile. Non si tratta di sostenere che chi ha subito violenza “è destinato” a infliggerla, ma che se il trauma non viene simbolizzato, parlato, pensato e riconosciuto, esso tende a ripetersi sotto altra forma, spesso invertendo le posizioni.
Sebbene il quadro appaia oscuro, è fondamentale ricordare che il trauma, per quanto pervasivo, non è un destino. Il “contratto narcisistico” può essere sciolto attraverso il riconoscimento simbolico, la narrazione condivisa, il lavoro del lutto. In alcune, purtroppo rare, esperienze storiche — come la Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione , fortemente voluta da Nelson Mandela (1995) — si è tentato con un discreto successo di elaborare il dolore collettivo, aprendolo alla trasformazione. Anche altri contesti dimostrano come il superamento delle dinamiche conflittuali sarebbe stato possibile solo passando attraverso un'elaborazione collettiva del lutto: si pensi ai traumi subìti dalle popolazioni civili in situazioni storiche anche molto diverse, come in Ruanda (Mamdami, 2004; Gaind, 2004), nell'ex-Jugoslavia e in Armenia. Purtroppo, il maggior ostacolo a una tale risoluzione è costituito ogni volta da particolari interessi contrapposti degli attori politici, locali e internazionali. La sfida, oggi, è costruire un contesto che permetta d'immaginare la rottura della dinamica identitaria fondata sul trauma per costruire una memoria plurale, con la collaborazione di quegli attori interni ed esterni disponibili ad accogliere e farsi carico della complessità delle ferite, senza feticizzarle. Lo spettro, ristretto, delle soluzioni consigliate di tentare di non “ammalarsi” di lutto, provandosi piuttosto a elaborarlo e sperimentare tutti insieme.
In sintesi, il trauma collettivo, se non elaborato, tende a ripetersi in forma rovesciata. La psicoanalisi, con il suo apparato concettuale, offre strumenti preziosi per comprendere e — auspicabilmente — aiutare a interrompere la catena della violenza. Il caso israeliano dimostra quanto la storia non sia solo un fatto di eventi, ma anche di fantasmi, mandati e legami invisibili. Riconoscerli è il primo passo per uscirne.
Nota
[1] Illouz, E. (2023) denuncia quello che definisce “il nazionalismo vittimario” che fa leva sull'Olocausto per costruire una identità blindata, impermeabile alla critica, e capace di giustificare l'oppressione del popolo palestinese, fondandosi su tre “emozioni negative”, quali la paura, il disgusto e il risentimento.
[2] La filosofia americana insiste sul fatto che essere ebrei, con tutto quello che ciò comporta, non dà il diritto di opprimere. La memoria dell'oppressione dovrebbe anzi rendere le vittime di un tempo più capaci di compassione, non di dominio (Butler, 2012).
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