martedì 13 maggio 2025

Referendum di giugno: un voto necessario per la democrazia - Giovanni Cannella

Da: https://rivistacriticadeldiritto.it - Giovanni Cannella ha svolto le funzioni di giudice del lavoro per quarant'anni, in pretura, in tribunale e in corte d'appello, negli ultimi anni come presidente di sezione della Corte d'appello di Roma. 

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Perché è importante votare per i referendum dell’8 e 9 giugno?

La domanda è legittima, se si considera lo scarso rilievo attribuito a questa tornata elettorale da giornali, tv, social.

Vale davvero la pena di scomodarsi, di rinunciare magari ad una gita al mare per andare a votare? 


Noi riteniamo di sì. A nostro avviso l’importanza dei referendum trascende l’effetto dei singoli quesiti, perché il loro esito è utile a misurare il livello della nostra democrazia.

I quesiti, come si dirà, si riferiscono al mondo del lavoro, compreso quello relativo alla cittadinanza, seppure indirettamente, ed hanno la funzione di riaffermare la centralità, per una democrazia che possa davvero definirsi tale, del diritto dei lavoratori, ma in sostanza di tutte le persone, alla dignità personale, ma anche all’integrità fisica, fino alla stessa vita.

Ma in che modo i quesiti si riferiscono ai diritti fondamentali delle persone? 

Ebbene il filo conduttore dei cinque quesiti, come vedremo esaminandoli singolarmente, è l’impellente necessità di rispristinare o potenziare diritti degli ultimi, dei soggetti più esposti agli effetti deleteri di una società sempre più crudele e indifferente, nella quale la povertà e la diseguaglianza si estende senza argini, fagocitando sempre più soggetti.

L’esito positivo dei referendum, per cui non basterà solo la maggioranza dei Sì, essendo necessario anche il raggiungimento del quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto, non risolverà certo il problema, ma almeno costituirà un primo passo ed un importante segnale del popolo sovrano verso un’inversione di tendenza.

I quattro quesiti, che riguardano direttamente il lavoro, si riferiscono ai contratti a termine, agli appalti e ai licenziamenti, ed hanno appunto lo scopo di rendere meno pesante la precarietà della condizione lavorativa, che rende i lavoratori esposti ai ricatti dell’imprenditore, li rendono vulnerabili e quindi facili vittime di sfruttamento.

E sfruttamento significa calpestare la dignità dei lavoratori, attraverso paghe da fame, orari impossibili, condizioni ambientali e di sicurezza da paese incivile, agevolando anche gli infortuni e le morti sul lavoro, a cui sembriamo ormai abituati.

Ma anche il quinto quesito, relativo alla cittadinanza, ha un effetto seppure indiretto sugli ultimi, molto spesso proprio gli extracomunitari, che, senza cittadinanza, sono esposti al ricatto del mancato rinnovo del permesso di soggiorno, e la cui precarietà dal mondo lavorativo si estende anche alle condizioni di vita.

Tutelare gli ultimi costituisce, d’altra parte, il compito fondamentale che la nostra Costituzione affida al legislatore, e cioè la rimozione degli ostacoli alla realizzazione del principio di eguaglianza (vedi art. 3).

E quindi i quesiti referendari, avendo lo scopo di ridurre le diseguaglianze, le discriminazioni, gli abusi, i ricatti, nei confronti degli ultimi, dei più deboli, dei più poveri, dei soggetti ai margini della società, ma anche di una massa di lavoratori, che seppure non marginali, subiscono comunque ingiustizie che contrastano con il principio di eguaglianza, sono utili  a correggere almeno in parte le storture di una società sempre più lontana dalla democrazia voluta dai padri della Costituzione.

PRIMO QUESITO: Licenziamenti illegittimi (abrogazione Jobs Act)[1]

La sanzione prevista per i licenziamenti illegittimi ha una funzione centrale per la tutela dei lavoratori, essendo necessaria per garantire loro quella dignità di cui si parlava, perché tanto più la sanzione è idonea a dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustamente il lavoratore, tanto meno egli è ricattabile e vulnerabile e tanto più quindi può esercitare i propri diritti.

Il legislatore degli anni ’70 si rese conto che il solo risarcimento patrimoniale, per di più neppure integralmente riparatore del danno ingiusto subito, non era sufficientemente dissuasivo, ed approvò quindi il famoso art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300), che obbligava l’imprenditore, che aveva compiuto l’illecito recesso, a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, oltre a pagargli tutte le retribuzioni perdute.

Non è un caso che solo dopo l’introduzione dell’art 18 cominciarono ad affacciarsi nelle aule di giustizia lavoratori disposti a chiedere il rispetto dei loro diritti anche nel corso del rapporto, non più impauriti dalla reazione del datore di lavoro e dal rischio di perdere il posto (finalmente il lavoratore era diventato cittadino anche in azienda, non più soggetto al potere assoluto del padrone).

Sono noti i tentativi della parte padronale di abolire l’art. 18 al fine di riprendere la precedente libertà di comando dell’azienda senza limiti (i famosi lacci e lacciuoli). Per alcuni decenni la società civile riuscì a resistere fino all’oceanica manifestazione di tre milioni di persone che bloccò l’iniziativa del Governo Berlusconi.

Ma nel 2012 con la riforma Fornero la norma subì il primo colpo, poiché furono ridotti i casi di reintegrazione e ridimensionata anche l’entità del risarcimento, non più sempre integrale.

Tuttavia, il colpo più pesante inferto all’art. 18 si deve al famoso Jobs Act del 2015 del Governo Renzi, e quindi al centrosinistra. Ed è questa la disposizione che il referendum intende abrogare, per ritornare quantomeno alle sanzioni previste dalla legge Fornero.

Il Jobs Act, infatti, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ha ristretto il diritto alla reintegrazione ad ipotesi residuali, e cioè soltanto ai licenziamenti discriminatori, nulli e orali, oltre al caso specifico di difficile interpretazione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, nel quale sia direttamente dimostrato in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato.

Si tratta di ambiti molto ristretti che difficilmente trovano sbocco nelle aule di giustizia, perché è difficilissimo provare il motivo illecito o discriminatorio, non è frequente il licenziamento orale, ed è di difficile applicazione l’ipotesi residua relativa all’insussistenza del fatto materiale.

Per le altre ipotesi è previsto solo il risarcimento del danno, peraltro non integrale e basato esclusivamente sull’anzianità (limitazione in seguito corretta dalla Corte costituzionale).

I requisiti di proporzionalità, dissuasività e deterrenza della sanzione, richiesti anche dalle fonti europee e dalle decisioni della Corte di giustizia, si sono quindi dissolti e solo con il referendum è possibile porvi almeno parziale rimedio.

Senza l’abrogazione della norma, che si otterrebbe con la vittoria dei Sì, anche i c.d. lavoratori stabili, e cioè quelli con rapporto a tempo indeterminato, sono, in realtà, precari e quindi vulnerabili, perché esposti ai ricatti del datore di lavoro.

SECONDO QUESITO: licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese[2]

Nelle imprese con meno di sedici dipendenti, nel caso di ingiusto licenziamento, non trovano applicazione le sanzioni previste dall’art 18 e dalle successive modifiche.

Quindi nessuna reintegrazione ma solo, in base ad una legge che risale al 1966 (n. 604), una modesta indennità che non può essere superiore a sei mensilità (o dieci per anzianità superiore ai 10 anni e quattordici per anzianità superiore a 20 anni, ma ormai pochi rapporti di lavoro sono di lunga durata).

Il differente trattamento si spiega con le condizioni lavorative dell’epoca, quando prevalevano le grandi imprese con molti dipendenti, mentre le piccole imprese avevano natura prevalentemente familiare. Il legislatore dell’epoca ritenne quindi che l’esigenza di tutelare i lavoratori dovesse essere bilanciata con la necessità di non danneggiare eccessivamente il piccolo imprenditore, seppur colpevole di aver licenziato ingiustamente il lavoratore, data la limitata disponibilità economica propria di una piccola impresa familiare.

Oggi il mondo del lavoro è decisamente cambiato. Stanno quasi scomparendo le piccole ditte familiari, il piccolo negoziante, l’artigiano, la piccola ditta edile, fagocitate da grandi magazzini o ditte di servizi di maggiori dimensioni, e la maggior parte delle imprese con meno di 16 dipendenti hanno, in realtà, altra natura, che non giustifica una tutela particolare a scapito dei lavoratori.

Il numero limitato di dipendenti non indica più debolezza economica dell’impresa, poiché la prevalenza delle strutture e delle macchine sul personale ha ormai reso normale l’esistenza di aziende con pochi dipendenti ma con un elevato volume d’affari.

Ma va anche considerato un altro aspetto. La tipologia dei rapporti di lavoro è ormai molto varia e ciò comporta che molti lavoratori vengono conteggiati parzialmente (part time, lavoro intermittente) o non vengono conteggiati per nulla (apprendisti, lavoratori somministrati) nel numero ai fini della configurabilità della piccola impresa. Vi sono, inoltre, lavoratori di imprese appaltatrici o subappaltatrici o nelle quali vengono utilizzati lavoratori autonomi (e quindi non conteggiabili), ma che spesso lavorano negli stessi locali dell’azienda e comunque vanno considerati per valutarne la forza economica.

Infine, non occorre dimenticare che la legge del 1966 fu promulgata in pieno boom economico e quindi in un’epoca in cui il lavoratore licenziato aveva reali possibilità di trovare un altro lavoro, non paragonabile con quella attuale, che soffre di un alto tasso di disoccupazione soprattutto al sud. Ciò comporta che in caso di licenziamento ingiusto il lavoratore subisce un danno effettivo ben superiore alle sei mensilità, essendo verosimile che la perdita del reddito da lavoro si protragga a lungo, esponendo lui e la sua famiglia a condizioni di vita degradanti, con danni anche esistenziali.

La stessa Corte costituzionale (sent. n. 183/2022) se ne è resa conto, rilevando che un’indennità costretta entro un esiguo divario tra minimo e massimo “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda” e non rappresenta un rimedio congruo e coerente con i requisiti di adeguatezza e dissuasività, e sollecitando il legislatore ad intervenire.

Ma nulla è stato fatto e quindi non resta che modificare la norma mediante il referendum, sopprimendo il tetto delle sei mensilità e consentendo quindi al giudice di determinare l’indennità, tenendo conto sia del danno effettivo, che della reale forza economica dell’impresa.

TERZO QUESITO: La causale nei contratti a termine[3]

Uno degli esempi più eclatanti di precarizzazione dei rapporti di lavoro riguarda il rapporto a termine.

In tale rapporto, ovviamente, non si applica l’art. 18. Nessuna reintegra o risarcimento è previsto, anche perché la fine del rapporto non è dovuto ad un licenziamento, ma semplicemente alla scadenza del termine (solo il recesso anticipato, se ingiustificato, obbliga il datore al pagamento delle retribuzioni fino alla scadenza).

Il datore di lavoro, quindi, se vuole far cessare il rapporto, per qualsiasi ragione, in teoria anche discriminatoria (per sesso, razza, religione), non deve far nulla. È sufficiente che non rinnovi o proroghi il contratto.

Il lavoratore è quindi pienamente vulnerabile: si guarda bene dall’esercitare i propri diritti, perché teme il mancato rinnovo del contratto.

Questa è la ragione per cui i contratti a termine, sono, o dovrebbero essere, un’eccezione e tale vengono considerati, fra l’altro, dalla Comunità europea (cfr. in particolare la direttiva 1999/70), che indica come regola il rapporto a tempo indeterminato e come eccezione, per specifici casi, il rapporto a termine, proprio allo scopo di tutelare i diritti dei lavoratori.

Anche in Italia questa era la regola in base alla legge n. 230/1962, che consentiva l’assunzione a termine solo per esigenze specifiche espressamente previste. In conseguenza il numero dei rapporti a termine era limitato.

Nei decenni successivi, tuttavia, l’ondata di liberalizzazione che ha investito il diritto del lavoro ha colpito anche pesantemente questo istituto, fino al picco degli anni 2012-2015, con la legge Fornero, il c.d. decreto Poletti e il Jobs Act, che hanno consentito l’assunzione a termine anche senza causale, quindi senza alcuna ragione, fino a 36 mesi.

Le ultime norme sono state parzialmente corrette nel 2018 con il c.d. decreto dignità, che però ha mantenuto la possibilità di assunzione a termine senza causale per un anno.

Ed è questo l’oggetto principale del quesito odierno, che escluderebbe del tutto la possibilità di assunzione a termine senza indicazione della ragione giustificatrice.

Ma c’è anche un altro punto che la vittoria dei Sì modificherebbe. Oggi, oltre i 12 mesi e in caso di proroga o rinnovo l’indicazione della causa è necessaria, ma basterebbe anche solo l’indicazione di esigenze stabilite dalla contrattazione aziendale, in assenza di determinazioni dei contratti collettivi dei sindacati maggiormente rappresentativi, o, addirittura, fino al 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti.

Si tratta di una norma che consente al datore di lavoro di utilizzare il rapporto a termine per le esigenze più svariate, aggirando sostanzialmente la natura eccezionale dell’istituto, utilizzando sindacati di comodo (i c.d. sindacati gialli, di fatto controllati dalla parte datoriale) o addirittura costringendo il lavoratore, in sede di assunzione, ad accettare qualsiasi clausola permissiva nel contratto individuale.

La vittoria dei Sì ridurrebbe le causali consentite solo a quelle previste dai contratti dei sindacati maggiormente rappresentativi e alla sostituzione di lavoratori assenti.

QUARTO QUESITO: Sicurezza sul lavoro negli appalti[4]

Gli infortuni sul lavoro anche mortali sono ormai sempre più spesso oggetto di cronache giornalistiche, tanto spesso che rischiamo di abituarci, di considerarli eventi naturali, non evitabili.

Eppure, se leggiamo con attenzione le cronache degli ultimi incidenti più gravi, ci accorgiamo che molto spesso si tratta di infortuni che si verificano presso ditte appaltarci o subappaltatrici di noti e importanti datori di lavoro.

Perché ciò avviene?

Non è certo una coincidenza, bensì effetto del proliferare di appalti e subappalti, favorito dalla disciplina oggi vigente, che esclude la responsabilità del datore di lavoro committente, sia diretta che solidale, in caso di infortunio dei dipendenti delle ditte appaltatrici o subappaltatrici, causato da “rischio specifico”, e cioè dalla violazione di regole di sicurezza relative alla specifica competenza tecnica di tali ditte.

Si tratta di una limitazione di responsabilità che non c’era nella disciplina originaria e la cui successiva introduzione ha prodotto l’effetto di rendere il datore di lavoro indifferente alle condizioni di sicurezza dei dipendenti di quelle ditte, anche se spesso presenti nei locali di sua pertinenza. D’altra parte, le ditte appaltatrici, pur di ottenere l’appalto per importanti committenti, si fanno concorrenza, presentando offerte al ribasso, che comportano inevitabilmente il taglio dei costi relativi alla sicurezza, ma anche spesso misere retribuzioni per i propri dipendenti (quasi sempre precari e quindi costretti ad accettare tutto), essendo venuta meno la regola, risalente ad una legge del 1960, della parità di trattamento tra dipendenti del committente e dell’appaltatore.

La dignità, l’integrità fisica e la stessa vita dei dipendenti delle ditte appaltatrici e subappaltatrici sono quindi sempre più in pericolo, non solo per lavori marginali, da sottobosco, ma anche per attività lavorative che costituiscono il vanto del made in Italy, dall’impiantistica alla moda delle grosse firme, dall’alimentazione raffinata alla vinicultura da esportazione mondiale, come emerge dalle cronache.

Il referendum cerca di correggere almeno parzialmente questo grave vulnus della nostra società, eliminando la limitazione della responsabilità del committente per i danni derivanti da infortunio sul lavoro per rischi specifici.

Nel caso di vittoria dei Sì, il committente non potrà più essere indifferente, ma dovrà verificare le condizioni di sicurezza relative a tutta la catena degli appalti per non dover rispondere dei danni.

QUINTO QUESITO: Cittadinanza[5]

I lavoratori più esposti al rischio di sfruttamento, alla lesione della dignità personale, agli infortuni sul lavoro sono senz’altro gli extracomunitari. Soprattutto gli irregolari, fortemente vulnerabili, perchè esposti permanentemente al ricatto della denuncia per il reato di immigrazione clandestina e dell’espulsione dall’Italia. Ma anche per i regolari emergono, sempre più spesso, pesanti episodi di sfruttamento, di trattamenti deteriori rispetto agli italiani, sotto il profilo retributivo, delle condizioni ambientali, della sicurezza, favoriti anche dalla scarsa conoscenza della lingua, dalla insufficiente alfabetizzazione, dall’ignoranza relativa ai propri diritti.

Lo strumento migliore per integrare pienamente questi soggetti, evitando fenomeni inconcepibili in un paese civile, è quello della cittadinanza, che consente allo straniero di essere completamente equiparato ai cittadini italiani, potendo esercitare tutti i diritti, compreso il diritto di voto.

Il quesito non è diretto ad un’estensione senza limiti della cittadinanza e quindi la sua approvazione non comporta alcuna invasione dello straniero, come paventato da più parti, ma solo alla riduzione dei tempi di attesa per ottenerla, da 10 a 5 anni, non in via automatica, ma sempre per concessione discrezionale delle autorità amministrative, previa verifica del grado di integrazione (conoscenza della lingua, reddito adeguato, assenza di precedenti ecc.).

D’altra parte, la Corte costituzionale, nell’ammettere il quesito, ha rilevato che cinque anni sono una misura tutt’altro che estranea al nostro ordinamento, essendo rimasta vigente per ben 80 anni (dal 1912 fino alla modifica del 1992) ed essendo ancora oggi prevista per gli adottati maggiorenni e per i rifugiati politici. Dieci anni, peraltro, appare una durata sproporzionata, anche nel confronto con gli altri paesi europei, molti dei quali prevedono proprio un periodo di 5 anni (fra gli altri, Francia, Germania, Svezia, Paesi Bassi, Irlanda).

Va anche considerato che dopo cinque anni la cittadinanza non verrebbe concessa immediatamente, ma lo straniero potrà solo presentare la domanda, per il cui esame sono previsti due anni, prorogabili a tre, e quindi alla fine per la cittadinanza ci vorranno ben 7 o 8 anni, mentre attualmente ce ne vogliono addirittura 12 o 13. 


[1] «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?»

[2] «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?»

[3] «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?»

[4] Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, in tema di “Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”, di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”?»

[5] «Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?».


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