Da: https://zucchett.wordpress.com - Questo articolo è partito da quest’altro, che qui si riporta e di cui si ringrazia l’autore Loris Zecchinato: ma è stato assai ampiamente rimaneggiato. Ecco la fonte: https://www.facebook.com/loris.zecchinato/posts/10236390562362322?rdid=74m9FmfofTjJCz5Z# -
Massimo Zucchetti è professore ordinario dal 2000 presso il Politecnico di Torino, Dipartimento di Energia. Attualmente è docente di Radiation Protection, Tecnologie Nucleari, Storia dell’energia, Centrali nucleari. - Massimo Zucchetti
Proviamoci ancora una volta. Riesaminiamo la situazione in Ucraina alla vigilia della ripresa dei negoziati di Pace. E alla fine proponiamo un piano di pace per l’Ucraina, come abbiamo già fatto quasi tre anni fa [1]: è un periodo così disgraziato che c’è bisogno di miracoli.
Quando un Paese è come l’Ucraina, multietnico, multi-linguistico, multi-religioso. con tradizioni, ambizioni, ideali diversi fra loro nelle sue popolazioni, ha alcune scelte a disposizione per disinnescare eventuali problemi che possono insorgere:
- Si divide pacificamente (come fu per la Cecoslovacchia)
- Si organizza come una federazione di Stati (come la Confederazione Svizzera, la Federazione Tedesca, la Federazione Russa)
- Si struttura con Regioni dotate di un’ampia autonomia (come l’Italia con l’Alto Adige, il Belgio con fiamminghi e valloni, la Gran Bretagna con l’Irlanda del Nord, la Scozia, …)
Se invece decide di strutturarsi come uno Stato “monolitico”, la scelta è più delicata, ma possibile: conclude con *tutte* le proprie Popolazioni un contratto – che si chiama Costituzione: essa comprende la liberta di parlare le proprie lingue, di professare le proprie religioni, di rispettare le proprie tradizioni, eccetera. E si tengono libere elezioni per decidere (specie quando la principale popolazione “di minoranza” e decisamente numerosa), chi guiderà il Paese (Presidente e Governo), ma sempre nelle forme previste dalla Costituzione.
Cosi è stato dal 1991 al 2014 in Ucraina, con Presidenti di diversa “ispirazione”:
Kuchma (in equilibrio fra Est ed Ovest), Jushenko (pro Ovest), Janukovich (pro Est)
Venire meno a questo contratto, romperlo, non rispettarlo, usare la forza (golpe, invasioni con battaglioni punitivi, esercito) per imporre la volontà di una parte (che non è l’intero Popolo ucraino) su di un’altra parte, è incostituzionale e porta alla guerra civile.
Tensioni fra diverse etnie sono sempre possibili, e spesso pure provocate, ma la Storia ci insegna che se vengono affrontate col dialogo, con la diplomazia, se si cercano accordi e/o compromessi, se la comunità internazionale supporta il dialogo (anche facendo capire che, se non si dialoga, si va incontro a sanzioni economiche equamente distribuite fra tutti i contendenti), la guerra civile si può evitare.
Esempi sono la Spagna con la Catalogna e i Paesi Baschi, la Gran Bretagna con la Scozia, l’Italia con l’Alto Adige, le frequenti tensioni fra valloni e fiamminghi in Belgio, la separazione pacifica avvenuta fra cechi e slovacchi.
A fronte di evidenti divisioni nel Paese, è appunto meglio optare per una strutturazione quale una delle ultime due definite all’inizio, perché si è meno a rischio che un cambio di governo – in presenza di una Costituzione con garanzie opinabili – porti alla fine alla guerra civile. Questo è capitato in Ucraina a partire dal 2014: prima una “guerra civile” in due regioni “ribelli” e russofone, contro il governo centrale le cui tendenze nazionaliste ucraine e russofobe si sono via via accentuate. Poi, a partire dal 2022, l’intervento diretto della potente nazione confinante (la Russia) alla quale le due regioni ribelli chiaramente si rifacevano.
Noi rimaniamo dell’idea che il ricorso ad una guerra è sempre deprecabile e non è quasi mai “inevitabile”, a meno che non si aggiungano ulteriori fattori che implichino una minaccia diretta alla sicurezza della propria nazione. In questo caso, alle motivazioni di “tutela delle minoranze russe (o russofone)” dall’oppressione del governo centrale – a deriva sempre più ultranazionalista – si sono aggiunte altre motivazioni (o scuse, a seconda dei punti di vista): principalmente, la prospettata adesione dell’Ucraina all’alleanza militare “nemica”, cioè alla NATO, che già negli scorsi 30 anni si era espansa nell’est europeo fino ad inglobarlo completamente, con l’eccezione appunto della Bielorussia e dell’Ucraina. La Russia si ritrova già con la NATO alle soglie del cortile di casa (si pensi alla Polonia o alle Repubbliche Baltiche); ha evidentemente ritenuto che l’adesione dell’Ucraina potesse spostare i missili della NATO direttamene nel cortile di casa, potenzialmente a 200 chilometri da Mosca. In più, per buon peso, ha anche aggiunto la “denazificazione dell’Ucraina”, che Nazione nazista non è, ma ha al suo interno e nelle forze armate speciali formazioni che al neonazismo o al suprematismo nazionalista ucraino (eroe nazionale tuttora: il suprematista e criminale Stepan Bandera) si riconducono in maniera evidente: proprio quelle forze speciali che per otto anni sono state utilizzate dal governo ucraino per reprimere gli eserciti ribelli e le popolazioni nelle due regioni russofone già citate.
Secondo noi, di tutte queste varie motivazioni, quella che realmente “ha fatto traboccare il vaso” era l’apparentemente inevitabile adesione dell’Ucraina alla NATO: al di là delle questioni etnico/linguistiche o politiche, crediamo che sia stata la visione dei potenziali missili NATO in Ucraina quelli che ha spinto la Russia ad avventurarsi in una guerra (noi siamo pragmatici, chiamiamo “guerra” quella che la Russia chiama “operazione speciale”): una guerra che dura da tre anni ed ha perso ogni caratteristica di “bassa intensità” come si aveva dal 2014 al 2022: l’Occidente ha deciso di sostenere fermamente l’Ucraina, che è rapidamente diventata una Nazione militarmente forte come prima non era mai stata.
Ciononostante, avendo dall’altra parte la Russia, le speranze di “vittoria”, tanto sbandierate in questi tre anni in occidente, erano letteralmente impossibili: la “vittoria” poteva essere, al massimo, ricacciare la Russia entro i propri confini, impresa difficilissima. Ma ci pare evidente che questo non sia accaduto, e non ci siano prospettive perché avvenga, al di là dei proclami di quella parte dei contendenti che la guerra l’ha decisamente persa, ritrovandosi con una Nazione (l’Ucraina appunto) devastata, ridotta a un campo di battaglia, con un numero spaventoso di caduti, infrastrutture gravemente danneggiate, e che sempre più a stento continua a reggere la pressione dell’esercito avversario, grazie al sostegno occidentale. Esercito avversario che, potenzialmente, pare in grado di aumentare gradualmente le proprie forze ed assestarle ulteriori gravi batoste, distruzioni, morte.
Se c’è un po’ di responsabilità e ragionevolezza dalle due parti, risulterà loro evidente che tutto questo ha da finire. Possibilmente in maniera accettabile. Ecco perché si deve trattare.
Vediamo a questo punto due risultati possibili – se invece si va avanti – ed entrambi da evitare:
- La divisione forzata e violenta del Paese (quando le diverse etnie sono abbastanza raggruppate su territori definiti) con una “gravitazione” delle sue parti diverse verso i rispettivi “punti di attrazione” (per l’Ucraina orentale: la Russia). Si pensi alla disgrazia jugoslava, con una nazione “balcanica” e multietnica che per decenni è rimasta pacificamente unita in uno stato sostanzialmente federale, guidata da un leader sagace, che ha sempre fatto tutto il possibile per evitare la predominanza di questa o quella etnia. Scomparso Tito, le tensioni etniche sono state esasperate dall’esterno (facciamolo, il nome: la Germania) e ci sono stati otto anni di guerre civili (1991-1999), nelle quali la NATO (specialmente nel 99) è arrivata all’aggressione aperta ed ai bombardamenti dei civili. La Jugoslavia alla fine si è smembrata, assai traumaticamente.
- La vittoria di una parte sull’altra che sottomette alla sua volontà (con eventuali esodi, diaspore, pulizie etniche, quando non veri e propri genocidi/etnocidi) le altre parti.
Il conflitto in corso in Ucraina è volutamente (ed anche necessariamente per una serie di fattori) “limitato” alle aree del sud est ucraino: cioè le Regioni che al tempo avevano eletto il Presidente “pro-est” Janukovich e che sono fortemente russe/russofone. Nella cartina, sono quelle in giallo: non si tratta di quattro sperduti villaggi, ma di un’intera e vasta area dove, nell’ultimo decennio, anche soltanto parlare la propria lingua era perseguito dal governo centrale. In quelle aree le forze russe sono addirittura viste dalla maggioranza della popolazione come “liberatrici” (specie dopo le angherie subite durante la già citata “guerra a bassa intensità” dal 2014 in poi, bassa intensità da decine di migliaia di vittime, by the way). Piu si va ad Ovest, più questo sostegno cala, per scomparire del tutto nelle Regioni Occidentali dell’Ucraina, dove i sentimenti anti-russi allignano in gran maggioranza, ed hanno radici lontane.
Una vittoria militare della componente etnica ucraina che ha preso il potere nel 2014 – con un colpo di Stato – sulle popolazioni russe/russofone del sud est del Paese non è possibile (dato il coinvolgimento della Russia nel conflitto), ma neppure accettabile, data la natura e le convinzioni dell’attuale governo di Kiev.
La “considerazione” del Governo di Kiev per quelle popolazioni (che ora vivono sul territorio conteso) è stata molto emblematica: sono state spesso usate come scudo umano per rallentare l’avanzata dell’esercito russo. Tra l’altro, ad aumentare i fattori confondenti, l’esercito russo è composto in parte significativa da soldati e ufficiali della ex-Ucraina, principalmente delle repubbliche di Donetsk e Lugansk.
Se qualcuno ha l’occasione di visitare Kiev o Lvov (“la culla del suprematismo ucraino”, per esempio) si renderà conto che in quelle regioni la guerra è ancora “lontana”, anche se comunque dà segnali spiacevoli (ad esempio, i rastrellamenti dell’esercito ucraino per “convincere” la popolazione ad arruolarsi, ed i bombardamenti russi).
Senza garanzie, senza un “nuovo contratto” fra le popolazioni dell’odierna Ucraina, tramite una nuova forma di ordinamento statale e/o una Costituzione più esplicita, con garanzie affidabili e certe del rispetto delle minoranze e dei loro diritti, non c’è spazio per una Ucraina “indipendente” nelle mani di un Governo dominato da ultra nazionalisti “duri e puri galiziani”.
Semplicemente, l’Ucraina immaginata da Zelensky ed i suoi non esiste, con questo atteggiamento e questa politica interna, con questo territorio e questa popolazione, a meno di non far fuori un buon terzo della popolazione, oppure espellerla dalle loro case e spedirla in Russia, insomma fare come fecero Stalin e gli alleati occidentali nel 1945 con la Polonia e la Germania: giunti a questo punto, questa è una soluzione che si sarebbe prospettata in caso di “vittoria ucraina”. Ci sia consentito di esprimere su questa prospettiva un netto rifiuto: grazie no, abbiamo già dato nel 1945, per non parlare della Germania nazista e del suo concetto di “spazio ad est”: vade retro.
A questo punto, esplorando le soluzioni prospettate all’inizio, ci sarebbe la speranza che nuove libere elezioni potessero mandare al potere un diverso Governo, più moderato, rispetto a quello attuale: ma sinceramente, vista la situazione, e visto che non siamo adusi a sponsorizzare “cambi di regime” come fanno le potenze occidentali imperialiste, si tratta di una possibilità che appare aleatoria.
A questo punto, non resta che trovare una linea di demarcazione e dividere il Paese: inorridiamo noi stessi nel prospettare seriamente questo scenario, ma è uno di quelli possibili. Come tutte le linee di confine tracciate dalle guerre, anche in questo caso la loro definizione e applicazione non sarà indolore: si pensi appunto alla Germania nel 1945, e al contemporaneo spostamento verso ovest della Polonia di 200 chilometri, così, con uno schiocco di dita.
La Russia, che ad inizio guerra si sarebbe forse accontentata della fine della guerra civile nelle due repubbliche ribelli e della promessa di non adesione alla NATO dell’Ucraina, ha però adesso obiettivi pù ampi. L’obiettivo della Russia in quest’ottica sarebbe di attestarsi direttamente con i propri confini sulla linea del Dniepr (con Odessa compresa, aggiungono): in questo caso, le “minoranze” russe o russofone diventerebbero in quelle zone allora “la maggioranza”.
Mentre l’Ucraina “con i confini nettamente modificati” (altra dicitura da altra prospettiva: mutilata e malridotta), purché non entri nella NATO, potrebbe buttarsi a capofitto nel suo processo di “occidentalizzazione” economica: innanzitutto, a parer nostro, con una completa ricostruzione dei terribili danni subiti nella guerra, a cura e spese degli occidentali: direi che sia il minimo che possono fare, dopo averla utilizzata come playground bellico in questi anni. Avverrà una rinascita economica? La storia degli ultimi 35 anni ci mostra che questo processo può a volte andar bene, altre volte molto meno, ma (come diceva Dino Zoff) “questo lo vedremo sul campo”. Meglio di una guerra perdurante ed impossibile da vincere, di sicuro.
Su quale sia la linea di demarcazione, secondo noi, c’è spazio per una trattativa, al di là degli statement russi: se la Russia vedesse dall’altra parte tutta la NATO – Stati Uniti inclusi – disposta a trattare su queste basi, ferma e unita ma realista, con nel proprio campo un altro presidente ucraino, possibilmente, dotato di un minimo di sagacia e senza Kallas varie ad abbaiare ai suoi confini (cit. Bergoglio), probabilmente si ammorbidirebbe assai.
Si potrebbe partire da esempio da queste basi: La Crimea alla Russia, Odessa ed un ampio sbocco sul Mar Nero restano all’Ucraina con tutela di tutte le etnie e lingue; le repubbliche del Donetsk e Lugansk non inglobate nella Federazione Russa, ma prima almeno formalmente indipendenti e smilitarizzate con i caschi blu ONU a gestire un referendum regolare per la semplice secessione dall’Ucraina e l’indipendenza, al quale inevitabilmente seguirà un plebiscito per l’annessione alla Russia, inutile nasconderselo. Gli altri territori contesi tornano all’Ucraina ma con una ampia zona smilitarizzata e garantita da una forza di peacekeeping mista Russia-NATO, e con un programma step-by-step in cui si iniziano a levare un po’ di sanzioni. Sulla base del principio “Dire-fare” (come nel JPCOA con l’Iran del 2015, diciamo secondo la famosissima dottrina Reagan: fiducia, ma verificando).
Secondo noi, la Russia – magari con già il retropensiero di interrompere – al tavolo negoziale su queste basi si siederebbe, almeno per non far brutta figura.
Ho partecipato per un decimillesimo alle trattative con l’Iran che hanno portato al JPCOA nel 2015, e la mia piccola esperienza mi dice che, una volta che hai un cessate-il-fuoco e ti siedi a un tavolo di trattative, è difficile che davvero lo abbandoni, a meno che non arrivi un Boris Johnson a sabotare il tutto, ovviamente. Magari minacci di interrompere, fai proclami, ma se la palla passa ai diplomatici e ai tecnici (che sono degli abili e spregiudicati “bastardi” pragmatici) la conclusione più probabile è un accordo.
Una pace ingiusta? Discutiamone e vediamo, prima, sulla base della realtà e non delle rispettive fantasie armaiole o suprematiste.
La stipula di questo accordo, come proposi nel mio modestissimo piano del 2022 [1] andrà fatta con una grande cerimonia nei locali della Centrale Nucleare di Zaporizhzia (in Ucraina, zona smilitarizzata orientale dell’Ucraina): pace nucleare, per evitare una catastrofe nucleare. Perché di trattative fra potenze nucleari si parla (Russia e NATO).
Sgomberiamo poi il campo dalla propaganda, inutile e dannosa. Abbiamo già detto che l’Ucraina non è uno stato nazista: potrà avere al potere un Governo che non ci garba, ma questi – per essere netti e pragmatici – sono affari loro: le situazioni, le opinioni e gli orientamenti di un popolo cambiano, possono cambiare, oppure possono restare gli stessi. Ripetiamo: affari loro, se non vengono a zappare nei nostri orticelli e stanno ai patti. Punto.
Parimenti, la Russia – che non è un giardino dell’Eden capeggiato da un angioletto, ma neppure il male assoluto – non vuole “invadere l’Europa”, piantiamola con questi deliri di costruzione del nemico a tutti i costi, deliri ben motivati dall’insistenza delle lobby delle armi in Europa: la Russia ha reagito, secondo me troppo tardi e in modo deprecabile, all’espansione della NATO che ha fagocitato moltissimi stati dell’est europa dagli anni 90; in più ha reagito all’incrudimento delle politiche contro le etnie e le popolazioni russe o russofone in Ucraina dopo il colpo di stato del 2014, per culminare con l’attuale presidente che è stato eletto con un programma preciso: finirla con la guerra in Dombass e combattere le oligarchie. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto, certamente anche a causa di pesanti ingerenze e “supporto” da parte della NATO, alleanza militare nella quale pensava di entrare “senza colpo ferire”, ovvero pensando che Putin fosse Boris Eltsin: non riconosciamo all’attuale Presidente Ucraino nessuna sagacia politica, ma – ripetiamo – si tratta di un Presidente eletto, con elezioni scadute, ma eletto dagli ucraini. Se piace a loro, piace anche a noi.
Distinguerei nettamente poi l’adesione alla NATO da – invece – una partnership economica con l’Unione Europea. Se l’ingresso in UE di una nazione nelle condizioni dell’attuale Ucraina porterebbe nel giro di pochissimo tempo alla distruzione della sua economia (ricordiamoci della Grecia), appare invece ben conveniente una serie di “pacchetti di aiuti” da parte dell’UE: ma non più armi, sediovuole, ma infrastrutture, macchinari, industrie e centrali energetiche, soldi per la ricostruzione, accidenti. Allarghino pure i cordoni della borsa, i burocrati europei e le lobby industriali che li sostengono, ci pare il minimo dovuto, appunto. Per le armi, no grazie: l’UE si cerchi un’altra guerra da sponsorizzare, non abbiamo dubbi che la troverà.
Per la Russia, poi, non si tratta di “territori da conquistare”, per i quali non ha alcun interesse, ma di popolazioni da preservare. Vi sono considerazioni demografiche e – anche per la Russia – ahimé “etniche”, tali per cui per il Cremlino sono molto più preziose le popolazioni russe o russofone, che i territori stessi: quelli non abitati “dalla propria gente” – poi – assolutamente non interessano.
Per inciso, mentre l’Ucraina ha perso quasi la metà della sua popolazione dall’inizo del conflitto (2014), la Russia è passata da 145 milioni circa a 150 milioni, e qualsiasi aumento è bene accetto, data la vastità dei territori e delle risorse a sua disposizione; aumenti di popolazione purché non provenienti dall’Asia Centrale: se l’altarino del suprematismo etnico ucraino è oramai stato scoperto a Kiev, altrettanto si può fare con il suprematismo etnico russo nella Federazione Russa. Di questo ci pare non ne parli mai nessuno dei tanti commentatori, ma è secondo noi un altro nocciolo dirimente, che spiega assai bene alcuni atteggiamenti del Cremlino ed il suo interesse per le minoranze russe dell’Ucraina.
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