sabato 10 maggio 2025

Gaza alla fame e alla sete. E’ anche il nostro assedio - Paola Caridi

Da: https://www.invisiblearabs.com - Paola Caridi, scrittrice e giornalista. Da oltre 20 anni si occupa di Medio Oriente e Nord Africa. 

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“È in effetti il venerdì 22 sha‘bān dell’anno 492 dell’ègira, il 15 luglio 1099, che i franchi hanno conquistato la Città Santa dopo un assedio di quaranta giorni. Gli esiliati tremano ancora ogni volta che ne parlano, e il loro sguardo si fissa, come se essi vedessero ancora dinanzi ai loro occhi questi guerrieri biondi rivestiti di armatura riversarsi nelle vie, a spada sguainata, sgozzando uomini, donne e bambini, saccheggiando case e moschee. 

Cessato il massacro, due giorni più tardi, non è rimasto un solo musulmano tra le mura della città. Alcuni, approfittando della confusione, sono fuggiti attraverso le porte che gli assalitori hanno sfondato. Gli altri giacciono a migliaia in pozze di sangue sulla soglia delle proprie case o nelle vicinanze delle moschee. Tra loro una gran folla di imām, dottori musulmani e asceti sufi che avevano lasciato il loro paese per venire a vivere un pio ritiro in questo luogo santo. Gli ultimi sopravvissuti sono costretti a svolgere il più penoso dei compiti: portare sulla schiena il cadavere dei propri congiunti, ammucchiarli sui terreni incolti senza dar loro sepoltura e bruciarli prima di essere a loro volta massacrati o venduti come schiavi.”

Sì, eravamo proprio noi, quelli con la croce e la spada. I crociati sulle cui nefandezze si è costruita un pezzo di storia europea. Occorre sempre stravolgere il nostro sguardo assuefatto al modo di raccontarla, la “Storia” umana, per riuscire a vedere con gli occhi dell’Altro. Ci aiuta, in questo caso, Amin Maalouf. Uno dei più importanti, famosi, citati intellettuali libanesi e arabi. La descrizione della caduta nel 1099 di Gerusalemme nelle mani dei franchi, dopo un assedio feroce, è in un testo che ha oltre quarant’anni. Il meno citato, eppure il più importante, soprattutto oggi. Le crociate viste dagli arabi (ripubblicato in Italia recentemente da Nave di Teseo).

Sono passati mille anni, quasi, dalla caduta di Gerusalemme e dal periodo tremendo in cui, a essere prese di mira, erano proprio le città. Le città fortificate: Acri, Tripoli, Sidone, Aleppo, e Gaza. In un elenco quasi infinito della realtà urbana della regione, tutto il contrario del nostro perenne e permanente stereotipo: tende e poco altro. No, erano città, e città fiorenti. Sono passati mille anni, e siamo di nuovo noi. E di nuovo lì, sull’altra costa del nostro comune Mediterraneo. Mare di tutti.

Noi europei, alleati di chi sta compiendo un genocidio a Gaza: il governo israeliano ha dato mandato alle sue forze armate di compierlo, il genocidio. E fa impressione quanto le pratiche belliche, crudeli e senza pietà, di quasi mille anni fa siano riproposte in chiave 2.0, aiutate dalle tecnologie avanzate, dai droni guidati dall’intelligenza artificiale. Eppure, allo stesso tempo, siano rimaste ferme, lì, a un millennio fa. Alla fame e alla sete. All’assedio di stampo medievale. Sotto un assedio ben più lungo dell’assedio di 40 giorni nel 1099, in cui era stata tenuta Gerusalemme, è Gaza – la Striscia di Gaza, 365 chilometri quadrati di città e cittadine che si estendono da nord a sud senza soluzione di continuità. Sotto assedio soft – per modo di dire – da decenni, e poi in modo sempre più stringente dal 2007 al 2023. E infine dopo il 7 ottobre 2023, ancor più sigillata. Un catino che non ha, come mille anni fa, mura possenti, mura-fortezza entro le quali rifugiarsi. Ha al contrario, costruite dagli assedianti, muri e recinzioni, e ammassi di terra, e checkpoint e strade militarizzate.

Sotto assedio. Da terra. E dal cielo, con il rumore incessante dei droni che farebbe impazzire chiunque, e fa impazzire i palestinesi da anni e anni.

Sotto assedio, soprattutto nel modo più crudele, subdolo, senza sangue. Igienizzato. L’assedio della fame e della sete. L’assedio in una cella di 365 chilometri quadrati in cui il carceriere (Israele) non fa entrare una goccia d’acqua. Né riso, o farina. Niente. Nulla. Da due mesi esatti, dal 2 marzo, quando – formalmente – era ancora in vigore l’accordo complessivo di cessate il fuoco concordato alla presenza dei mediatori, Qatar, Egitto, Stati Uniti (Europa assente, anzi, totalmente esclusa).

Da due mesi esatti due milioni di persone – circa, il numero non è certo, visto il massacro in corso da un anno e mezzo – non hanno di che mangiare. Cominciano a morire di fame, per carestia indotta da Israele, mentre migliaia di camion, tir, autoarticolati giacciono sotto il sole, già forte, alle spalle dei valichi, in attesa che il carceriere (Israele) apra i cancelli.

Ho l’impressione che in Italia non si riesca a immaginare lo spazio in cui tutto questo si svolge. Non si riesca, cioè, a ricreare il modellino, il rendering dello spazio fisico e geografico di Gaza. Altrimenti non riusciremmo a sopportare un giorno di più l’enormità morale che ci sta schiacciando. Non si vedono neanche le immagini – da inferno dantesco – delle grandi, medie, piccole pentole di risulta, quelle che i palestinesi di Gaza sono riusciti a portarsi nel loro viaggio perenne dentro questo formicaio sigillato.

Le pentole luccicano, colpite dai raggi del sole, nelle foto che riprendono dall’alto la folla che si accalca attorno alle cucine comuni, messe su dalle organizzazioni umanitarie, le ong, le piccole associazioni che ancora sono lì. Gli eroi e le eroine che ci salveranno da un suicidio collettivo in corso. Ci salveranno anche con il loro sacrificio, perché quelle cucine, e i magazzini di stoccaggio dei viveri e dell’acqua e dei medicinali sono stati presi di mira e colpiti dall’aviazione israeliana. Le pentole luccicano, sollevate da mani adulte e dalle manine dei bambini, in attesa che un grande mestolo le riempia, o solo le tocchi. Mentre nelle tende, tra le macerie, la morte silenziosa e invisibile per fame non fa – appunto – rumore.

Il rumore, invece, dovrebbe farlo anche dentro i noi. E costringerci a dire: “oddio, oppure O Dio, cos’ho fatto? Dov’ero?”

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