sabato 25 marzo 2017

Introduzione a Per la Critica dell'Economia Politica*- Stefano Garroni

Nel primo §. (Individui autonomi. Idee del XVIII secolo), l’argomento di Marx è facilmente riassumibile. L’economia politica ha come oggetto la produzione materiale, la quale è svolta da individui, che lavorano in certe condizioni sociali; è naturale, dunque, (nel senso di “è ovvio”, “va da sé”) che il discorso dell’economia politica prenda le mosse dagli individui, che operano in condizioni socialmente determinate. E’ pur vero che nel Settecento si è andato imponendo un altro modo di procedere, ovvero, si è ritenuto di poter iniziare il discorso dell’economia politica a partire dall’individuo isolato, dal Robinson Crusoe (il personaggio dell’omonimo romanzo settecentesco di Daniel De Foe). ma si tratta di un’illusione dell’epoca (la robinsonata), la quale consegue, per un verso, dal tentativo di legittimare l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un altro, dalla cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia possibile, solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime se stessa attraverso individui isolati.
Questo è, di primo acchito, il discorso che Marx fa. E’ vero, tuttavia, che guardando le cose più a fondo -per così dire con uno sguardo più sospettoso e scaltrito-, la faccenda si rivela più complessa.

Il fatto stesso che Marx ponga il tema del ‘punto di partenza’ (Ausgangspunkt) significa, implicitamente, richiamare Hegel, il quale aveva iniziato, ad es., la sua Scienza della logica (Wisenschaft der Logik) proprio affrontando la questione dell’Ausgangspunkt. Ed Hegel è richiamato anche nel proseguo. Infatti, quello che Marx, subito, indica come naturalmente il punto di partenza, a ben vedere, corrisponde ad una immediata considerazione, ad un diretto collegamento con l’esperienza: in altre parole, è come se Marx dicesse «basta guardar gli uomini che lavorano, per rendersi conto che lavorano in condizioni socialmente determinate».

Sennonché uno dei punti centrali del ragionamento, che Marx svolgerà in questo testo, è proprio la dimostrazione che cogliere la struttura sociale della produzione è operazione tutt’altro che naturale, perché, al contrario, assai raffinata -un’operazione, che richiederà di far ricorso a complesse procedure sia logiche che epistemologiche. Insomma, come vedremo, l’effettivo Ausgangspunkt, per Marx, richiederà un rapporto tutt’altro che immediato e naturale con l’esperienza.

Giungere all’effettivo punto di partenza, infatti, richiede superare la fase della robinsonata. Ma che cos’è quest’ultima? E’ il momento in cui l’insieme immediato -di uomo e sue condizioni di lavoro- viene rotto: il «tutto» dell’esperienza si scinde e l’individuo si separa dalle condizioni oggettive (sociali e naturali) della sua attività produttiva, ponendosele, per così dire, di fronte, come poteri estranei, dai quali egli è tanto indipendente, quanto essi stessi sono indipendenti da lui. In termini hegeliani, questo è il momento dell’intelletto (Verstand) che, giusta la lezione di Hegel, introduce, appunto, la scissione nella totalità immediata. Solo superando questo momento, sarà possibile -lo vedremo- conquistare l’effettivo punto di partenza.
La conclusione è chiara: il semplice discorso che Marx fa di primo acchito, in realtà, è un richiamo assai preciso ad un fondamentale ritmo del ragionamento hegeliano. Fin da subito, dunque, comprendiamo che sarà possibile intendere effettivamente queste pagine di Marx, solo a condizione di evidenziarne il legame con la riflessione di Hegel.

venerdì 24 marzo 2017

Tesi su Feuerbach* - Karl Marx

*Questo testo tanto breve quanto denso fu scritto da Marx nel marzo del 1845. Rimase tuttavia a lungo inedito finchè non fu pubblicato nella Neue Zeit (1886) da Engels che lo riprodusse in appendice al suo Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888). Si è usata qui la traduzione italiana di Palmiro Togliatti, in appendice al vol. Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80.  https://www.marxists.org/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/05/ancora-sulla-dialettica-tesi-su.html
Ascolta anche:     https://www.youtube.com/watch?v=b8MG0OUn4Vo

I

Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E' accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l'importanza dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica.

II

La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.

mercoledì 22 marzo 2017

Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero di Gramsci*- Salvatore Tinè


Quello del rapporto tra internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione cosmopolitica del sistema di produzione capitalistica. Una vocazione  che gli appariva particolarmente evidente nei settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli  e delle nazioni e su quello della libertà degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918.

L’economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo.[1] 

lunedì 20 marzo 2017

La barbarie dello «specialismo»*- José Ortega y Gasset



La tesi era che la civiltà del secolo XIX ha prodotto automaticamente l’uomo‐ massa. Conviene di non chiudere la sua esposizione generale senza analizzare, in un caso particolare, il meccanismo di questa produzione. In tal modo, nel concretarsi, la tesi guadagna in forza persuasiva. 

Questa civiltà del secolo XIX, dicevamo, può riassumersi in due grandi dimensioni: democrazia liberale e tecnica. Consideriamo adesso soltanto quest’ultima. La tecnica contemporanea nasce dall’accoppiamento del capitalismo con la scienza sperimentale. Non tutta la tecnica è scientifica. 

Chi fabbricò nell’età preistorica le torce con la pietra focaia, mancava di senso scientifico non sospettarlo minimamente l’esistenza della fisica. 

Soltanto la tecnica moderna europea ha una radice scientifica, e da questa radice le deriva il suo carattere specifico, la possibilità di un progresso illimitato. Le altre tecniche ‐mesopotamiche, nilota, greca, romana, orientale‐ tendono fino a un punto di sviluppo che non possono sorpassare, e, appena lo raggiungono, cominciano a retrocedere in una misera involuzione. 

Questa prodigiosa tecnica occidentale ha reso possibile la meravigliosa prolificità della casta europea. Si ricordi il dato statistico da cui è partito questo saggio e che, come facemmo notare, racchiude in germe tutte queste meditazioni. Dal secolo V al 1800, l’Europa non giunge a ottenere una popolazione maggiore di 180 milioni. Dal 1800 al 1914 ascende a più di 460 milioni. Il salto è unico nella storia dell’umanità. Non si può dubitare che la tecnica ‐insieme alla democrazia liberale‐ ha generato l’uomo‐massa nel senso quantitativo di questa espressione. Però queste pagine hanno cercato di mostrare che è anche responsabile dell’esistenza dell’uomo‐massa nel senso qualitativo e peggiorativo del termine. 

Per «massa»  ‐ed è un’avvertenza che facemmo fin dal principio‐ non si intenda specialmente l’operaio; non designa qui una classe sociale, ma un tipo o un modo d’essere dell’uomo che si ritrova oggi in tutte le classi sociali, che per ciò stesso rappresenta il nostro tempo, su cui esso prevale e domina. 

Chi esercita oggi il potere sociale? Chi impone la struttura del proprio spirito all’epoca? Senza dubbio, la borghesia. Chi, in seno a questa borghesia, è considerato come il gruppo superiore, come l’aristocrazia del presente? Senza dubbio, il tecnico: ingegnere, medico, finanziere, professore ecc., ecc. Chi, dentro a questo ambiente tecnico, lo rappresenta con maggiore altezza e purezza? Indubbiamente, l’uomo di scienza. Se un personaggio «astrale» visitasse l’Europa e, con animo di giudicarla, le domandasse attraverso a quale tipo d’uomo, fra quelli che l’abitano, preferisse di essere giudicata, non c’è, dubbio che l’Europa indicherebbe, compiaciuta e sicura di una sentenza favorevole, i suoi uomini di scienza. E, naturalmente, il personaggio «astrale» non domanderebbe di portare il giudizio su individui d’eccezione, ma cercherebbe la norma, il tipo generico dell’uomo di scienza, vertice dell’umanità europea. 

Ebbene, dunque: risulta che l’attuale uomo di scienza è il prototipo dell’uomo‐massa,. E non a caso, né per difetto personale di ciascun uomo di scienza, ma perché la scienza stessa  ‐radice della civiltà- lo tramuta automaticamente nell’uomo‐massa: cioè, fa di lui un primitivo, un barbaro moderno. 

domenica 19 marzo 2017

Sul CAPITALE: Storia e Logica*- Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione del 11/03/99: Sul Capitale - Storia e Logica https://www.facebook.com/groups/
Qui l'audio dell'incontro:   https://www.youtube.com/playlist?list=PL88CA5CCDE4BD1EAC


[...] La prova induttiva, in definitiva, è questa: il mondo, il mondano, cioè la dimensione dell’esistente, è la dimensione del finito, del particolare; di ciò che per esistere ha bisogno di altro. E’ il mondo degli effetti che hanno bisogno delle cause, ma a loro volta le cause sono effetti di altre cause, quindi ogni esistente rinvia ad altro per giustificare la propria esistenza. In questo continuo rinvio del contingente a una causa che lo spiega, la quale causa a sua volta diventa però un contingente che è effetto di un’altra causa ecc., ; in questo continuo rinvio non si raggiunge mai una stabilità, non si raggiunge mai una ragione dell’esistenza di questo contingente: donde la necessità di postulare una ragione fuori del mondo del contingente, che sia la ragione di tutto il mondo contingente.

[...] E’ molto importante il fatto che quando Hegel affronta questo tipo di prova dell’esistenza di dio, mette in evidenza che accettando queste prove, e quindi accettando quel ragionamento per cui il contingente trova nel necessario la propria causa, si dimostra anche il contrario, e cioè che è proprio il contingente che pone il necessario. Cioè che così come è vero che il particolare, il finito, il contingente, ha bisogno del necessario per esistere, il necessario intanto esiste in quanto è necessario del contingente.

E’ del tutto chiaro che se esiste una legge che vieti qualcosa, esisterà la violazione di quella legge: in quanto la gente ruba c’è una legge che dice “Non rubare”, e quindi la legge del non rubare, intanto può esistere in quanto esiste il contrario del non rubare, cioè il fatto del rubare. Questa legge, intanto può esistere in quanto esiste il contrario di se stessa, cioè la sua violazione, e quindi il mondo della legge, della regola, del diritto, implica l’esistenza del mondo del delitto.

[...] No, no, no, noi diamo per scontato che sia vero. Ma capisci che cosa mostruosa è dire che un evento storico, è quello che è per ragioni logiche? E’ cosa mostruosa perché tu hai fatto della logica, delle leggi logiche, la legge della storia. Il che è la follia più totale. Basta assistere a una seduta del nostro parlamento per vedere che la politica con la logica non ha nulla a che vedere. Spiegare la storia, la politica, l’economia, con le leggi logiche, è il massimo dell’aberrazione nel senso che tu inventi un mondo di sogni. Sembrerebbe allora che nella storia il miglior politico sia il miglior logico matematico, perché è quello che sa fare meglio i conti logici, ed è quindi il miglior politico, e invece non è vero nulla.

E' interessante che Marx molte volte, quando deve spiegare il suo discorso, ricorre proprio a quello schemino che dicevo. Per esempio c’è uno scritto sulla forma di valore, che è tutto costruito in questa maniera: tanto di X è uguale a tanto di Y, perché valgono tutti 10 lire.

sabato 18 marzo 2017

La produzione capitalistica di fabbrica fondata sulle macchine*- Aleksandr A. Kusin

*da Aleksandr A. Kusin, Marx e la tecnica, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, 1975   www.resistenze.org  
Leggi anche:   https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2016/06/30/limperialismo-nel-xxi-secolo/ 


"La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l'operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. E' fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l'operaio ad adoprare la condizione del lavoro ma viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l'operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica il mezzo di lavoro si contrappone all'operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente." (K. Marx, Il Capitale

"Finché il capitale è debole, esso stesso ricerca  ancora le grucce di modi di produzione tramontati… Ma non appena si sente forte, esso getta via le grucce e si muove in accordo con le sue proprie leggi. Non appena comincia a percepirsi come ostacolo allo sviluppo e a essere vissuto come tale, esso cerca rifugio in forme che, mentre sembrano perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano al tempo stesso la dissoluzione sua e del modo di produzione su esso fondato."  (Karl Marx, Grundrisse)

“il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo  cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale” (Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo) 


1. La necessità tecnica del passaggio dalla manifattura alla produzione meccanizzata di fabbrica

venerdì 17 marzo 2017

Marxismo e femminismo*- Simona De Simoni**

*La conferenza si è tenuta nell'ambito del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società dell'Università degli studi di Milano-Bicocca.
**   http://operaviva.info/schede/simona-de-simoni/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-giornata-internazionale-delle-donne.html#more

Una panoramica storica:


Dalla seconda metà del novecento: 
https://www.youtube.com/watch?v=3KGFH4Ie6kU 

giovedì 16 marzo 2017

Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?*- Karl Marx

*Da K. Marx “Lavoro salariato e capitale”   https://ildiariodellatalpa.wordpress.com/
 Tutto il testo:   https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/lavcap.htm


Passiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?

Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro salario?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un franco [22] al giorno dal mio borghese”, l’altro: “Io ricevo due franchi”, ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per un determinato tempo di lavoro [23] o per fare un determinato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa.

Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il borghese [24] paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro. Il borghese [25] compera, dunque, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro [26]. Con la stessa somma di denaro con la quale il borghese ha comperato il loro lavoro [27], per esempio con due franchi, avrebbe potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altra merce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbre di zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I due franchi con i quali egli ha comperato dodici ore di lavoro [28], sono il prezzo del lavoro di dodici ore. Il lavoro [29], dunque, è una merce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la bilancia.

Gli operai scambiano la loro merce, il lavoro [29], con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto lavoro [30]. Per tessere dodici ore, due franchi. E i due franchi, non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare per due franchi? Di fatto, quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro [29], contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due franchi esprimono dunque il rapporto in cui il lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suo lavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo del lavoro [31]; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo.

mercoledì 15 marzo 2017

America Latina: dal boom economico alla crisi* - Osvaldo Coggiola**

*seminario alla Biblioteca Popolare A. Gramsci del Tufello, via Monte Favino 10, Roma, 10/03/17
**Osvaldo Coggiola, prof di Storia presso la Università di San Paolo del Brasile (USP)

martedì 14 marzo 2017

Marx rivisitato (2): capitale, lavoro e sfruttamento*- Riccardo Bellofiore

*Da:   http://www.dialetticaefilosofia.it/   (pubblicato in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)  
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/marx-rivisitato-capitale-lavoro-e.html 


   Lavoro astratto, scambio e produzione capitalistica

[…] Secondo Marx, le merci si scambiano perché già eguali prima del loro confrontarsi sul mercato.

Le merci hanno cioè un valore di scambio, si pongono in certi rapporti relativi tra di loro, perché sono valori assoluti, prima della metamorfosi finale con il denaro, che pure è la loro destinazione essenziale. Dietro il valore assoluto Marx rinviene, appunto, nient’altro che lavoro astratto oggettivato [18].

Il modo di esposizione all’inizio del Capitale dà l’apparenza di svolgersi secondo un processo logico che va dal valore di scambio al valore al lavoro; e, perciò, di una progressiva espunzione dalle merci di tutte le caratteristiche diverse da quella di essere meri prodotti di lavoro.

Come è stato mille volte osservato, se si ragiona secondo questa procedura, non si vede perché oltre al lavoro, elemento attivo della produzione, non dovrebbe rimanere anche la natura, elemento passivo.

Quest’ultima, d’altra parte, entra nei processi produttivi come natura trasformata: include perciò, oltre alle quantità di lavoro passato coagulato nei mezzi di produzione, anche la scienza, la tecnica e l’innovazione. Non si vede allora perché anche questi ulteriori elementi non debbano essere considerati creatori del valore. Sarebbe inoltre, in questo caso, decisiva l’obiezione di Böhm- Bawerk: oltre all’essere prodotti di lavoro, le merci possiedono tutte la caratteristica dell’utilità – esistono, semmai, merci che non sono esito di processi di lavoro.

Il fatto è che la sequenza marxiana non va letta dal valore al lavoro ma in senso inverso, dal lavoro al valore [19]. La domanda che si pone Marx è in sostanza questa: quale è la condizione del lavoro in quella situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce nel momento in cui gli esseri umani producono, ma posteriormente, nello scambio di prodotti in quanto merci?

Qual è, dunque, la condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo impersonale del mercato – alle cose – invece che essere implicita già nella stessa attività?

Quando, insomma, la socialità di ciò che hanno prodotto si realizza post factum, e si incarna in un potere d’acquisto generale, indifferente a ogni determinazione specifica, il denaro?

lunedì 13 marzo 2017

«Concentrare tutte le forze» contro «il nemico principale»*- Domenico Losurdo




«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico».
(Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista) 


Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi

1. Democrazia e pace?

Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati eliminati» (Sherry 1995, p. 182).

Non si trattava di un sogno, raccapricciante quanto si voglia ma senza contatti con la realtà: in quegli anni l’arma atomica veniva ripetutamente brandita contro la Cina impegnata a completare la rivoluzione anticoloniale e a conseguire l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale. La minaccia risultava tanto più credibile a causa del ricordo, ancora vivido e terribile, di Hiroshima e Nagasaki: le due bombe atomiche lanciate sul Giappone agonizzante ma con lo sguardo rivolto – su questo concordano autorevoli storici statunitensi (Alperovitz 1995) – anche o in primo luogo all’Unione Sovietica. Del resto, a essere minacciati non erano solo l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese. Il 7 maggio 1954, a Dien Bien Phu, in Vietnam, un esercito popolare guidato dal partito comunista sconfiggeva le truppe di occupazione della Francia colonialista. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense Foster Dulles si era così rivolto al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente contro il Vietnam?) (Fontaine 1968, vol. 2, p. 118).

Nonostante non indietreggiassero neppure dinanzi alla prospettiva dell’olocausto nucleare pur di contenere la rivoluzione anticoloniale (essenziale elemento costitutivo della rivoluzione democratica), nonostante tutto ciò, in quegli anni gli Stati Uniti e i loro alleati propagandavano la NATO da loro fondata come un contributo alla causa della democrazia e della pace. È in questo contesto che va collocato il discorso nel marzo 1949 pronunciato da Togliatti alla Camera dei deputati, in occasione del dibattito relativo all’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica:

«La principale delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non fanno le guerre. Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente che non abbiamo un minimo di cultura politica o storica? Non è vero che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano come democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per conquistare determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù indigene dei pellerossa, per distruggerle, dando uno dei primi esempi di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente».

Non si doveva neppure dimenticare «la ‘crociata delle 19 nazioni’, come venne chiamata allora da Churchill» contro la Russia sovietica, ed era peraltro sotto gli occhi di tutti la guerra della Francia contro il Vietnam, in quel momento in pieno svolgimento (TO, 5; 496-97).

sabato 11 marzo 2017

La crisi dell'economia italiana all'interno della crisi dell'area euro - Marco Veronese Passarella

Seminario di Marco Veronese Passarella nell'ambito del corso di Economia Monetaria.

Un'interpretazione basata sul paradigma della riproducibilità.Una risposta critica di Riccardo Bellofiore. 

venerdì 10 marzo 2017

DEL FETICISMO*- Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione del 2/04/99 sul CAP. 24° DEL TERZO LIBRO DEL CAPITALE.   https://www.facebook.com/groups/
Qui l’audio di tutto l’incontro https://www.youtube.com/playlist?list=PLF3B95A47287B917B
Qui tutta la trascrizione dell'incontro:  https://www.facebook.com/mirko.bertasi.7/posts/10212727174763040 


Stefano Garroni: [...]L’affermazione “la dottrina marxista-leninista” è totalmente folle, perché non esiste empiricamente. 

Perché esiste una ricerca che non è conclusa, e sulla base di una non-conclusione Marx ne ha pubblicata una parte. Quindi è tutto un lavoro da fare ancora. E va sempre ricordato che Marx di libri ne ha pubblicati pochissimi. Ha pubblicato Miseria della filosofia, La sacra famiglia, e il primo libro de Il capitale. Il resto sono opuscoli e materiale enorme per libri che non vengono mai scritti.

Poi ovviamente con Lenin la cosa è ancora più evidente perché essendo un uomo politico interviene sempre sul “momento”, sostanzialmente: modifica, rettifica, cambia, e quindi il senso fondamentale è quello di una elaborazione in movimento, in sviluppo.

[...]I termini vanno intesi come schemi di ragionamento, come problematiche, come impostazione dei problemi. Voglio dire: c’è un’osservazione che fece Bertrand Russell, a proposito di Hegel. Russell dice che Hegel è un pensatore il cui intento è superare le contraddizioni, togliere le contraddizioni. Generalmente quando si parla di Hegel si parla del filosofo che mette in evidenza le contraddizioni. Russell sottolinea che Hegel vuole toglierle le contraddizioni. Questa osservazione è estremamente importante e giusta, nel senso che per Hegel è chiaro che se io metto in evidenza l’esistenza di una realtà contraddittoria, allora metto in evidenza anche l’esistenza di un processo oggettivo che tende al superamento di quella contraddizione. Hegel prende posizione per questo processo obiettivo che potenzialmente toglie le contraddizioni. La contraddizione per Hegel è scandalo che va tolto.

[...]Se io mi muovo per il superamento delle contraddizioni vuol dire che io ritengo sia che le contraddizioni debbano essere tolte, sia che le contraddizioni possono essere tolte.

giovedì 9 marzo 2017

Lavoro agile o smart working: il lavoro del futuro (o del presente?)*- Benedetta Gagliardoni**

**Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Macerata
Leggi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/smart-working-sfruttamento-illimitato.html   

Chi non sognerebbe di poter svolgere almeno parte del proprio carico lavorativo al di fuori del normale posto di lavoro?
Questa idea, fino a poco tempo fa un’utopia, sta prendendo piede anche nel nostro Paese, diventando una modalità di lavoro sempre più concreta.
Lavoro agile o smart working?

Il lavoro agile, detto anche “smart working”, nasce a seguito dell’avvertita esigenza di individuare strumenti in grado di rendere maggiormente flessibile la prestazione lavorativa e di aumentare, così, la produttività, riducendo i costi in capo al datore di lavoro e favorendo la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro del prestatore.
L’equiparazione linguistica tra l’espressione inglese “smart working” e la traduzione italiana “lavoro agile” ha suscitato diverse perplessità, dovute al fatto che, mentre la seconda sembra rimandare direttamente all’obiettivo di semplificare l’armonizzazione tra vita quotidiana e lavoro, evocando, così, una modalità lavorativa parzialmente indipendente, la prima, traducibile letteralmente come “lavoro intelligente” sembrerebbe volta maggiormente a sottolineare la volontà di trovarsi in una realtà lavorativa caratterizzata da tecnologia, efficienza, versatilità, creatività ed al passo con i tempi. Tuttavia, seppur le due espressioni assumano significati non propriamente coincidenti, si ritiene opportuno individuare l’essenza del lavoro agile o smart working per mezzo di un’operazione di bilanciamento tra quelle che sono le esigenze prettamente conciliative tra vita e sfera lavorativa e quello che è il mutamento del metodo di lavoro, sempre più tendente a modalità “smart” di svolgimento della prestazione lavorativa.

L’intervento del Ddl 2233: cosa si intende per lavoro agile?

mercoledì 8 marzo 2017

La giornata internazionale delle donne*- Aleksandra Kollontaj** 

*Tradotto da www.marxists.org. Prima pubblicazione: Mezhdunarodnyi den' rabotnitz (International Women's Day), Moscow 1920.      http://www.antiper.org/  
**(San Pietroburgo, 31 marzo 1872 – Mosca, 9 marzo 1952), è stata una rivoluzionaria russa, la prima donna nella storia che abbia avuto l'incarico di ministro e di ambasciatrice. 



 Una celebrazione militante 

La Giornata delle Donne (o Giornata delle donne lavoratrici) é una giornata di solidarietà internazionale e un giorno per ricordare la resistenza e l’organizzazione delle donne proletarie.
Ma questa non è una giornata speciale solo per le donne. L’8 marzo è una data storica e memorabile per gli operai e i contadini, russi e di tutto il mondo. Nel 1917, in questo giorno prese avvio la grande Rivoluzione di Febbraio [1]. Furono le operaie di Pietrogrado ad iniziare questa Rivoluzione; furono esse che decisero di innalzare la bandiera dell’opposizione allo zar e ai suoi sostenitori. E così questo giorno, per noi, è una doppia celebrazione.
Ma se questa è una festa per tutto il proletariato perché la chiamano Giornata della donna? Perché teniamo incontri e celebrazioni dedicate in modo particolare alle operaie e alle contadine? Non può questo, forse, offuscare l’unità e la solidarietà della classe lavoratrice?
Per rispondere a queste domande dobbiamo fare un passo indietro. A come e perché fu organizzata la Giornata della donna.

 Come e perché è stata organizzata la giornata della donna?

Non molto tempo fa, in effetti circa dieci anni fa, la questione dell’uguaglianza della donna e la questione della sua partecipazione al governo accanto agli uomini erano fortemente dibattute. La classe operaia in tutte le nazioni capitalistiche lottava per i diritti delle lavoratrici: la borghesia non voleva accettare queste rivendicazioni. Non era nel suo interesse rafforzare il voto della classe operaia nel parlamento; e in tutti i paesi i borghesi ostacolarono il passaggio di leggi che davano più diritti alle lavoratrici.
I socialisti del Nord America premevano sulla propria rivendicazione del voto con particolare insistenza.
Il 28 febbraio 1909 le donne socialiste degli Stati Uniti organizzarono grandi manifestazioni e incontri in tutto il paese, rivendicando i diritti politici per le donne lavoratrici. Questa fu la prima “Giornata della donna”. L’iniziativa per l’organizzazione di questa giornata spetta quindi alle operaie d’America.
Nel 1910 alla Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Operaie, Clara Zetkin portò avanti la proposta di organizzare una Giornata internazionale delle donne lavoratrici. La conferenza decise che ogni anno, in ogni paese, si sarebbe celebrata nello stesso giorno, una “Giornata della Donna” sotto lo slogan “Il voto alle donne unirà la nostra forza nella lotta per il socialismo”.
In quegli anni la richiesta di rendere il parlamento più democratico allargando appunto il suffragio ed estendendolo alle donne era una questione vitale. Precedentemente alla prima guerra mondiale gli operai avevano il diritto di voto in tutte le nazioni borghesi ad eccezione della Russia. Solo le donne, come i malati di mente, rimanevano senza questo diritto. Allo stesso tempo però, la dura realtà del capitalismo esigeva che la donna partecipasse all’economia della nazione. Ogni anno c’era un incremento nel numero di donne che lavoravano nelle fabbriche e nei negozi, o come domestiche o donne a ore. Queste donne lavoravano accanto agli uomini e producevano con le loro mani la ricchezza del paese. Ma restavano senza diritto di voto.
Ma negli ultimi anni prima della guerra l’aumento dei prezzi spinse anche le casalinghe più pacifiche ad interessarsi delle questioni politiche ed a protestare ad voce alta contro la politica di saccheggio della borghesia. Le “rivolte delle casalinghe” divennero sempre più frequenti, infiammandosi in momenti diversi in Austria, Inghilterra, Francia e Germania.
Le lavoratrici compresero che non era sufficiente fracassare i banchetti al mercato o minacciare qualche commerciante: capirono che queste azioni non abbassavano il costo della vita. Bisognava cambiare la politica del governo. E per realizzare questo, la classe lavoratrice doveva ottenere che fosse esteso il diritto di voto.
Fu deciso di istituire una Giornata delle donne in ogni nazione come forma di lotta per il diritto di voto. Questa giornata doveva essere una giornata di solidarietà internazionale nella lotta per obiettivi comuni e per misurare la forza delle donne lavoratrici organizzate sotto la bandiera del socialismo.

L'evoluzione della donna - Maria Turchetto

domenica 5 marzo 2017

Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista*- Enzo Pellegrin


Si sente spesso parlare della "proletarizzazione del ceto medio" come fenomeno sociale dell'attuale epoca economica. Recentemente, sull'Espresso, discorrendo dei recenti tumulti romani di tassisti e ambulanti, l'editorialista Gilioli aveva modo di notare come "con un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.[…] i conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. […] Poi però accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo per portare a casa un reddito. Ci saranno soluzioni più soddisfacenti per i consumatori di quanto siamo noi, a un costo minore. Nessuno, fuori, ci rimpiangerà."

Viene spontanea una riflessione: il progresso tecnologico non ha un effetto neutro: dipende dalle mani e dai cervelli che lo possiedono.

Personalmente non vedo affatto negativamente un mondo in cui un certo tipo di lavoro divenga obsoleto e vi siano dei mezzi tecnici per evitarlo. Se la produzione di ricchezza fosse collettivamente determinata, distribuita a ciascuno in base ai propri bisogni ed alle proprie aspirazioni e finalizzata alle necessità reali della collettività e dell'ambiente, non avrei nulla in contrario verso i mezzi che rendono obsoleta la fatica per produrla. In queste condizioni 
tutti ne avremmo un equo vantaggio. Lavoreremmo di meno per produrre un valore a vantaggio di tutti.


Perché ci si dovrebbe opporre al fatto che l'ente collettivo trasporti i passeggeri con una navetta ad intelligenza artificiale a tutte le ore anziché utilizzando la fatica di un'autista? Se quell'autista, per questo, non perde un lavoro, ma ci guadagna un vantaggio, potendo impiegare diversamente il proprio tempo ed il proprio lavoro altrove a vantaggio proprio e del collettivo, perché essere contrari?

Nel mondo nostro, all'interno del capitalismo globalizzato, 
non è però così.

Ogni innovazione tecnologica è - nel nostro sistema economico - finalizzata a produrre il maggior profitto per il capitalista privato che la promuove e ne sfrutta i vantaggi.

I vantaggi delle innovazioni tecnologiche consistono spesso nella possibilità di diminuire la quantità di lavoro umano necessaria per produrre una data quantità di ricchezza.

Ma non sempre.

sabato 4 marzo 2017

L'ultimo contadino (The Last Farmer) - Giuliano Girelli

L'agricoltura contadina produce cibo per oltre il 70% della popolazione del pianeta, mentre l'agricoltura industriale non provvede che al 30%; ciò nonostante 2.8 miliardi di persone nel mondo vivono con meno di 2 dollari al giorno, la maggioranza di queste persone sono contadini o ex contadini che ora vivono nelle baraccopoli di qualche grande città. 
Questo documentario parla di loro, della globalizzazione e dunque anche di noi. 

 Documentario sui danni della finanza al "3° mondo"...

venerdì 3 marzo 2017

ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO*- Stefano Garroni

 *Brevi passaggi dall’intervento nell’Incontro-Convegno tenutosi alla Sapienza di Roma il 18/03/99 su LE ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO di T. EAGLETON – A.Ciattini, A.Simonicca, A.Colajanni, N.Gasbarro, S.Garroni.   https://www.facebook.com/groups/276130642477707/?fref=ts  
        
 [...]C'è una sola illusione: quella di esistere. Il post-modernismo non esiste.

 [...]Immaginate un grande pittore che faccia un quadro, dopo un po' di anni questo quadro viene stampato, riprodotto e venduto al supermercato. Questo momento è il post-modernismo.

 [...]Colajanni descrive certe vicende delle università. Ma collega Colajanni questo è proprio l'emarginazione, la marginalità! Ha ragione Eagleton, non è che io non sono marginale perché manovro i dollari, è che la cultura è stata resa marginale da un sistema di potere che è sempre di più concentrato in poche mani che sono volgarmente le multinazionali che hanno i soldi da dare ai professori universitari, e questi fanno i giochetti tra di loro, ma non hanno più nessun peso effettivo.  

 Questo è il punto reale. Si scopre una certa marginalità nel post-modernismo? ma certo, ma si tratta di quegli strati piccolo o medio borghesi che hanno creduto alla possibilità di un nuovo grande New Deal, di un nuovo grande momento del capitalismo che assicurasse a tutti, cioè a loro, ricchezza, benessere, libertà, potere: non è successo. Non è successo. Recentemente è uscito un articolo di una studiosa americana, negli Stati Uniti, in cui giustamente si sottolinea che al di là dell'asprezza degli scontri nel ‘68, negli Stati Uniti in particolare, gli obiettivi di lotta erano quelli di un capitalismo democratico. Un largo strato di intellettuali ha creduto di poter accedere finalmente al potere. Non ce l’ha fatta. Il grande crollo è questo, la grande disillusione di non potere avere spazio nella società dei padroni. E non ce l'hanno infatti.

 [...]Noi abbiamo, con una profondità notevolissima, con una ricchezza di temi enorme, con un'attualità formidabile - questa si attuale, penso a Kierkegaard, penso Nietzsche, per esempio, altro che Vattimo questa roba qua -, abbiamo una tematizzazione profondissima, ricca, densa, di tutti i problemi che noi stiamo vivendo. Però noi li stiamo vivendo a livello del supermercato, della riproduzione di supermercato. Lì venivano vissuti in maniera molto seria, molto profonda.

 [...]Nel ‘68, i colleghi lo ricorderanno, era un luogo comune la critica al soggetto cartesiano, perché è un soggetto autoritario, unilaterale, e implica la dittatura della ragione. Questo significa non aver letto minimamente, per esempio, il discorso sul metodo. Dove la dimensione è completamente un'altra. Non aver riflettuto su che cosa vuol dire l'arbitrarismo teologico di Cartesio. Cartesio in definitiva dice: “A noi è sicuramente evidente che uno più uno fa due, non c'è dubbio. Perché è evidente? Perché così Dio ha voluto. Ma avrebbe potuto volere altrimenti”. Il che vuol dire costruire il mondo su una situazione di arbitrio. Con buona pace della dittatura della ragione, dell'unilaterale ragione che tutto soffoca. Non è vero! 

 Tutto il pensiero moderno nasce con il senso fortissimo del dramma, dell'ambiguità. Giustamente Colajanni ricordava quel libro che mette in questione non la post-modernità, ma la modernità. Ha ragione. In che senso? ovviamente, nel senso che la post-modernità, le fesserie che l'industria culturale ci ammannisce, sulla base di Vattimo e di tanti altri imbroglioni del genere (non esiste). Per esempio se noi andiamo effettivamente a studiare le cose, ma dove sta questa cattiva ragione che tutto imprigiona? Sta in Diderot? In Hume? In Locke? Dove sta? Tutta la cultura moderna è piena del senso del dramma, dell'ambiguità, della complessità. Pensate a Kant. Là dove la ragione è un progetto, è un qualcosa da costruire, è un impegno morale. Se la ragione è un impegno morale vuol dire che non è nei fatti. È un impresa in cui io mi butto e devo rischiare: vinco, perdo, non so.

 [...] Alt! il post-modernismo è una falsificazione totale. Certo se noi andiamo alle cose serie, per esempio andiamo a Nietzsche, per esempio andiamo a Kierkegaard, per esempio andiamo a Schopenhauer, cogliamo qualche cosa di molto importante, che sono quelle ambiguità, quelle contraddizioni grandi che si nascondono nella società moderna. Anche i suoi momenti più grandi di conquista di libertà: la democrazia, il parlamentarismo. Beh, le analisi di Nietzsche, di Schopenhauer, sono formidabili. C'è un anticipo netto del dramma del totalitarismo della società democratica, dell'appiattimento della personalità che la società democratica comporta. Uno dei cui effetti è il post-modernismo. Solo in un uomo diventato misero, piatto, il post-modernismo può valere come atteggiamento culturale. Badate, voglio dire esattamente questo: ha senso leggere Kierkegaard, ha senso leggere Nietzsche, ha senso leggere Schopenhauer. Io non condivido le loro posizioni, ma qui imparo. Non ha senso leggere Derrida, Vattimo e quest'altra roba qua. Non ha nessun senso, non imparo, non capisco meglio il mondo, non acquisto una nuova problematicità. Qui ha ragione Eagleton ed è molto bella la descrizione che faceva Colajanni, perché ha perfettamente ragione. 

 Quante cose sono accennate, per esempio in questo libro è nettamente presente Wittgenstein. È nettamente presente un certo modo di leggere Hegel, Kant, mediato dalla tradizione empiristica che è di grandissimo interesse. Proprio contro quella compresenza della falsa sinistra, o della sinistra chiusa nel dogma. È presente Wittgenstein in Eagleton. Io non sono antropologo quindi non so fare il paragone che faceva Colajanni, ma certo che questa enfasi sull’ “immaginiamo”, io la leggo come un diretto chiamare in causa Wittgenstein appunto, ed è - mi soffermo su questo per un motivo, non sto facendo arena accademica -, wittegensteiniano il fatto anche che questo sottolineare i momenti immaginativi “immaginiamo che …”, non ha nulla a che fare con il post-moderno. Questo “immaginiamo che …”, serve poi a tornare nella realtà per capirla meglio, e Wittgenstein lo sottolinea molte volte. I giochi linguistici che io immagino, invento, hanno la funzione di farmi capire meglio il gioco linguistico reale, della lingua che effettivamente parliamo. Questo non è post-moderno. Questo è un uso dell'immaginazione per allargare gli strumenti di cui posso disporre per capire ciò che c'è. [...] 

giovedì 2 marzo 2017

L'etica degli Stoici*






Ogni essere vivente fin dalla nascita tende spontaneamente alla propria conservazione, scegliendo le cose consone alla propria natura: questo è il punto di partenza dell'etica stoica, che riconosce però all'uomo la capacità di approfondire questo livello istintivo grazie all'opera del logos. Questo è in grado di riconoscere l'ordine dell'universo e di perseguire quindi il bene supremo nel volontario adeguamento al fato. Vivere secondo natura significa in conclusione per l'uomo vivere secondo il logos, sopprimendo tutte le passioni (piacere e dolore, desiderio e paura) che turbano l'esercizio della ragione. Tutto ciò che non tocca questa razionalità è «indifferente»: vita e morte, salute e malattia, ricchezza e povertà; laddove possibile tuttavia le cose consone alla propria natura vengono preferite, e sono anzi il presupposto di quelle azioni «convenienti» che costituiscono la normale vita sociale degli uomini. 


  

Il primo impulso

L'etica stoica condivide con molte tendenze dell'etica antica sia uno stretto legame con il problema della felicità, sia una fondazione (per lo meno nella formulazione datale da Crisippo) nell'osservazione della realtà naturale. Il punto di partenza consiste infatti nell'osservare quale sia il «primo impulso» (próte hormé) nella natura dell'uomo e dei viventi in generale. Già le testimonianze evidenziano come questo punto di partenza sia determinato in polemica con Epicuro:
Affermano che il primo impulso per l'animale è tendere a conservare sé stesso, perché la natura fa sì che l'animale si appropri di sé fin dal principio (oikeióuses autó tes phýseos ap'archés), come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, dove dice che il «primo proprio» (próton oikéion) per ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di essa. Infatti non sarebbe verosimile né che la natura facesse alienare un animale da sé, né che dopo averlo fatto non lo facesse né alienare né appropriare. Resta dunque da dire che dopo averlo costituito lo faccia appropriare a sé stesso: così infatti respinge le cose dannose e cerca quelle appropriate.
Ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo impulso degli animali vada verso il piacere, mostrano che è falso. Affermano infatti che il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.
In nulla, affermano, la natura differisce riguardo alle piante e riguardo agli animali, perché pur senza impulso e sensazione amministra anche le prime, e d'altra parte in noi alcune cose avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali in più si aggiunge l'impulso, servendosi di esso vanno verso le cose proprie. Dunque per questi vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall'impulso, mentre, dato che il logos è dato agli esseri razionali per una più perfetta costituzione, vivere secondo natura diventa per essi esattamente vivere secondo logos. Infatti questo si aggiunge come artefice dell'impulso (SVF III.178).

martedì 28 febbraio 2017

Trotzky, il profeta ricordato* - Stefano Paterna

*Isaac Deutscher, Il Profeta esiliato,Milano, PGreco Edizioni, 2011, p. 436.  https://www.lacittafutura.it/ 



Ci fu un tempo nel quale alle labbra del proletariato internazionale perveniva il medesimo grido: “Viva Lenin! Viva Trotzky!”. Negli anni che vanno dall’Ottobre rosso fino alla fine degli anni ’20, ma anche dopo, fino al suo assassinio in Messico, il nome di Lev Davidovic Bronstein detto Trotzky è rimasto il sinonimo della Rivoluzione in Russia e nel mondo.

La riedizione nel 2011 della bellissima trilogia biografica di Isaac Deutscher sul grande rivoluzionario (“Il profeta armato”, “Il profeta disarmato” e “Il profeta esiliato”), da parte della casa editrice PGreco, dà modo di apprezzare a pieno lo spessore del personaggio, la sua dimensione umana, la vastità della tragedia che non è solo personale, ma di un’intera epoca e ha segnato in modo profondo il movimento comunista e il pensiero marxista.

Il comunismo post 1991, più che mai in occasione del centenario della Rivoluzione del 1917, non può permettersi ancora abiure e dimenticanze: se vuole ridestarsi al ventunesimo secolo ha bisogno dell’intera sua storia e di tutta la ricchezza e varietà del marxismo (o più correttamente dei marxismi), come già ribadito in altra occasione su questo stesso giornale (a proposito di Bordiga). Di questa ricchezza e varietà è parte importantissima l’esperienza politica e teorica di Lev Trotzky, fondatore dell’Armata Rossa, presidente del Soviet di Pietrogrado nel corso della prima Rivoluzione del 1905 e poi di nuovo nel 1917, commissario agli Affari Esteri della Repubblica Sovietica e firmatario del Trattato di Brest-Litovsk che, per quanto riguarda la Russia, pose fine alla Prima Guerra Mondiale. Di fatto, al di là delle opinioni e delle preferenze ideologiche, l’esponente bolscevico più importante e maggiormente coinvolto nella Rivoluzione di Ottobre, dopo Lenin.

Certo, a partire dalla metà degli anni ’20 la marea montante dello stalinismo lo sommergerà di calunnie e di accuse le più fantasiose e aberranti fino a dipingerlo prima come un agente di Hitler e del Giappone imperiale e poi dell’imperialismo Usa. Tuttavia della sua proposta politica (industrializzazione accelerata e collettivizzazione dell’agricoltura) prenderà nota lo stesso Stalin che parzialmente e brutalmente la applicherà a partire dal 1929. Il medesimo Stalin che rimarrà ossessionato dalla figura dell’esule (pure ormai privo di qualsiasi potere rilevante) fino al 1940, quando lo farà uccidere da un sicario del NKVD, Ramon Mercader.

Di tutto ciò e di moltissimo altro scrive diffusamente Isaac Deutscher nella sua imponente trilogia pubblicata tra il 1954 e il 1963. Deutscher (1907-1967) è stato sì un militante del Partito Comunista Polacco e della sua corrente antistalinista, ma da storico ha dato vita nella biografia di Trotzky a un’opera assolutamente equilibrata che non nasconde le sue simpatie e le sue avversioni, ma le fonda sulla robustezza dei fatti. Così, non viene occultata la funzione progressiva dello stalinismo a partire appunto dalla scelta di recidere il cordone ombelicale con la Russia arcaica e contadina, anche se quel taglio suggerito dalla Opposizione unificata di Trotzky, Zinovev e Kamenev, fu applicato con una tale violenza e con i conseguenti gravi squilibri che i tre oppositori di certo non auspicavano; e non vengono dimenticati gli errori tattici che Trotzky commise a partire dalla morte di Lenin in poi non ponendo immediatamente e sino in fondo la questione dell’esautorazione del georgiano dal ruolo di segretario generale del partito come gli chiese di fare lo stesso Lenin poco prima di morire oppure con la stessa fondazione della Quarta Internazionale, creatura nata morta e di fatto sterile, così come gran parte delle sette trotzkiste avvicendatesi negli anni seguenti alla morte del fondatore. Di tutt’altra pasta erano invece i trotzkisti sterminati alla fine degli anni ’30 in Urss e che andavano alla morte cantando l’Internazionale.

lunedì 27 febbraio 2017

Uscire dall’Euro?*- Gennaro Zezza**

*Questa è la prima bozza di un documento divulgativo che mi è stato richiesto.      http://gennaro.zezza.it/  
**Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale

  
Wynne Godley, nel 1992, scriveva a proposito del progetto dell’Euro:
la creazione di una moneta unica porterà alla fine delle sovranità nazionali e alla capacità di agire in modo indipendente su questioni di rilievo…. La capacità di stampare moneta, e per il governo di finanziarsi presso la propria Banca centrale, è l’aspetto più importante dell’indipendenza nazionale. … Se vi si rinuncia, ci si trasforma in una autorità locale, o una colonia. … e quando arriva una crisi, se il Paese ha perso la capacità di svalutare e non può beneficiare di trasferimenti fiscali a compensazione, non c’è nulla che possa fermarne il declino, fino all’emigrazione come unica alternativa alla povertà”(1)

Abbiamo voluto l’euro, abbiamo avuto il declino, e ora l’emigrazione e l’aumento della povertà. E il sottoporre le nostre leggi di bilancio alla Commissione Europea è solo una delle dimostrazioni del fatto che il Governo è diventato una “autorità locale”.

Ma allora perché abbiamo adottato l’Euro?
Per lo stesso motivo per cui molti vogliono rimanerci! Era già chiaro, nei dibattiti parlamentari che hanno preceduto la firma dei Trattati, che rinunciare alla politica dei cambi e alla politica monetaria comportava una compressione dei salari. La decisione di entrare nell’Euro è stata politica, motivata dal desiderio di conribuire a scrivere le regole della “casa comune europea”. Questo desiderio si è rivelato una pia illusione, perché nonostante il peso economico dell’Italia, l’evoluzione delle regole dell’Unione europea e della gestione dell’Euro hanno tutelato principalmente i gruppi industriali e finanziari del Nord, con scarsi interventi di bilanciamento. 

domenica 26 febbraio 2017

Perché distruggere la scuola pubblica?*- Paolo Di Remigio

*Da:     http://www.badiale-tringali.it/
Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sono-utili-le-prove-invalsi-giorgio.html


La vicenda della scuola pubblica italiana va inserita nella vicenda della repubblica: l'Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, dunque a sovranità più o meno strettamente limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Negli anni '90 la sua classe dirigente, abituata a un'ampiezza di movimento non più compatibile con i progetti neoconservatori statunitensi di impero globale, è stata liquidata e sostituita da avventizi alle dirette dipendenze dei poteri globali, che hanno occupato tutti i posti di gestione, dallo Stato alle banche, dai partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti. Compito di questi proconsoli era la rinuncia a ogni sovranità dello Stato e l'attuazione di politiche economiche neoliberali; di qui l'adesione cieca alle più folli geopolitiche anglo-americane e la partecipazione autolesionistica al progetto europeo. Nel nome delle regole europee è stata smantellata l'economia mista; le imprese pubbliche che avevano portato l'Italia a diventare una delle maggiore potenze industriali sono state privatizzate; è stata ridotta la spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono diventati sempre più inefficienti e costosi per i cittadini; le pensioni così ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza privata, le file d'attesa agli ospedali così lunghe da costringere a ricorrere alla sanità privata oppure a rinunciare a curarsi, la scuola pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva di un'offerta di istruzione privata.

Lo Stato minimo implica la scuola minima. La scuola minima è quella che include, diverte, nonistruisce. Se istruisse non ci sarebbe spazio per la scuola privata e questo offende il primo articolo di fede dell'ideologia neoliberale: la superiore efficienza dell'impresa privata rispetto all'impresa pubblica. Modello delle politiche scolastiche europee è diventato così il sistema educativo anglosassone che combina una scuola pubblica gratuita, ma degradata al punto da dover disporre i 'metal detector' per arginare le violenze, con una scuola privata, che promette facile accesso al mondo del lavoro, ma costosa, per frequentare la quale ci si può indebitare per tutta la vita – un sistema fallimentare a parere unanime, denunciato ultimamente dal primo ministro May e dal presidente Trump; un sistema che non può funzionare perché la scuola privata su cui poggia trasforma in cliente l'alunno, gli dà dunque una prevalenza sull'insegnante che rende improponibile la severità e la fatica dell'imparare; un sistema che però consente un imponente giro d'affari: solo se la scuola pubblica diventa un ospizio, può nascere una domanda solvente di istruzione qualificata, cioè genitori disposti a pagarla per i loro figli; solo questa domanda può sostenere un'offerta di istruzione qualificata, cioè una scuola privata che non sia più soltanto confessionale o parassitaria della scuola pubblica, ma che costituisca il centro nevralgico del sistema di istruzione.