mercoledì 17 maggio 2017

SULLA SINISTRA TEDESCA*- Hans Heinz Holz**

*Da “L’Ernesto”, N. 3 Settembre/Ottobre 2005 
**Hans_Heinz_Holz (26 2 1927 – 11 12-2011), intellettuale tedesco, saggista, fra i massimi pensatori marxisti europei. Professore Emerito di Filosofia presso l’Università di Groningen, Olanda.
Traduzione a cura di Stefano Garroni, primo ricercatore di Filosofia del CNR di Roma, traduttore di gran parte delle opere di H.H. Holz in Italia. 


Il punto di vista critico del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz, in merito al progetto tedesco “di sinistra” alternativa alla SPD,



La fondazione di un partito di sinistra (Linkspartei), che potesse raggiungere anche il numero di suffragi per essere rappresentato al Bundestag (parlamento federale) ha fatto nascere euforiche aspettative negli ambienti tedeschi, critici del sistema. 

Nel periodo del cancellierato di G. Schroeder, la Spd si era comportata, in politica interna, come esecutrice degli interessi del grande capitale e, in politica estera, come sostenitrice di un attivo imperialismo germanico-europeo. Già da anni, in effetti, la politica socialdemocratica si era andata distinguendo solo per sfumature da quella della Cdu. Contro il ruolo guida degli Usa, i quali nel periodo della “guerra fredda” avevano operato, nell’interesse della borghesia europea, per ricacciare indietro l’Unione Sovietica, dopo il 1990 l’Unione Europea – dominata da Francia e Germania – aveva maturato l’idea di una propria posizione di dominio mondiale: iniziò così la lotta per la conquista del mercato mondiale, in cui dovunque – perfino nel loro “cortile di casa” latino-americano – gli Usa                                                                                                             andavano perdendo terreno. 

Gli Usa reagirono, usando il pretesto della lotta al terrorismo, con una politica mirante all’impossessarsi delle fonti energetiche mediorientali e dell’Asia centrale. La Germania e la Francia, che non possono accettare il monopolio statunitense sulle fonti energetiche – perché significherebbe accettare, anche, la loro riduzione a potenze di secondo rango – si contrapposero all’escalation militaristica. La guerra contro l’Iraq rese chiaro che gli Usa erano pronti a perseguire l’obiettivo della loro egemonia anche ricorrendo a mezzi militari, nel caso anche contro propri alleati. La concorrenza intercapitalistica entrava in contraddizione con il complessivo interesse capitalistico allo sfruttamento. Questa contraddizione, che nasce da una coesistenza solidale ma anche da rivalità inter-monopolistiche, determina oggi – anche se in modo non apparente e complesso – la situazione politica mondiale.

Già a partire dagli anni novanta, esistevano negli Usa e in Europa dei piani diretti non più al solo controllo dei Paesi sfruttati, ma anche all’intimidazione delle grandi potenze imperialistiche loro concorrenti.

martedì 16 maggio 2017

199 anni di Karl Marx*- Roberto Fineschi**

*Da:  https://www.lacittafutura.it/ 
**Roberto_Fineschi ist ein italienischer Philosoph, der sich mit der Dialektik der Waren- und Kapitaltheorie bei Karl Marx befasst. 
(https://marxdialecticalstudies.jimdo.com/)    (http://marxdialecticalstudies.blogspot.it/


Ei fu, siccome immobile, / dato il mortal sospiro”, e via dicendo. Così inizia la celeberrima ode manzoniana, Il cinque maggio, che tutti gli studenti italiani, molti di essi obtorto collo, hanno studiato se non addirittura imparato a memoria durante gli anni scolastici. La stessa data in cui nel 1821 a Sant’Elena morì Napoleone era stata, tre anni prima, la data in cui un altro gigante della storia era nato a Treviri: Carlo Enrico Marx. Con una qualche ironia della sorte, proprio Napoleone, insieme al nipote Napoleone III, è il personaggio storico che Marx dichiara di amare di meno rispondendo alle domande di un “album di famiglia” della figlia Jenny.
Date a parte ed in attesa delle grandi celebrazioni del prossimo anno per i 200 anni, dedicherò un paio di riflessioni all’attualità del pensiero del vecchio “Moro”, come lo chiamavano amici e familiari. Sin da subito tuttavia, è bene dire chiaramente che la teoria di Marx non ha tuttoggi eguali per la sua capacità di comprensione e spiegazione delle tendenze di fondo del modo di produzione capitalistico, quindi della struttura della società in cui viviamo. Questo non significa ovviamente che sia perfetta, che non necessiti di essere criticata, approfondita o continuata ove necessario, come del resto il suo stesso autore auspicava; ma non significa neppure che essa non funzioni più. Anzi, nessuna meglio di essa ha delle risposte - non tutte sfortunatamente - a molti dei processi storico-economico-sociali tutt’ora in corso. 
Le teorie mainstream di economia e di politica ci spiegano come il mondo dovrebbe essere: senza conflitto sociale, senza crisi economiche, senza sopraffazione e sfruttamento. Ci spiegano a chiare lettere in celebrati manuali come siano illegittime le rivendicazioni sociali, errori passeggeri le crisi e via dicendo, perché così è nel mondo armonico ed idilliaco che i loro autori costruiscono (e che ahimè gli studenti sono costretti a studiare). Per la teoria di Marx, invece, non è una sorpresa che ci siano crisi, sfruttamento, conflitto, ecc. Marx non è così banale da dire al mondo ed alle persone come dovrebbero essere, questo già lo fanno i “preti” di tutte le parrocchie, religiose o laiche; Marx spiega le cose per quello che sono. Insomma, la scienza contro l’ideologia. 

lunedì 15 maggio 2017

I salari e la questione irrisolta dell’euro*- Alberto Bagnai**

*Da:   http://www.ilsole24ore.com/
**albertobagnai economista italiano, Department of Economics – University “Gabriele D’Annunzio”  goofynomics  asimmetrie
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/il-tradimento-degli-intellettuali.html


L'euro è stato il più grande successo della scienza economica, ma sta diventando la più umiliante sconfitta per la professione economica. Ringrazio il Sole 24 Ore, che mi permette, con apprezzabile spirito di apertura, di esporre e discutere nel quadro di un dibattito autorevole un paradosso che ci riguarda tutti, economisti e non.

L’euro è stato un grande successo della scienza economica: non conosco alcun altro caso in cui essa sia stata in grado di prevedere con una precisione così sconcertante le conseguenze di una decisione politica. Vi fornisco tre esempi. Partiamo dall’ultimo Bollettino economico della Bce, il quale lamenta come la crescita dei salari nell’Eurozona sia molto tenue, il che suggerisce una probabile sottostima dei dati ufficiali sulla disoccupazione. Siamo quindi nelle condizioni previste nel 1996 da Rudiger Dornbusch, quando avvertiva che l’unione monetaria avrebbe «trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività», rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere (lo mostrò Mundell nel 1961). In secondo luogo, in tutta Europa i partiti euroscettici progrediscono (nonostante le sconfitte), e mettono in causa il modello di integrazione politica europea. È esattamente quanto Nicholas Kaldor aveva previsto nel 1971, quando ammoniva che «se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali esercitano una pressione tale da portare al crollo del sistema, avrà impedito una unione politica anziché favorirla». Infine, Macron non si era nemmeno insediato, che dalla Germania il rifiuto della proposta francese di Eurobond chiariva come la potenza egemone non intenda deflettere dalla propria intransigenza. Ottimo esempio di quanto Martin Feldstein diceva nel 1997: «l’aspirazione francese all’uguaglianza e l’aspettativa tedesca di egemonia non sono coerenti».

domenica 14 maggio 2017

L’imperialismo e la trasformazione dei valori in prezzi*- Torkil Lauesen, Zak Cope**

*Da:  https://traduzionimarxiste.wordpress.com/  articolo originale in inglese Monthly Review



Introduzione

Con questo articolo, ci proponiamo di dimostrare che i bassi prezzi dei beni prodotti nel Sud globale, ed il concomitante modesto contributo delle sue esportazioni al prodotto interno lordo del Nord, occultano la reale dipendenza delle economie di quest’ultimo dal lavoro a basso costo del Sud. Dunque, sosteniamo che la delocalizzazione  dell’industria nel Sud globale, nel corso dei tre decenni passati, ha condotto ad un massiccio incremento del valore trasferito al Nord. I principali meccanismi di tale processo consistono nel rimpatrio del plusvalore tramite investimenti diretti esteri, lo scambio ineguale di prodotti incorporanti differenti quantità di valore e l’estorsione per mezzo del servizio del debito.

L’assorbimento di enormi economie del Sud all’interno del sistema capitalistico mondiale, dominato da multinazionali e istituzioni finanziarie con base nel Nord globale, ha posto le prime nella condizione di dipendenze socialmente disarticolate votate all’esportazione. 

I miseramente bassi livelli dei salari di tali economie trovano fondamento (1) nella pressione imposta dalle loro esportazioni al fine di competere per limitate porzioni del mercato, in larga parte metropolitano, dei consumatori; (2) il drenaggio di valore e risorse naturali, che altrimenti potrebbero essere utilizzati per costruire le forze produttive necessarie all’economia nazionale; (3) l’irrisolta questione agraria sfociante in una sovra offerta di lavoro; (4) governi compradori repressivi, i quali accettano, traendone beneficio, l’ordine neoliberista e sono quindi incapaci e non disposti a concedere aumenti salariali, per timore di stimolare rivendicazioni di maggior potere politico da parte dei lavoratori; e infine (5) frontiere militarizzate così da prevenire la circolazione dei lavoratori verso il Nord globale, e di conseguenza, un equalizzazione dei rendimenti da lavoro. 

La globalizzazione imperialista della produzione 

La dimensione europea della formazione tra competizione globale e crisi*- Antonio Allegra**

*Da: http://dialetticaefilosofia.it/  pubblicato su contropiano atti del convegno "Formazione, Ricerca e Controriforme", Bologna 30 aprile 2016, Anno 25, n.2 2016. retedeicomunisti.
**Università per Stranieri di Perugia, Dipartimento di Scienze umane e sociali.



«[la] necessità di creare la più larga base possibile per la selezione e l’elaborazione delle più alte qualifiche intellettuali [...] non è senza inconvenienti: si crea così la possibilità di vaste crisi di disoccupazione negli strati medi intellettuali come avviene di fatto in tutte le società moderne». (A. Gramsci, Q.12 [XXIX] § 1, 1932.).

«La scuola media superiore per tutti al più alto livello di qualità [...] è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico che vuole bensì la scuola per tutti, ma perché tutti, convenientemente sottoeducati, possano essere consegnati alla selezione extrascolastica e al sottoimpiego nella produzione».
(F. Fortini, Non si dà vera vita se non nella falsa, in Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Bologna, Guaraldi, 1971, p. 113).

«La distinzione di “lavoro manuale” e “intellettuale” è di grado, non di qualità [...] è storica, sempre. [...] Così le funzioni “fisiche” e “intellettuali” del lavoro sono, nel loro complesso, quelle che la Riproduzione sociale complessiva in un determinato istante esige. Esse costituiscono un insieme di potenze sociali, che può essere promosso e ampliato, o viceversa disperso e lasciato decadere. Dunque: il rapporto di lavoro manuale e intellettuale riguarda tutta intera la classe lavoratrice. Nel mondo moderno, questo rapporto è una questione di classe e di lotta di classe, nello scontro sulla quale si gioca una fondamentale partita di egemonia».
(A. Mazzone, Le classi nel mondo moderno (parte terza). Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento, in «Proteo», 2005, 1).

Leggi tutto l'articolo:    http://dialetticaefilosofia.it/public/pdf/96allegra.pdf

sabato 13 maggio 2017

La situazione in Venezuela: le violenze dell’opposizione, la contromossa di Maduro e la manipolazione dei media*- Attilio Folliero


(Caracas 03/05/2017 – Aggiornato 11/05/2017)
Da circa un mese, ed esattamente dal 6 aprile in alcune zone del Venezuela sono in corso manifestazioni di protesta portate avanti dalla coalizione di partiti che si oppongono al Governo di Nicolas Maduro.

Tali manifestazioni spesso sono sfociate in violenti disordini che hanno provocato alla data odierna (3 maggio 2017) 33 morti, centinaia di feriti, qualche migliaio di persone fermate ed arrestate, danni ingenti per milioni e milioni di dollari.

Tranne rari casi, tali manifestazioni sono sempre state concentrate nelle zone dei quartieri bene di Caracas e qualche altra città del Venezuela. Fin da quando Hugo Chávez è salito al Governo nel 1999, hanno protestato contro di lui sempre e solo le classi più ricche, la classe alta e settori delle classi medie.


L’avversione della classe media ai governi di Chávez e Maduro


Queste classi non hanno mai accettato la politica di Hugo Chávez prima e di Nicolas Maduro poi, incentrata sulla redistribuzione in maniera più equa delle ricchezze dello stato; non hanno mai accettato che il Governo “sperperasse” – a loro dire – ingenti risorse per le classi più povere, da sempre emarginate ed abbandonate a vivere nella più totale miseria.
Questo è il punto vero. Le classi più ricche, la classe alta e le classi medie di questo paese non hanno digerito che i governi socialdemocratici di Chávez e Maduro (1) investissero ingenti risorse per permettere a tutti di usufruire di una istruzione gratuita e di qualità fino ai più alti livelli (scuola, università e studi post universitari); per incentivare la sanità pubblica, in modo da permettere a tutti di potersi curare, anche a chi non ha i mezzi economici per accedere alle costosissime cliniche private; milioni di case popolari costruite per i più emarginati e da sempre condannati a vivere nelle baraccopoli, nei cinturoni della miseria che affollano le grandi città del Venezuela. Ad oggi, il programma statale dedicato alla costruzione di case popolari (denominato “Gran Misión Vivienda Venezuela”) ha consegnato un milione e seicentomila appartamenti ad altrettante famiglie che vivevano nelle baraccopoli e che mai avrebbero potuto acquistare un appartamento.

venerdì 12 maggio 2017

Sul cosiddetto «Capitolo sesto inedito» di Karl Marx. Appunti di lettura e considerazioni critiche*- Giovanni Sgrò**

*Da: http://www.consecutio.org/ -- qui la rivista integrale:  http://www.consecutio.org/wp-content/uploads/2014/03/N.-5-rivista-integrale.pdf
**Università degli Studi eCampus. Scienze dell’Educazione e della Formazione, Facoltà di Psicologia.


1. Premessa 

Il cosiddetto Capitolo sesto inedito rappresenta ‒ insieme ai Grundrisse ‒ uno di quei manoscritti marxiani che nel corso degli anni Settanta del secolo scorso hanno avuto grande diffusione e notevole recezione in Francia, in Germania e anche in Italia, dove fu tradotto per la prima volta nel 1969 da Bruno Maffi per i tipi de La Nuova Italia1 e fu poi oggetto di una fortunata serie di lezioni di Claudio Napoleoni (Torino, Bollati Boringhieri, 1972). Nel presente contributo cercherò di offrire una sorta di “percorso di lettura” personale (§ 3) del denso testo del Capitolo sesto, al fine di mettere in luce alcune caratteristiche specifiche della sua trama teorica e alcuni suoi elementi di grande attualità politica (§ 4). Prima di passare all’analisi specifica dei contenuti del Capitolo sesto, mi sembra opportuno collocarlo brevemente nel progetto marxiano di critica dell’economia politica (§ 2).

2. Il ruolo e la posizione del Capitolo sesto inedito nel progetto marxiano di critica dell’economia politica 

I curatori del volume 4.1 della seconda sezione della MEGA2 hanno stabilito che il Capitolo sesto è stato scritto da Marx tra l’estate del 1863 e l’estate del 18642 : esso si colloca dunque all’altezza del terzo tentativo marxiano di esporre la sua critica dell’economia politica. Come è noto, il primo tentativo è rappresentato dai sette quaderni del 1857/58, noti con il nome redazionale di Grundrisse, che non costituiscono però, a ben vedere, il primo abbozzo de Il capitale, bensì il primo tentativo di una esposizione complessiva dell’ambizioso progetto marxiano di critica dell’economia politica3 . Nei Grundrisse si trova, infatti, una delle prime formulazioni del cosiddetto “piano dei sei libri”: 1) il capitale; 2) la proprietà fondiaria; 3) il salario; 4) lo Stato; 5) il commercio internazionale; 6) il mercato mondiale e le crisi4.

Il secondo tentativo compiuto da Marx per esporre il suo progetto di critica dell’economia politica è rappresentato dai 23 quaderni del manoscritto del 1861-63, la cui parte centrale è occupata dalle cosiddette Teorie sul plusvalore che, a loro volta, non costituiscono il “quarto libro” de Il capitale, in quanto è solo a partire dal Capitolo sesto che Marx inizia a parlare di un progetto in quattro libri (da pubblicare in tre volumi) e, quindi, di un quarto libro da dedicare alla storia delle teorie economiche, che viene separata dall’esposizione teoretica vera e propria, secondo la falsariga di Per la critica dell’economia politica (1859), in cui ai capitoli teorici seguiva un’ampia ricostruzione della storia delle categorie economiche.

giovedì 11 maggio 2017

Che cos’è il socialismo?*- N.I. Bukharin

*Da:   http://www.lavocedellelotte.it/   
Bukharin scrisse il testo che segue mentre era negli Stati Uniti d’America e collaborava con il giornale “Il Nuovo Mondo”, organo dei bolscevichi russi emigrati negli USA.

Da abile propagandista scrive con un lessico facilmente comprensibile alla massa operaia per spiegare in maniera semplice i principi della riorganizzazione socialista della società.

Un testo pedagogico per chi vuol utilizzare correttamente gli strumenti di agitazione e propaganda per dare una strategia politica al movimento operaio.

28 dicembre 1916

Qualunque paese oggi si prenda, Russia, Germania, America o Francia, dappertutto regna tra la gente la diseguaglianza: gli uni stanno sulla schiena degli altri, godono di tutto, padroneggiano tutto, mentre altre persone lavorano giorno e notte, mangiano male, dormono poco, gravati dalla miseria e dalla sventura e assoggettati in tutto ai propri padroni e governanti. Nelle grandi città, per le strade principali, passeggia il “pubblico rispettabile”. Qui è tutto di un lusso che abbaglia gli occhi. Ma nei quartieri miserabili di queste stesse città abitano i senzatetto. La mattina presto, appena comincia a far giorno, si trascinano fuori vecchie cenciose, bambini pallidi, scheletri umani. E cominciano a formicolare nell’immondizia della strada. Con avidità raccolgono gli avanzi degli ortaggi, dei pezzi di cartone, degli stracci: da questo ricavano il loro cibo, i loro “vestiti”, il loro combustibile per riscaldarsi…
Qual è il motivo di tale diseguaglianza? Nel fatto che alcune persone possiedono tutto, altre non possiedono niente, a parte un paio di braccia per lavorare. I primi hanno i soldi, i macchinari, le fabbriche, le case, la terra, che detengono come loro proprietà. I secondi sono poveri in canna. La società umana è scissa in due parti, in due parti, in due campi, in due grandi classi: la classe dei capitalisti-possidenti e proprietari terrieri e la classe dei lavoratori-proletari.

mercoledì 10 maggio 2017

Miserabile accumulazione: Salari, produttività e impoverimento relativo dei lavoratori*- Maurizio Donato**

*Da:   https://www.lacittafutura.it/ **L’autore insegna Economia politica alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo 


Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione del lavoratore, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare.


L'attenzione notevole rivolta negli ultimi anni ai cambiamenti intervenuti nella distribuzione del reddito da numerosi studiosi (Milanovic, Picketty, Deaton) può essere utilizzata correttamente se si considerano le crescenti disuguaglianze come effetto e non come causa della crisi.

Salari fermi al livello di sussistenza
Per Karl Marx, la parola “miseria” non indica la povertà assoluta, avendo egli chiarito nel I libro del Capitale (in particolare nei par. 3 e 4 del cap. 23) che la legge dell'immiserimento della classe operaia non è contraddetta dalla possibilità che i salari dei lavoratori crescano durante l’accumulazione di capitale, almeno fino a un certo livello. Nella sua analisi, Marx distingue tre definizioni del salario. In primo luogo, e a un livello più immediato, il salario rappresenta la quantità di denaro che il lavoratore riceve dal suo datore di lavoro: è il salario “nominale” o “monetario”. Tuttavia, in un mondo in cui spetta ai capitalisti decidere quantità e prezzi della produzione, non possiamo accontentarci di considerare i salari nominali, ma                                                                                        dobbiamo considerare la quantità effettiva di beni e servizi che i salari sono in grado di acquistare, cioè i salari “reali”.  

lunedì 8 maggio 2017

Due paragrafi da Hegel*- Paolo Di Remigio




Due paragrafi dai ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ di Hegel


Il fascismo e il liberalismo concordano nel presupporre l'esistenza di un contrasto insanabile tra persona e potere. Il fascismo sceglie il potere ed esclude il pluralismo dalla società annullando la persona; il liberalismo sceglie la persona, minimizza il potere e dissacra le leggi: come la sua epistemologia nega che esse determinino la prima natura così la sua etica rifiuta il valore della tradizione. È però destino delle ideologie contrastanti confluire l'una nell'altra: Popper non ha nascosto la sua simpatia per l'imperialismo, in particolare per quello anglo-sassone, von Mises, von Hayek e Friedman non hanno negato la loro vicinanza alla versioni liberali del fascismo. Il rifiuto liberale del potere dello Stato diventa condiscendenza ai poteri fattuali, proprio come nel fascismo lo svanire della persona conferisce alla gestione del potere un carattere personalistico.

Nell'avvicinarsi all'imperialismo e al fascismo, il liberalismo si allontana dalla realtà e sceglie la via della calunnia dello Stato e dei suoi teorici – Platone, Aristotele, Hegel. Così gli Stati-nazione sono ridotti ad inizi tribali della civiltà, mentre questa è identificata con la forma di impero. La minima informazione storica mostra però che gli Stati sorgono contro gli imperi, contro i privilegi che una etnia vi gode rispetto alle altre. Gli Stati moderni sorgono dall'estinguersi dell'impero medievale; gli ultimi Stati nazionali europei sorgono contro l'impero austro-ungarico, gli Stati nei continenti non europei si formano liberandosi dagli imperi coloniali. È dunque falso retrocedere lo Stato-nazione al tribalismo e credere che l’impero sia garanzia della persona; proprio nella sua società multiculturale si radica il razzismo che i liberali cercano di attribuire allo Stato-nazione.

La parola ‘nazionalismo’ li aiuta a creare l'equivoco: essa non indica la formazione degli Stati-nazione, non il sottrarsi di un popolo alla dipendenza imperiale, come sarebbe lecito attendersi, ma concerne il periodo del tardo Ottocento, in cui alcuni Stati concorsero a costituirsi come imperi procurandosi un retroterra coloniale. ‘Nazionalismo’ è dunque sinonimo di ‘imperialismo’; proiettando però sulla natura dello Stato-nazione ciò che è proprio della natura dell'impero, questa parola toglie all'imperialismo liberale il suo impresentabile fardello e lo addossa allo Stato-nazione. Per un analogo equivoco oggi accade che l'umanitarismo anti-razzista sia uno degli strumenti con cui l'oligarchia liberale padrona dell'impero anglo-americano destabilizza gli Stati europei.

Lo Stato è la soluzione del contrasto tra potere e persona, dalla cui pretesa insuperabilità si generano il fascismo e il liberalismo. La concezione fascista del primato del potere contro la persona e la concezione liberale del primato della persona contro il potere sono però entrambe inconsistenti: come la polemica contro la persona per il potere ha per risultato il potere tirannico di una persona, così la polemica contro il potere per la persona porta alla stessa tirannia della persona privata sulle altre persone. In questa mutevolezza logica delle due concezioni opposte è contenuta, in forma negativa, la vera conciliazione tra potere e persona; la teoria hegeliana dello Stato, esposta nei due seguenti paragrafi dei Lineamenti di filosofia del diritto[1], ne determina il significato positivo.

domenica 7 maggio 2017

Dialettica, oggettivismo e comprenetrazione degli opposti. Il pensiero di Lenin tra filosofia e politica*- Emiliano Alessandroni

*Da:   http://www.giornalecritico.it/
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html



1. L'oggettivismo di Lenin e «la favola sciocca del libero arbitrio»

In uno dei suoi scritti giovanili più noti Lenin pone l'attenzione sulla prospettiva non-volontarista ed anticoscienzialista di Marx. Il fondatore del materialismo storico, egli afferma,

considera il movimento sociale, come un processo di storia naturale, retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intuizioni degli uomini, ma che anzi determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni.1

Lenin tende ad evidenziare, in questo come in altri passi, la natura circostanziale della volontà umana, il suo essere, ovvero, ontologicamente inscritta all'interno di reticoli e quadri combinatori, non meramente accidentali, che ne determinano la nascita e ne scandiscono lo sviluppo. Non sembra esser dunque sull'opposizione determinismo/volontarismo che si sia prodotta, sul piano filosofico, la rottura con la II Internazionale2 . La prospettiva deterministica, invero, non viene mai respinta o esecrata dal futuro dirigente bolscevico: al contrario, essa costituirà l'unico punto di partenza dal quale egli, senza minimizzare la dimensione coscienziale del Für sich, riterrà possibile contrastare quei sedimenti di misticismo presenti all'interno del senso comune e coincidenti con la favola sciocca del libero arbitrio:

L'idea del determinismo, stabilendo la necessità delle azioni umane, rigettando la favola sciocca del libero arbitrio, non sopprime affatto la ragione o la coscienza dell'uomo, né l'apprezzamento delle sue azioni. Allo opposto, soltanto dal punto di vista del determinismo è possibile dare un apprezzamento rigoroso e giusto, invece di attribuire tutto ciò che si vuole al libero arbitrio.3

Si tratta di una critica radicale al soggettivismo, la quale, prima ancora che da Marx, Lenin desume da Hegel, la cui Scienza della Logica, descrive il Volere come Necessità inscritta nell'immanenza della Soggettività, come autoimpulso esternante dell'Oggetto, mediato entro se stesso, che si riflette in sé attraverso le proprie interne differenziazioni. La Volontà è volontà degli Esistenti, che costituiscono la concretezza e la determinazione dell'Essere. Ma gli Esistenti non sono autonomi in modo unilaterale ed esclusivo: essi sono invero unità di Autonomia ed Eteronomia, e accrescono la prima con l'aumento delle mediazioni di cui si compone seconda.

sabato 6 maggio 2017

Operazione Bluemoon - Eroina di Stato

Da: vincitorige 


Documento della Rai sull'operazione Bluemoon. Nel periodo più duro dello scontro di classe avvenuto negli anni 70, nelle piazze italiane fa la sua comparsa un nuovo tipo di droga "L'eroina". Un mare che avanza inesorabilmente, propagandato e pubblicizzato come atto liberatorio di fatto inghiotte e fagocita le coscienze e l'azione di migliaia di giovani militanti dell'autonomia (dopo il 77 il mare divenne un oceano) arrivando lì dove il bastone dello stato borghese non poteva colpire. 




venerdì 5 maggio 2017

Le origini della crisi*- Paolo Leon**

*Da:  http://www.syloslabini.info/
**Economista italiano  wikipedia 
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/la-crisi-finanziaria-e-la-grande.html 


1.Esiste ormai una biblioteca di scritti sulla crisi, ed estrarne le diverse impostazioni è come rivelare l’ideologia degli autori. Ha scavato in profondo, la crisi iniziata nel 2007, e poiché sconvolge pensieri dominanti da decenni e grandi interessi apparentemente consolidati, chi scrive esprimerà soltanto una propria opinione, che tuttavia considera una base possibile per future politiche.

2.La spiegazione più ingenua è quella che sostiene che tutto ciò che sale, prima o poi deve scendere: illustri economisti seguono questa idea, in particolare quelli che sono stati capaci di anticipare il crollo solo per aver fortunosamente scelto il tempo della pubblicazione della loro previsione.
Altri, in particolare Minsky, avevano anticipato il crollo vent’anni prima e non è per caso che il pensiero di questo economista trova nuove orecchie, dopo decennali silenzi. Semplificando, la tesi di Minsky è che il crollo avviene quando i valori dei mercati finanziari si distaccano eccessivamente dai valori del sottostante e indicava nella distruzione del sistema finanziario costruito dopo la Grande Depressione la causa della divaricazione.
Questa tesi si associa qualche volta all’atteggiamento moralista di chi ha condannato l’”economia di carta” avvenuta con la globalizzazione, dimenticandone i sorprendenti risultati positivi per l’economia mondiale, con lo sviluppo dei paesi emergenti. La tesi veramente più incomprensibile è quella che astrae dalla crisi, la considera una parentesi, e continua a ragionare del sistema economico mondiale come non fosse mai avvenuta: lo dimostra l’uso dei DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium) da parte delle banche centrali e l’immane letteratura pseudokeynesiana che cerca di ricostruire la sintesi neoclassica alterando questa o quella ipotesi del modello originario.
Recentemente, Davidson ha ripreso la critica della teoria delle aspettative razionali (ergodiche) perché queste sostanzialmente attribuiscono ai singoli agenti e individui la capacità di vedere probabilisticamente il futuro: un tentativo che gli dei ma anche il Dio della Bibbia avrebbero punito con la cecità. Del resto, la cecità è emersa proprio con la crisi, che nessun modello razionale né si attendeva né poteva anche soltanto includere.

3. Senza voler ricostruire la storia economica degli ultimi trentaquattro anni (dal monetarismo di Volcker nel 1979, con Carter, ad oggi), alcune tappe vanno però ricordate, e proprio a partire da quella fondamentale svolta, che più appropriatamente attribuiamo a Thatcher e Reagan.

giovedì 4 maggio 2017

Hegel, il fondamento e il postmoderno*- Remo Bodei

Introduzione di Remo Bodei (Università della California, Los Angeles) al recente volume di Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione, Mimesis, Milano 2016, pp. 202.                                                                                                                                                                                                         *Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, n° 1-2/2016, Questioni e metodo del materialismo storico, a cura di S.G. Azzarà, pp 331-334.




Le ripetute crisi che affannano il cammino della modernità tendono ad investire, per tutto il corso della loro durata, numerosi aspetti dell'esistenza umana: condizioni materiali e produzione spirituale, forme del diritto e dell'arte, filosofia e letteratura, generando spesso, nelle anime più sensibili o negli strati sociali più colpiti, un forte desiderio di cambiamento. Ma perché le cose cambiano? E come avviene di fatto la trasformazione? Ovvero, come realizzarla? Nella convinzione che essa venga favorita promuovendone non tanto il desiderio soggettivo, quanto piuttosto la comprensione dei funzionamenti oggettivi, questo volume tenta, a partire da Hegel, di esplorarne i meccanismi interni, cominciando in primo luogo dall'analisi dei suoi elementi fondamentali: i soggetti, la volontà, l'azione. Si tratta di uno studio che getta luce su molti problemi teorici del nostro tempo, ma anche su diversi lati del pensiero hegeliano, illustrato con semplicità e rigore. Autori come Fichte, Sartre, Gentile, Massolo, Severino vengono chiamati in causa per il confronto. Alle parti rivolte agli studiosi del campo sono affiancate altre, più divulgative, indirizzate a chi intenda addentrarsi per la prima volta nel vasto sistema del filosofo tedesco.



Che cosa è, in senso rigoroso, il Divenire e quale il suo rapporto con l’Essere? Attorno a questa domanda ruota il libro di Emiliano Alessandroni, che chiarisce, con pazienza e acume, le complesse problematiche che da Parmenide a Platone, da Fichte a Hegel, da Gentile a Sartre e da Massolo a Severino, hanno tormentato il pensiero filosofico.

Per comprendere questi temi, argomenta, occorre partire dalla questione, apparentemente semplice, dal perché le cose cambiano.
Attraverso una preliminare e puntuale analisi del concetto di «fondamento» (seguendo il filo della hegeliana Scienza della logica), Emiliano Alessandroni giunge alla conclusione che gli Esistenti si mostrano, nello stesso tempo, sia fondati che fondanti (fondamenti reali e condizionanti) e che il Cominciamento contiene in se stesso il negativo, da cui non può e non deve liberarsi. Al di là del gergo tecnico, ciò significa che l’uomo – inserito nella trama di una pluralità di elementi finiti e ben delimitati, di parti che compongono il tutto – trova in queste il limite della sua singolarità e della sua libertà ed è costretto alla continua mediazione con l’altro da sé.

martedì 2 maggio 2017

Luciano Canfora: La schiavitù del capitale*- Alessandra Ciattini


La schiavitù non è un rottame del passato, ma un’istituzione riportata in auge dal capitalismo del Terzo Millennio.
La schiavitù del capitale (Bologna 2017) è il nuovo libro di Luciano Canfora, che stupisce sempre per l’ampiezza della sua cultura e per la lucidità delle sue analisi, le quali delineano un quadro complessivo e sintetico delle prospettive storiche che abbiamo davanti a noi. Inoltre, si può cogliere tra le righe il piacere che prova lo studioso italiano, svolgendo il suo attento lavoro di ricerca, anche se da esso emerge un disegno drammatico.
La schiavitù del capitale è un saggio breve (111 pagine), nel quale vengono individuati in maniera precisa i gravissimi problemi della società contemporanea, che sarebbe caratterizzata dal “ritorno in grande stile del fenomeno della schiavitù come anello indispensabile del ‘cosiddetto capitalismo del Terzo Millennio’” (p. 69). Questo ritorno non deve meravigliarci, giacché conferma quanto sosteneva Aristotele: “la necessità e l’eternità della schiavitù” (p. 68).
Secondo Canfora la partita che è stata giocata nel corso del Novecento, iniziata con la Grande Guerra, è stata vinta da chi sfrutta e gli sconfitti sono stati gli sfruttati, ma è stato un grave errore credere che questa vicenda abbia posto fine alla storia. Che non fosse così ce lo ha fatto capire il “crollo del lungo, ostinato, alla fine insostenibile esperimento di ‘socialismo’”, evento dal quale possiamo ricavare una serie di osservazioni. Prima di tutto, che la partita è appena cominciata e che il modello capitalistico si è espanso in tutto il pianeta, conquistando anche la Russia e la Cina. A ciò dobbiamo aggiungere che solo oggi il capitalismo ha il dominio del mondo debolmente contrastato dai residui delle organizzazioni sindacali non collegate a livello internazionale, giacché gli sfruttati non sono in grado di compattarsi per ragioni religiose, etniche etc. Inoltre, per rendere efficace la sua espansione e seguendo la sua logica del profitto e dell’acquisizione di nuovi mercati, il capitalismo ha reintrodotto “forme di dipendenza di tipo schiavile” sia nel mondo sviluppato che in quello arretrato (pp. 10-11), in cui probabilmente – aggiungo io – non ha mai cessato di esistere. Tale reintroduzione ha comportato la perdita dei ‘diritti del lavoro’, ottenuti in Occidente grazie all’esistenza del blocco socialista, che costringeva il capitalismo ad essere più benevolo. Infine, Canfora sottolinea il ruolo determinante della malavita organizzata nella gestione delle varie forme di dipendenza oggi esistenti (pp. 11-12). 

venerdì 28 aprile 2017

“Sull'attualità del pensiero economico di Marx”*- M.Beccari - M.Paciotti

*I due articoli che presentiamo, pubblicati sulla rivista  https://www.lacittafutura.it/, sono frutto di una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull'attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l'UniGramsci (universit-popolare-antonio-gramsci), nell'anno accademico 2016-2017.  
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/bio-economia-e-il-mito-della-decrescita.html



Il mito della “fine del lavoro” - Marco Beccari 

Lo sviluppo tecnologico ha provocato un aumento del numero di disoccupati in Occidente, a ciò però si oppone una crescita dell’occupazione su scala internazionale, anche nel comparto industriale.

In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.

I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il il modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.

Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della fine del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.

mercoledì 26 aprile 2017

Etica Nicomachea Libro II (Giusto mezzo)*- Aristotele

*Da:    http://www.ilgiardinoedipensieri.eu/ 
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/aristotele-etica-nicomachea-francesco.html 


1. Da dove nasce la virtù?

1.1. La virtù morale è il frutto dell’abitudine, non dell’insegnamento
La virtù ha dunque due forme: una intellettuale, l’altra etica.
Se è intellettuale, è in gran parte all’insegnamento che deve la sua nascita e la sua crescita. Proprio per questo ha bisogno di esperienza e di tempo. Se invece è etica, è frutto dell’abitudine. Da qui deriva il suo nome, come piccola modificazione del termine ethos (1).

2. La virtù morale non è data per natura
È quindi chiaro che nessuna delle virtù morali ci è data per natura.

2.1. Primo argomento
Infatti nulla di ciò che è ci è dato per natura si modifica con l’abitudine. Così la pietra che cade per natura verso il basso non può prendere l’abitudine di andare verso l’alto, neppure se la si volesse abituare gettandola diecimila volte per aria. Non più di quanto il fuoco possa abituarsi ad andare verso il basso, perché nessun comportamento naturale può essere modificato con l’abitudine.
Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che ci sono date le virtù. Al contrario, la natura ci ha fatti in modo da poterle ricevere, ma è seguendo i nostri fini che le acquisiamo, attraverso l’abitudine.

2.2. Secondo argomento
Di più, tutto quanto la natura mette a nostra disposizione, l’acquisiamo all’inizio sotto forma di capacità e solo dopo diventa per noi in atto, come si vede bene osservando i sensi. Infatti non è che le nostre facoltà sensibili nascano dall’atto frequente di vedere o dall’atto frequente di intendere: è l’inverso, perché possiamo usare i sensi perché li abbiamo e non è affatto l’uso che ce ne dà il possesso.
Ora, le virtù nascono da atti precedenti, come avviene per il possesso delle tecniche. Infatti, quando dobbiamo apprendere come fare qualcosa, è attraverso il fare che l’apprendiamo. Così è costruendo che si impara a costruire, e suonando la citara si diviene citaristi. Nello stesso modo, è così che esercitandoci a fare azioni giuste che diventiamo giusti, e agendo con moderazione che diventiamo moderati, o con coraggio coraggiosi.

2.1. Conferma
Ne è testimonianza quanto accade nelle città. I legislatori infatti cercano di creare nei loro concittadini le abitudini che li rendano buoni cittadini: è proprio questo l’obiettivo di qualsiasi legislatore. Chi non si pone questo obiettivo, va incontro a fallimenti. Ed è proprio questo che differenzia un buon regime politico da uno che non lo è.

martedì 25 aprile 2017

La crisi finanziaria e la grande recessione: origini e politiche economiche adottate - Fabio Sdogati

Dice Aristotele che si conosce qualcosa quando se ne conoscono le cause. Da parte sua Marx ribadisce, nel Capitale, che "ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero". Nel seguire questa lezione di "capitalismo realmente esistente" è bene aver presenti queste affermazioni per evitare di cadere nell'equivoco di credere che la spiegazione della crisi proposta da Sdogati sia più di quel che è, vale a dire una rassegna di fenomeni promossi a cause. È vero che, ad esempio, la speculazione sui "derivati" o la restrizione del credito bancario hanno a che vedere con quanto sta accadendo a livello planetario: ma sono a loro volta espressione e conseguenza di quella tendenza all'infinito accrescimento del valore (non necessariamente della ricchezza effettiva) che costituisce l'essenza del capitalismo ( e che viene accuratamente occultato, o peggio, naturalizzato dall'ideologia dominante). Tutto ciò Marx lo sapeva già e lo espone, sia pure in forma non compiuta, nella sua opera principale e, in particolare, nel terzo libro. Detto ciò, è sempre utile e istruttivo, per chi non è un addetto ai lavori, prendere atto di come un economista borghese vede il mondo che la sua stessa classe ha costruito e, nello stesso momento, se lo nasconde dietro a un velo di pseudo-razionalità. (il collettivo)