*Da: https://www.youtube.com/user/mirkobe79/playlists?flow=grid&view=1&sort=lad
[…] il proletariato, la lotta di classe: c’è questa tragedia incombente. E peggio, questa tragedia incombente può anche essere addirittura segno dell’ira di dio contro l’uomo peccatore: tutti siamo assassini, tutti abbiamo ucciso nella guerra – i nazisti, gli antinazisti -, siamo tutti sporchi di sangue, dunque è possibile addirittura che dio consenta la guerra atomica per punirci.
Althusser, che in questo periodo è cattolico, dice ai cattolici per esempio a Malraux e Marcel: “Ma con quale arroganza voi pretendete di interpretare dio? Noi uomini possiamo capire le cose del mondo e allora cominciamo a dire chi sono i responsabili e a chiamare le persone con il loro nome. E chi è questo ‘tutti’? Guarda un po’, tutte queste persone che favoriscono l’ideologia del proletariato del terrore, poi se andiamo a vedere politicamente ruotano intorno alla socialdemocrazia e sono anticomunisti”.
Allora comincia a delinearsi questa immagine ideologica di un pensiero che – prendendo spunto da effettivi drammi, da effettivi problemi – addirittura accentuando la drammaticità di questi problemi, arriva alla conclusione che è inutile la lotta di classe: è come se coloro che occupano il treno lanciato verso l’abisso, si mettono a litigare tra loro quando c’è questa tragedia, e sono socialdemocratici e anticomunisti.
A questo proletariato del terrore lui contrappone il proletariato quello proletario, e dice: “Questo è un proletariato che si definisce per la sua condizione sociale, politica, economica, che lotta per delle cose determinate, contro forze determinate, e lottando impara che può vincere, e quindi costruisce un’immagine della società, del mondo in cui sta, si pone obiettivi, opera, fa; invece questo proletariato del terrore disarma”.
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
venerdì 9 giugno 2017
giovedì 8 giugno 2017
Come funziona il Soviet*- John Reed
*Da: http://www.marxpedia.org/ Questo
scritto viene pubblicato a puntate sull'Ordine Nuovo dal 21
giugno al 12 luglio del 1919.
Introduzione
In mezzo al coro di ingiurie e di menzogne contro la Russia dei Soviet ricorre, con una sorta di terrore, un alto grido: non vi è nessun governo in Russia, non vi è nessuna organizzazione tra gli operai russi! Non si lavora più! Non si lavora più!
È il metodo nella calunnia.
Come ogni socialista sa, come io stesso, che sono stato presente nella Rivoluzione russa, posso attestare, esiste oggi a Mosca e in tutte le città e in tutti i centri abitati del paese un organismo politico complesso, che è sostenuto dalla grande maggioranza della popolazione, e che funziona bene allo stesso modo di ogni altro governo popolare di recente formazione. Gli operai della Russia hanno, sotto l'impulso delle loro necessità e dei bisogni della vita, creato un'organizzazione economica che sta trasformandosi in una vera democrazia operaia.
Darò un disegno schematico della struttura dello Stato dei Soviet.
Storia dei Soviet
Lo Stato del Soviet è basato sui Soviet - e Consigli - di operai e contadini.
Questi Consigli - istituzioni cosi caratteristiche della Rivoluzione russa - sorsero nel 1905, quando, durante il primo sciopero generale degli operai, le fabbriche di Pietrogrado e le organizzazioni economiche mandarono delegati a un Comitato centrale. Questo comitato dello sciopero fu chiamato «Consiglio dei deputati operai». Esso organizzò il secondo sciopero generale della fine del 1905, inviò organizzatori per tutta la Russia, e per breve tempo fu riconosciuto dal governo imperiale come l'organo ufficiale e autorizzato della classe operaia rivoluzionaria russa.
Fallita la rivoluzione del 1905, i membri del Consiglio in parte fuggirono, in parte furono mandati in Siberia. Ma questo tipo di organizzazione unitaria era cosi straordinariamente efficace come organo politico che tutti i partiti rivoluzionari inclusero un Consiglio di deputati degli operai nei loro piani per la prossima rivolta.
Nel marzo 1917, quando, davanti a tutta la Russia agitata come un mare in tempesta, lo Zar abdicò, il granduca Michele rinunciò al trono, e la Duma riluttante fu forzata ad assumere le redini del potere, il Consiglio dei deputati degli operai sorse completamente formato. In pochi giorni fu esteso in modo da comprendere delegati dell’esercito, e chiamato Consiglio dei deputati degli operai e dei soldati. Il Comitato della Duma era composto, fatta eccezione per Kerensky, da borghesi, e non aveva nessuna relazione con le masse rivoluzionarie. Si doveva combattere, si doveva restaurare l'ordine, si doveva difendere il fronte... I membri della Duma non avevano modo di adempiere questi doveri: essi furono obbligati a ricorrere ai rappresentanti degli operai e dei soldati - in altre parole, al Consiglio. Il Consiglio prese parte all'opera rivoluzionaria, al lavoro di coordinare le attività, di mantenere l'ordine. lnoltre si assunse il compito di difendere la rivoluzione dai tradimenti della borghesia.
Dal momento che la Duma fu costretta a fare appello al Consiglio, due organismi governativi cominciarono a esistere in Russia, ed essi combatterono per la supremazia fino al novembre 1917, quando i Soviet, sotto la direzione dei bolscevichi, abbatterono il governo della coalizione.
Come ho detto, vi erano Soviet sia di operai che di soldati; un po' di tempo dopo si formarono Soviet di contadini. Nella maggior parte delle città i Soviet degli operai e dei soldati si unirono; e uniti tennero il loro Congresso panrusso. I Soviet dei contadini invece vennero tenuti separati dagli elementi reazionari che lo dirigevano e non si riunirono agli operai e ai soldati che dopo la rivoluzione di ottobre e dopo la costituzione del governo dei Soviet.
Costituzione dei Soviet
Introduzione
In mezzo al coro di ingiurie e di menzogne contro la Russia dei Soviet ricorre, con una sorta di terrore, un alto grido: non vi è nessun governo in Russia, non vi è nessuna organizzazione tra gli operai russi! Non si lavora più! Non si lavora più!
È il metodo nella calunnia.
Come ogni socialista sa, come io stesso, che sono stato presente nella Rivoluzione russa, posso attestare, esiste oggi a Mosca e in tutte le città e in tutti i centri abitati del paese un organismo politico complesso, che è sostenuto dalla grande maggioranza della popolazione, e che funziona bene allo stesso modo di ogni altro governo popolare di recente formazione. Gli operai della Russia hanno, sotto l'impulso delle loro necessità e dei bisogni della vita, creato un'organizzazione economica che sta trasformandosi in una vera democrazia operaia.
Darò un disegno schematico della struttura dello Stato dei Soviet.
Storia dei Soviet
Lo Stato del Soviet è basato sui Soviet - e Consigli - di operai e contadini.
Questi Consigli - istituzioni cosi caratteristiche della Rivoluzione russa - sorsero nel 1905, quando, durante il primo sciopero generale degli operai, le fabbriche di Pietrogrado e le organizzazioni economiche mandarono delegati a un Comitato centrale. Questo comitato dello sciopero fu chiamato «Consiglio dei deputati operai». Esso organizzò il secondo sciopero generale della fine del 1905, inviò organizzatori per tutta la Russia, e per breve tempo fu riconosciuto dal governo imperiale come l'organo ufficiale e autorizzato della classe operaia rivoluzionaria russa.
Fallita la rivoluzione del 1905, i membri del Consiglio in parte fuggirono, in parte furono mandati in Siberia. Ma questo tipo di organizzazione unitaria era cosi straordinariamente efficace come organo politico che tutti i partiti rivoluzionari inclusero un Consiglio di deputati degli operai nei loro piani per la prossima rivolta.
Nel marzo 1917, quando, davanti a tutta la Russia agitata come un mare in tempesta, lo Zar abdicò, il granduca Michele rinunciò al trono, e la Duma riluttante fu forzata ad assumere le redini del potere, il Consiglio dei deputati degli operai sorse completamente formato. In pochi giorni fu esteso in modo da comprendere delegati dell’esercito, e chiamato Consiglio dei deputati degli operai e dei soldati. Il Comitato della Duma era composto, fatta eccezione per Kerensky, da borghesi, e non aveva nessuna relazione con le masse rivoluzionarie. Si doveva combattere, si doveva restaurare l'ordine, si doveva difendere il fronte... I membri della Duma non avevano modo di adempiere questi doveri: essi furono obbligati a ricorrere ai rappresentanti degli operai e dei soldati - in altre parole, al Consiglio. Il Consiglio prese parte all'opera rivoluzionaria, al lavoro di coordinare le attività, di mantenere l'ordine. lnoltre si assunse il compito di difendere la rivoluzione dai tradimenti della borghesia.
Dal momento che la Duma fu costretta a fare appello al Consiglio, due organismi governativi cominciarono a esistere in Russia, ed essi combatterono per la supremazia fino al novembre 1917, quando i Soviet, sotto la direzione dei bolscevichi, abbatterono il governo della coalizione.
Come ho detto, vi erano Soviet sia di operai che di soldati; un po' di tempo dopo si formarono Soviet di contadini. Nella maggior parte delle città i Soviet degli operai e dei soldati si unirono; e uniti tennero il loro Congresso panrusso. I Soviet dei contadini invece vennero tenuti separati dagli elementi reazionari che lo dirigevano e non si riunirono agli operai e ai soldati che dopo la rivoluzione di ottobre e dopo la costituzione del governo dei Soviet.
Costituzione dei Soviet
martedì 6 giugno 2017
Sulla Comunicazione (Soft e Hard) - Umberto Eco*
*Umberto_Eco è stato un semiologo, filosofo e scrittore italiano.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/05/demenza-digitale-manfred-spitzer.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/05/demenza-digitale-manfred-spitzer.html
lunedì 5 giugno 2017
domenica 4 giugno 2017
Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe*- Alessandra Ciattini**
*Da: https://www.unigramsci.it/
**Professore associato alla Sapienza di Roma, Facoltà di lettere e Filosofia (Discipline demoetnoantropologiche).
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/il-fattore-religioso-nellattuale.html
La prima lezione sarà dedicata alla ricostruzione della storia dell'espressione America Latina; espressione che si è affermata e diventata comune solo in seguito alla politica espansionistica di Napoleone III, abortita nel giro di pochi anni. Allo stesso tempo ci si soffermerà sul concetto di “religiosità popolare”, partendo dal punto di vista gramsciamo secondo il quale i diversi settori sociali sviluppano forme di religiosità e concezioni del mondo loro peculiari. Saranno illustrati i caratteri della religiosità popolare, i suoi contenuti e le sue modalità di espressione, mostrando come tali contenuti e tali forme di esteriorizzazione esercitino un grande fascino nella società contemporanea, in cui consistenti settori sociali sono alla ricerca di concezioni del mondo alternative a quelle egemoni.
Prima lezione:**Professore associato alla Sapienza di Roma, Facoltà di lettere e Filosofia (Discipline demoetnoantropologiche).
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/il-fattore-religioso-nellattuale.html
Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.
La prima lezione sarà dedicata alla ricostruzione della storia dell'espressione America Latina; espressione che si è affermata e diventata comune solo in seguito alla politica espansionistica di Napoleone III, abortita nel giro di pochi anni. Allo stesso tempo ci si soffermerà sul concetto di “religiosità popolare”, partendo dal punto di vista gramsciamo secondo il quale i diversi settori sociali sviluppano forme di religiosità e concezioni del mondo loro peculiari. Saranno illustrati i caratteri della religiosità popolare, i suoi contenuti e le sue modalità di espressione, mostrando come tali contenuti e tali forme di esteriorizzazione esercitino un grande fascino nella società contemporanea, in cui consistenti settori sociali sono alla ricerca di concezioni del mondo alternative a quelle egemoni.
Nella
lezione seguente si illustreranno le ragioni che hanno portato gli
europei (gli iberici in particolare) ad espandersi
fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e
dell'evangelizzazione; fenomeni che
saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una
stessa medaglia, richiamandosi alla nozione
di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel.
Nella
terza lezione si cercheranno di ricostruire i diversi processi
culturali attraverso i quali gli amerindiani interpretano
il cattolicesimo e i suoi simboli introdotti in America dagli
spagnoli; al contempo, si analizzerà anche
l'altra prospettiva, ossia il modo in cui questi ultimi decifrano la
religiosità indigena, mostrando di fatto
una totale incapacità di comprensione. Tali modalità interpretative
sono oggetto ancora oggi di un intenso
dibattito e sono ancora operanti nei contesti rituali, che
costituiscono i momenti più intesi di espressione
della religiosità popolare.
Dall'analisi
di tali processi storici scaturisce l'ipotesi che essi siano
all'origine del cosiddetto sincretismo religioso; fenomeno che si esprime in vari gradi e che riguarda sia le religioni
autoctone che quelle di origine africana, importate con gli schiavi, e che nel corso del tempo ha visto
l'incorporarsi di altre tendenze religiose,
come lo spiritismo. Il sincretismo non è un fenomeno appartenente al
passato; esso è vivo e vegeto, e
caratterizzato da uno straordinario dinamismo che gli permette di
arricchirsi anche grazie all'incremento degli
scambi sociali e culturali. In tale contesto saranno analizzati nel
dettaglio due processi di triplice sincretizzazione
di due madonne cubane.
Infine,
la quarta lezione sarà dedicata alla relazione tra religione e
politica, e ci soffermeremo su questi aspetti:
il carattere interclassista della Chiesa cattolica, la presenza in
essa del pluralismo religioso sia pure contrastato
e controllato, l'emergenza di tendenze progressiste e impegnate
politicamente (come la Teologia della liberazione e le comunità ecclesiastiche di base), il conflitto tra
Chiesa cattolica e i governi progressisti (il
caso di Cuba e la lotta contro la Teologia della liberazione), la
politica dell'attuale papa verso l'America latina
e le ragioni della sua “apertura” alle richieste delle masse
popolari. Si farà cenno anche al fenomeno della diffusione del pentecostalismo, fomentata dalle “missioni di fede”
statunitensi, e alla sua relazione con l’imposizione
a partire degli anni ’70 del Novecento delle politiche
neoliliberali.
sabato 3 giugno 2017
Il mito dell’imperialismo russo: in difesa dell’analisi di Lenin*- Renfrey Clarke, Roger Annis**
* https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ Il
testo seguente è una versione più lunga di un precedente
saggio: Perpetrator
or victim? Russia and contemporary imperialism,
di Renfrey Clarke e Roger Annis, pubblicato sul sito Links
International Journal of Socialist Renewal, nel febraio del 2016.
**Renfrey Clarke, scrittore ed attivista australiano, nel corso degli anni Novanta ha svolto il ruolo di corrispondente da Mosca per Green Left Weekly. Roger Annis, lavoratore del settore aerospaziale oggi in pensione, attivista e blogger, ha compiuto numerosi viaggi di ricerca in Crimea e nel Donbass. Entrambi sono tra i curatori del sito New Cold War (newcoldwar).

Tradizionalmente,
la sinistra marxista ha utilizzato il termine “imperialismo” con
un alto grado di discernimento. Dunque, per i marxisti,
l’imperialismo non è un qualcosa che emerge misteriosamente quando
i leader si lasciano sovrastare dall'”avidità”. Né può essere
ridotto alla semplice azione militare esterna, per quanto aggressiva.
Per i marxisti, viceversa, l’imperialismo attuale nasce da
specifiche caratteristiche dell’ordine economico e sociale dei
paesi capitalistici più avanzati.
La
classica definizione marxista di imperialismo nell’epoca moderna è
stata fornita da Lenin nel suo pamphlet del 1916, L’imperialismo,
fase suprema del capitalismo.
Secondo il punto di vista del leader bolscevico, il capitalismo
avanzato emerso nei decenni precedenti presentava le seguenti
caratteristiche salienti:
“1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli come funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo «capitale finanziario», di un’oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.” [2]
A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, affermava Lenin, le economie dei paesi più industrializzati si erano mosse in direzione di una nuova fase di “capitalismo monopolistico”. Il controllo sulla vita economica da parte delle maggiori concentrazioni di capitale era giunto al punto che, in ognuno di questi paesi, l’influenza detenuta da un gruppo strettamente interconnesso dei più potenti capitalisti, finanziari e industriali, era fuori questione.
giovedì 1 giugno 2017
Contro il liberoscambismo*- Marco Veronese Passarella**
*Da: http://www.marcopassarella.it/it/socialismo-o-liberoscambismo/ (https://mpra.ub.uni-muenchen.de/60350/1/MPRA_paper_60350.pdf) https://sinistrainrete.info/
** Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email: m.passarella@leeds.ac.uk. Web: www.marcopassarella.it
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/crisi-si-ma-quale-teoria-della-crisi.html
** Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email: m.passarella@leeds.ac.uk. Web: www.marcopassarella.it
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/crisi-si-ma-quale-teoria-della-crisi.html
1. Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1. In effetti, la stagione di grande apertura dei mercati che precedette la prima guerra mondiale non avrebbe conosciuto eguali fino alla seconda ondata di globalizzazione capitalistica sperimentata dalle maggiori economie mondiali in seguito all’implosione del blocco socialista – a partire, cioè, dai primi anni novanta. Sennonché, a dispetto delle asserite proprietà salvifiche delle forze della concorrenza e delle leggi naturali del mercato, la crescente integrazione delle economie mondiali è sembrata dischiudere, ancora una volta, gravi rischi per le conquiste economiche e sociali strappate, nel corso del secondo dopoguerra, dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rappresentative nei paesi di prima industrializzazione. D’altra parte, l’ascesa economica recente dei giganti asiatici e sudamericani non appare in grado, almeno al momento, di legarsi stabilmente alla prospettiva di un avanzamento generalizzato nei rapporti sociali a favore dei salariati e delle classi lavoratrici in genere, di surrogare, cioè, il katéchon sovietico2.
Sono già qui enunciate in nuce due tesi fondamentali, che costituiranno il leitmotiv di questo breve saggio. La prima tesi è che è che la contrapposizione welfare oppure barbarie sia storicamente legata a doppio filo al grado di mondializzazione del capitale, ossia ai processi di apertura dei mercati regionali e nazionali ai flussi internazionali di capitali e di merci. La seconda tesi – che è poi un corollario – è che non sia tanto, o soltanto, la soluzione di quella contrapposizione a favore del secondo termine (la barbarie connessa al possibile azzeramento di ogni forma di prestazione sociale) a far problema. È una posizione, questa, che pure sembrerebbe emergere dall’osservazione di quanto accaduto nelle economie avanzate nell’ultimo trentennio, dove il sistema statuale di previdenza sociale è stato progressivamente smantellato (ancorché in modo asimmetrico e parziale) a colpi di privatizzazioni prima, e di misure di austerità poi. Piuttosto, la sensazione è che si stia assistendo al progressivo tramutarsi della congiunzione «o» in una copulativa positiva, «e»: welfare e barbarie. Non azzeramento delle prestazioni di welfare, insomma, ma loro profonda ridefinizione in termini, ad un tempo, «universalistici» e «minimalisti», sulla base dei rapporti sociali emersi dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta e dai conseguenti processi di ristrutturazione produttiva degli anni ottanta e novanta. Il welfare come sussidio residuale atto a colmare la differenza tra redditi da lavoro salariato precario e soglia minima di sussistenza: questa sembra essere, per le classi lavoratrici italiane (ed europee), la fosca prospettiva che si para all’orizzonte. Si tratta di una prospettiva, per la verità, non nuova, dato che rimanda agli albori del processo di industrializzazione. Di fronte a questo scenario, si ritiene necessario, anzitutto, avanzare una critica radicale all’accettazione incondizionata, a tratti apologetica, delle dinamiche di mondializzazione capitalistica e dell’agenda neoliberista e liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica3.Tale atteggiamento ha curiosamente caratterizzato, in Italia, gli intellettuali e le organizzazioni eredi del movimento operaio novecentesco ancor più delle forze conservatrici. Si tratta, in secondo luogo, di prospettare una diversa forma di organizzazione economica e sociale che recuperi ed aggiorni lo strumento della pianificazione economica quale alternativa alle dinamiche caotiche del mercato e, al contempo, quale prefigurazione di una società altra.
mercoledì 31 maggio 2017
DEMENZA DIGITALE* - Manfred Spitzer**
*Rischi di effetti collaterali nell'uso delle tecnologie digitali nelle scuole. Dott. Manfred Spitzer. Convegno organizzato dalla Gilda di Padova (http://www.gildatv.it/)
**Manfred Spitzer, laureato in Medicina e Psicatria, è stato visiting professor a Harvard e attualmente dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l'apprendimento dell'Università di Ulm (Germania).
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nozione-di-progresso-renato-curcio.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/cose-lintelligenza-numerica-nelluomo.html
Cosa sta succedendo al nostro cervello con l'uso e l'abuso della tecnologia digitale?
Non sappiamo più usare una cartina per raggiungere un luogo e ci affidiamo totalmente al navigatore.
Non usciamo mai di casa senza cellulare e i bambini e i ragazzi usano lo smartphone e il computer per un tempo doppio a quello che trascorrono a scuola.
Sono aumentati i disturbi dell'apprendimento, lo stress, le patologie depressive e la predisposizione alla violenza.
**Manfred Spitzer, laureato in Medicina e Psicatria, è stato visiting professor a Harvard e attualmente dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l'apprendimento dell'Università di Ulm (Germania).
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nozione-di-progresso-renato-curcio.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/cose-lintelligenza-numerica-nelluomo.html
Cosa sta succedendo al nostro cervello con l'uso e l'abuso della tecnologia digitale?
Non sappiamo più usare una cartina per raggiungere un luogo e ci affidiamo totalmente al navigatore.
Non usciamo mai di casa senza cellulare e i bambini e i ragazzi usano lo smartphone e il computer per un tempo doppio a quello che trascorrono a scuola.
Sono aumentati i disturbi dell'apprendimento, lo stress, le patologie depressive e la predisposizione alla violenza.
martedì 30 maggio 2017
Vuoti di memoria - fascismo e (non) “nuovi” fascismi*
*pubblicato sulla rivista"la Contraddizione"n°130, a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario di Napoli, 2010. http://www.resistenze.org/
Dove eravamo rimasti? Abbiamo perso il filo. Sapevamo qualcosa un tempo, che oggi ci sfugge. Lo sapevamo nel ‘22: quando dietro gli uomini in camicia nera vedevamo gli industriali in camicia bianca, e oltre le violenze squadriste le “buone maniere” di chi voleva fermare con ogni mezzo la lotta operaia e contadina. Lo sapevamo nel Ventennio, quando i governi fascisti abbassarono le tasse ai ricchi, abolirono le imposte di successione, vietarono lo sciopero, e crearono le corporazioni, per opprimere ancora di più i lavoratori, fino a trascinarli, come carne da cannone, alla guerra. Lo sapevamo nel ‘43, “quando non ci furono più ordini, ciascuno dovette scegliere da sé, rischiare l’errore, decidere il dovere” – ed una nuova generazione riprese la lotta non solo contro il nazifascismo, ma contro l’oppressione e lo sfruttamento, contro i padroni dei campi e delle fabbriche, pagando quest’assalto al cielo con settantamila caduti, con centinaia di migliaia di feriti, con anni di carcere...
Provarono a farcelo dimenticare – un’amnistia ch’era un’amnesia: i giudici, i questori, la piccola-borghesia fedele al Duce intoccata negli apparati istituzionali, i gerarchi recuperati nei servizi segreti della nuova Italia repubblicana, con i partigiani in galera e la polizia che spara agli operai, con la mafia che uccide sindacalisti e contadini. Ma non l’avevamo dimenticato: dopo i morti di Reggio Emilia, dopo il governo Tambroni, sapevamo ancora riconoscere i fascisti, anche se non brandivano più il gladio, ma lo scudo crociato. “C’è ancora il fascismo? C’è. – scriveva Fortini – Ha ritrovato il suo viso di 50 anni fa. Prima delle camicie nere, il viso della conservazione che sul mercato politico offre ancora a buon prezzo gruppetti provocatori, perché il poco fascismo visibile mascheri il molto fascismo invisibile. La vostra coscienza cos’ha da dire? Bisogna scegliere, bisogna decidere. Il destino è solo vostro. Rispondete.
Risposero, otto anni dopo, gli studenti e gli operai, che quel destino volevano riprendersi. E rispose la bomba a Piazza Fontana. Tornò visibile il fascismo, ammazzando giovani, militanti, gente comune. Ma anche allora sapevamo chi li pagava e li copriva: gli Usa, i servizi segreti, la Dc, la grande borghesia, per far aumentare la tensione e favorire una stabilizzazione reazionaria... pienamente riuscita. Una guerra a bassa intensità, durata un decennio, finì all’improvviso. Il fascismo visibile tornò marginale, quello invisibile no: trovò altri strumenti. E forse allora smettemmo di sapere, perdemmo il filo del discorso. Le nostre voci si abbassavano, altre voci ci chiamavano, ci lasciammo sorprendere dal “nuovo”, e tutti i nostri ricordi non tornarono a chiedere il conto. Quella che era stata una consapevolezza di massa tornava ad essere il terribile segreto di pochi. Non sapevamo più riconoscere un fascista, nemmeno far riconoscere un fascista. E i nostri vuoti di memoria erano i pieni del potere...
martedì 23 maggio 2017
Debolezze e potenzialità negli argomenti anti-hegeliani del giovane Marx*- Carlo Scognamiglio

Marx non recepisce meccanicamente l’intuizione feuerbachiana, ma la assimila in modo critico e articolato. Il libro su Hegel è sostanzialmente frutto di quest’opera di appropriazione concettuale. Leggendo il testo con attenzione, ma anche con una certa fatica, si nota qualche elemento acerbo nell’argomentazione di Marx, si ha quasi la sensazione di avere di fronte un libro filosoficamente debole, nella sua capacità effettiva di rovesciare o confutare le tesi hegeliane. Ciononostante si tratta di un libro importante, soprattutto per i numerosi spunti di critica della modernità che propone.
lunedì 22 maggio 2017
LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)*- Alvaro Bianchi e Daniela Mussi**
*Da: http://www.palermo-grad.com/
**Alvaro Bianchi è Professore associato al Dipartimento di Scienze politiche presso l’Università statale di Campinas (Unicamp – Brasile); Direttore dell’Archivio Edgard Leuenroth – Centro di ricerca e documentazione sociale.
Daniela Mussi è ricercatrice post-Dottorato presso la Facoltà di Filosofia, Lettere e Scienze umane (FFLCH) dell’Università di San Paolo del Brasile.
Leggi l'articolo originale di Gramsci: la-rivoluzione-contro-il-capitale
**Alvaro Bianchi è Professore associato al Dipartimento di Scienze politiche presso l’Università statale di Campinas (Unicamp – Brasile); Direttore dell’Archivio Edgard Leuenroth – Centro di ricerca e documentazione sociale.
Daniela Mussi è ricercatrice post-Dottorato presso la Facoltà di Filosofia, Lettere e Scienze umane (FFLCH) dell’Università di San Paolo del Brasile.
Leggi l'articolo originale di Gramsci: la-rivoluzione-contro-il-capitale
Gramsci e il 1917
Ottanta anni fa – il 27 aprile 1937 – Antonio Gramsci muore dopo aver trascorso la sua ultima decade in un carcere fascista. Riconosciuto a livello internazionale molto più tardi per il lavoro teorico svolto in quelli che saranno pubblicati come Quaderni del Carcere, Gramsci iniziò a fornire un contributo di riflessione di taglio politico durante la Grande Guerra, quando era un giovane studente di linguistica presso l’Università di Torino. Già allora, i suoi articoli pubblicati sulla stampa socialista costituivano un atto di sfida non soltanto alla guerra in corso, ma anche alla cultura liberale, nazionalista e cattolica imperante in Italia.
All’inizio del 1917 Gramsci lavora come giornalista in un quotidiano socialista di Torino, Il Grido del Popolo, e collabora con l’edizione piemontese dell’Avanti!. Nei primi mesi che seguono alla Rivoluzione di Febbraio in Russia, le notizie a riguardo erano ancora scarse, in Italia. In massima parte ci si limitava alla riproduzione di articoli provenienti dalle agenzie giornalistiche di Londra e Parigi. Sull’Avanti! si seguivano gli eventi russi attraverso gli articoli firmati da “Junior”, pseudonimo di Vasilij Vasilevich Suchomlin, un Socialista Rivoluzionario in esilio.
Per fornire ai socialisti italiani informazioni affidabili, la direzione del Partito Socialista Italiano (PSI) inviò un telegramma al deputato Oddino Morgari, che si trovava a L’Aia, chiedendogli di recarsi a Pietrogrado ed entrare in contatto con i rivoluzionari. Ma la missione fallì e Morgari fece ritorno in Italia nel mese di luglio. Il 20 aprile, tuttavia, l’Avanti! aveva pubblicato una nota scritta da Gramsci sul tentativo compiuto dal parlamentare, chiamandolo l’“ambasciatore rosso”. L’entusiasmo di Gramsci per gli eventi russi era palpabile: a questo punto egli riteneva che la potenziale capacità della classe operaia italiana di porre fine alla guerra fosse direttamente legata alla forza del proletariato russo. Pensava che con la rivoluzione in Russia tutte le relazioni internazionali sarebbero mutate radicalmente.
domenica 21 maggio 2017
Storia e oggettività in Nietzsche*- Vladimiro Giacché
*Da: http://www.nilalienum.it/ Pubblicato su Hortus Musicus, luglio-settembre 2004, pp. 100-107

1. Storia e oggettività nella seconda Considerazione inattuale.
L'utilità e il danno della storia per la vita, pubblicata nel 1874, è la seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, ed è anche una delle sue opere più note e più lette. Tra le ragioni principali del fascino che quest'opera ha esercitato e tuttora esercita su un largo pubblico di lettori va sicuramente ricordata l'abilità di polemista del filosofo tedesco, che riesce a tenere su un tono molto teso e sostenuto tutta la prima parte dello scritto, imperniandola su variazioni del modulo retorico dell'antitesi; accanto a questo motivo di natura stilistica va collocato il bersaglio polemico dell'opera, ossia - come è detto nella Prefazione - la "corrente storica dell'epoca [historische Zeitrichtung]", l'attenzione (soprattutto tedesca) alla storia. Proprio questo obiettivo degli strali di Nietzsche, facilmente identificabile con lo “storicismo”, ha consentito di volta in volta a lettori avversi ad una delle vere o presunte varianti di questo (lo storicismo hegeliano, diltheyano, crociano, marxista...) di far proprio il discorso di Nietzsche, di utilizzarlo come arma per la propria battaglia: in altre parole, ha reso l'"inattualità" nietzscheana ripetutamente attuale. L'utilità e il danno della storia per la vita ha rappresentato quindi per generazioni di lettori una sorta di "canone dell'antistoricismo": e del resto proprio con questa definizione uno studioso in continuo (e simpatetico) dialogo con il pensiero del filosofo tedesco, Giorgio Colli, aprì alcune sue pagine di commento alla seconda considerazione inattuale.[2]
Ora, da un lato è difficile non concordare con il giudizio di Colli: lo scritto in questione è in effetti un attacco frontale allo storicismo, e più in generale agli effetti dell'uso della storia (ivi compresa, ovviamente, la storia della filosofia)[3] nella cultura moderna; d'altro lato, una delle ragioni di interesse di quest'opera di Nietzsche consiste nel suo dispiegare ed articolare alcuni temi centrali di un discorso metafisico sul mondo. Da questo punto di vista, i limiti di una lettura tutta 'antistoricistica' della seconda Considerazione inattuale sono evidenti. Oggetto dell'opera, in effetti, non è solo la storiografia: le implicazioni filosofiche del discorso di Nietzsche sono di assai più vasta portata, e lo stesso attacco alla storiografia può essere capito in base alla comprensione dello sfondo metafisico dello scritto. A questo va aggiunto che sul punto fondamentale - valore globalmente negativo della storia - Nietzsche non appare del tutto conseguente: talvolta impone un freno alla propria radicalità teorica, in altri casi mostra significative indecisioni o sfuma, nelle varie stesure dell'opera e nel corso di quella definitiva, contrasti dapprima presentati nella massima nettezza:[4] insomma, il percorso argomentativo di quest'opera si rivela in definitiva assai più articolato e problematico di quanto non sembri a prima vista. Ma passiamo senz’altro ad una lettura dello scritto nietzscheano.
1.1. L’attacco alla “malattia storica”

1. Storia e oggettività nella seconda Considerazione inattuale.
L'utilità e il danno della storia per la vita, pubblicata nel 1874, è la seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, ed è anche una delle sue opere più note e più lette. Tra le ragioni principali del fascino che quest'opera ha esercitato e tuttora esercita su un largo pubblico di lettori va sicuramente ricordata l'abilità di polemista del filosofo tedesco, che riesce a tenere su un tono molto teso e sostenuto tutta la prima parte dello scritto, imperniandola su variazioni del modulo retorico dell'antitesi; accanto a questo motivo di natura stilistica va collocato il bersaglio polemico dell'opera, ossia - come è detto nella Prefazione - la "corrente storica dell'epoca [historische Zeitrichtung]", l'attenzione (soprattutto tedesca) alla storia. Proprio questo obiettivo degli strali di Nietzsche, facilmente identificabile con lo “storicismo”, ha consentito di volta in volta a lettori avversi ad una delle vere o presunte varianti di questo (lo storicismo hegeliano, diltheyano, crociano, marxista...) di far proprio il discorso di Nietzsche, di utilizzarlo come arma per la propria battaglia: in altre parole, ha reso l'"inattualità" nietzscheana ripetutamente attuale. L'utilità e il danno della storia per la vita ha rappresentato quindi per generazioni di lettori una sorta di "canone dell'antistoricismo": e del resto proprio con questa definizione uno studioso in continuo (e simpatetico) dialogo con il pensiero del filosofo tedesco, Giorgio Colli, aprì alcune sue pagine di commento alla seconda considerazione inattuale.[2]
Ora, da un lato è difficile non concordare con il giudizio di Colli: lo scritto in questione è in effetti un attacco frontale allo storicismo, e più in generale agli effetti dell'uso della storia (ivi compresa, ovviamente, la storia della filosofia)[3] nella cultura moderna; d'altro lato, una delle ragioni di interesse di quest'opera di Nietzsche consiste nel suo dispiegare ed articolare alcuni temi centrali di un discorso metafisico sul mondo. Da questo punto di vista, i limiti di una lettura tutta 'antistoricistica' della seconda Considerazione inattuale sono evidenti. Oggetto dell'opera, in effetti, non è solo la storiografia: le implicazioni filosofiche del discorso di Nietzsche sono di assai più vasta portata, e lo stesso attacco alla storiografia può essere capito in base alla comprensione dello sfondo metafisico dello scritto. A questo va aggiunto che sul punto fondamentale - valore globalmente negativo della storia - Nietzsche non appare del tutto conseguente: talvolta impone un freno alla propria radicalità teorica, in altri casi mostra significative indecisioni o sfuma, nelle varie stesure dell'opera e nel corso di quella definitiva, contrasti dapprima presentati nella massima nettezza:[4] insomma, il percorso argomentativo di quest'opera si rivela in definitiva assai più articolato e problematico di quanto non sembri a prima vista. Ma passiamo senz’altro ad una lettura dello scritto nietzscheano.
1.1. L’attacco alla “malattia storica”
sabato 20 maggio 2017
KARL MARX*- Lenin
*Da: Lenin, breve saggio biografico ed esposizione del marxismo, Opere complete, vol. 21, pagg. 37-69 http://www.retedeicomunisti.org/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nep-e-sul-capitalismo-di-stato.html
"Engels potette condurre per lungo tempo, dopo la morte di Marx, una sua riflessione e sviluppare temi, a cui Marx mai si interessò specificamente. Da parte loro, i più significativi seguaci di Marx, (intendo Lenin, Trockij e la Luxemburg) scrissero ed elaborarono sotto la forte pressione di problemi radicali, sia in ambito politico, che economico, organizzativo e militare; e la conseguenza fu che una teoria dello Stato e della politica, che fosse radicata nel pensiero di Marx, non riuscì a nascere. Si badi, ad es., che se Lenin scrisse opere, propriamente teoretiche (Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici), in realtà la sua filosofia sta in tutt’altra sede (e per fortuna!), ovvero nel modo in cui condusse la lotta politica, sulla base di una certa concezione (hegeliana) del movimento storico; va da sé che, se è vero quanto dico, la ‘filosofia’ di Lenin è strettamente legata a situazioni contingenti e, quindi, difficilmente riducibile a precisi teoremi."
L'articolo su Karl Marx, che esce ora in opuscolo, è stato da me scritto (a quanto ricordo) nel 1913 per il Dizionario Granat. Alla fine dell'articolo vi era una nota bibliografica abbastanza estesa delle opere su Marx, soprattutto in lingua straniera. Essa è stata omessa nella presente edizione.
Inoltre la redazione del dizionario aveva da parte sua soppresso, a causa della censura, la fine dell'articolo su Marx, dedicata all'esposizione della sua tattica rivoluzionaria. Purtroppo non ho la possibilità di ricostruire qui questa parte finale, perché la brutta copia è rimasta fra le mie carte a Cracovia o in Svizzera. Ricordo soltanto che in questa fine dell'articolo io riportavo, fra l'altro, quel passo della lettera di Marx a Engels del 16-IV-1856 in cui Marx scriveva: "In Germania tutto dipenderà dalla possibilità di far appoggiare la rivoluzione proletaria da una specie di seconda edizione della guerra contadina. Allora le cose andranno bene". È questo che non hanno capito dal 1905 i nostri menscevichi, che sono ora giunti al pieno tradimento del socialismo, al passaggio dalla parte della borghesia.
venerdì 19 maggio 2017
HEGEL: LO STATO PERFETTO (E LA SPINA DI MARX)*- Fulvio Papi**
*Da: http://casadellacultura.it/ Qui il link alla rivista completa: http://casadellacultura.it/viaborgogna3/viaborgogna3-n5-filosofia-e-spazio-pubblico.pdf
**Fulvio_Papi. Filosofo, politico,scrittore e giornalista italiano

Cerchiamo di mettere in luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel scritta nel 1820 quando aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino. Gli studiosi di Hegel hanno spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come precedenti importanti della “Fenomenologia dello Spirito” del 1808 come della “Filosofia del diritto”, anzi questi scritti giovanili mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia delle successive opere a stampa. Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista la strada teorica che Hegel ha poi codificato come sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto generale si può trovare una linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, Mario Rossi (un amico di grande valore perduto immaturamente), studiando proprio gli scritti jenensi notava che “la preminenza assoluta di valore della determinazione politica serve a comprendere e a risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire che ogni figura sociale, l’agricoltore, l’artigiano, il medico, il professore vanno compresi nel significato spirituale che essi hanno nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith, Ricardo, e classici della economia politica. Questa conoscenza ha portato a ritenere che Hegel, avendo nozione di queste opere, avesse anche una immagine teorica della società “borghese” che stava nascendo su una base capitalistica. Detta così questa proposizione non è vera. E qui è necessaria una considerazione generale intorno a che cosa sia la conoscenza di opere e quale senso esse possano avere in un tessuto interpretativo.
**Fulvio_Papi. Filosofo, politico,scrittore e giornalista italiano

Cerchiamo di mettere in luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel scritta nel 1820 quando aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino. Gli studiosi di Hegel hanno spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come precedenti importanti della “Fenomenologia dello Spirito” del 1808 come della “Filosofia del diritto”, anzi questi scritti giovanili mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia delle successive opere a stampa. Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista la strada teorica che Hegel ha poi codificato come sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto generale si può trovare una linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, Mario Rossi (un amico di grande valore perduto immaturamente), studiando proprio gli scritti jenensi notava che “la preminenza assoluta di valore della determinazione politica serve a comprendere e a risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire che ogni figura sociale, l’agricoltore, l’artigiano, il medico, il professore vanno compresi nel significato spirituale che essi hanno nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith, Ricardo, e classici della economia politica. Questa conoscenza ha portato a ritenere che Hegel, avendo nozione di queste opere, avesse anche una immagine teorica della società “borghese” che stava nascendo su una base capitalistica. Detta così questa proposizione non è vera. E qui è necessaria una considerazione generale intorno a che cosa sia la conoscenza di opere e quale senso esse possano avere in un tessuto interpretativo.
giovedì 18 maggio 2017
Etica, progresso, marxismo*- Giuseppe Cacciatore**
*Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582,n° 1-2/2016, dal titolo"Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 12-17. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/596 **Giuseppe_Cacciatore è un filosofo italiano (Università Federico II di Napoli)
Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al progresso misurano quasi alla stregua di un certificato di assicurazione sulla vita! (LABRIOLA 1965, p.286).
Dove diminuisce il dolore dell’uomo là c’è progresso. Tutto il resto non ha senso.(BROCH 1950,p.19).
La storia universale è una storia del progresso – o forse anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei tempi nomadi e agrario-feudali alla conquista dei mari del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua differenziazione fra paesi sviluppati e non-sviluppati, per finire all’appropriazione dell’aria e dello spazio dei nostri giorni. (SCHMITT 1972, p. 311).
Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche.
Perciò
non sarebbe sbagliato sottolineare che la critica delle ideologie del
progresso può anch’essa muovere da prospettive storicistiche.
Questo presuppone però che si operi una distinzione nell’ambito
della polisemanticità degli storicismi. Se, ad esempio, si pone in
questione la prospettiva storicistica fondata non sul concetto di
legge e di generalità, ma su quello di singolarità e individualità
(anche nella sua declinazione etica), si modifica radicalmente
l’equazione progresso/storia universale. È il caso, ad esempio, di
quegli storicismi che hanno messo capo ad una filosofia speculativa
della storia, o a una teoria evolutivo-ottimistica. Tutto questo ha,
naturalmente, non secondari riflessi sul modo stesso di pensare e di
scrivere la storia del progresso (il progresso del capitalismo o il
regresso delle crisi economiche? Il progresso della società
mercantile o la decadenza dell’anarchia della produzione? Il
progresso delle masse o quello indotto dalla tecnica? Il progresso
delle ideologie liberali o quello delle ideologie socialiste?).
mercoledì 17 maggio 2017
SULLA SINISTRA TEDESCA*- Hans Heinz Holz**
*Da “L’Ernesto”,
N. 3 Settembre/Ottobre 2005
**Hans_Heinz_Holz (26 2 1927 – 11
12-2011), intellettuale
tedesco, saggista, fra i massimi pensatori marxisti europei.
Professore Emerito di Filosofia presso l’Università di Groningen,
Olanda.
Traduzione a cura di
Stefano Garroni, primo ricercatore di Filosofia del CNR di Roma,
traduttore di gran parte delle opere di H.H. Holz in Italia.
Il punto di vista
critico del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz, in merito al
progetto tedesco “di sinistra” alternativa alla SPD,
La fondazione di un
partito di sinistra (Linkspartei), che potesse raggiungere anche il
numero di suffragi per essere rappresentato al Bundestag (parlamento
federale) ha fatto nascere euforiche aspettative negli ambienti
tedeschi, critici del sistema.
Nel periodo del cancellierato di G.
Schroeder, la Spd si era comportata, in politica interna, come
esecutrice degli interessi del grande capitale e, in politica estera,
come sostenitrice di un attivo imperialismo germanico-europeo. Già
da anni, in effetti, la politica socialdemocratica si era andata
distinguendo solo per sfumature da quella della Cdu. Contro il ruolo
guida degli Usa, i quali nel periodo della “guerra fredda”
avevano operato, nell’interesse della borghesia europea, per
ricacciare indietro l’Unione Sovietica, dopo il 1990 l’Unione
Europea – dominata da Francia e Germania – aveva maturato l’idea
di una propria posizione di dominio mondiale: iniziò così la lotta
per la conquista del mercato mondiale, in cui dovunque – perfino
nel loro “cortile di casa” latino-americano – gli Usa andavano
perdendo terreno.
Gli Usa reagirono, usando il pretesto della lotta
al terrorismo, con una politica mirante all’impossessarsi delle
fonti energetiche mediorientali e dell’Asia centrale. La Germania e
la Francia, che non possono accettare il monopolio statunitense sulle
fonti energetiche – perché significherebbe accettare, anche, la
loro riduzione a potenze di secondo rango – si contrapposero
all’escalation militaristica. La guerra contro l’Iraq rese chiaro
che gli Usa erano pronti a perseguire l’obiettivo della loro
egemonia anche ricorrendo a mezzi militari, nel caso anche contro
propri alleati. La concorrenza intercapitalistica entrava in
contraddizione con il complessivo interesse capitalistico allo sfruttamento. Questa contraddizione, che nasce da una coesistenza
solidale ma anche da rivalità inter-monopolistiche, determina oggi –
anche se in modo non apparente e complesso – la situazione politica
mondiale.
Già a partire dagli
anni novanta, esistevano negli Usa e in Europa dei piani diretti non
più al solo controllo dei Paesi sfruttati, ma anche
all’intimidazione delle grandi potenze imperialistiche loro
concorrenti.
martedì 16 maggio 2017
199 anni di Karl Marx*- Roberto Fineschi**
*Da: https://www.lacittafutura.it/
**Roberto_Fineschi ist ein italienischer Philosoph, der sich mit der Dialektik der Waren- und Kapitaltheorie bei Karl Marx befasst.
(https://marxdialecticalstudies.jimdo.com/) (http://marxdialecticalstudies.blogspot.it/)
“Ei
fu, siccome immobile, / dato il mortal sospiro”, e via dicendo.
Così inizia la celeberrima ode manzoniana, Il
cinque maggio,
che tutti gli studenti italiani, molti di essi obtorto
collo,
hanno studiato se non addirittura imparato a memoria durante gli anni
scolastici. La stessa data in cui nel 1821 a Sant’Elena morì
Napoleone era stata, tre anni prima, la data in cui un altro gigante
della storia era nato a Treviri: Carlo
Enrico Marx.
Con una qualche ironia della sorte, proprio Napoleone, insieme al
nipote Napoleone III, è il personaggio storico che Marx dichiara di
amare di meno rispondendo alle domande di un “album di famiglia”
della figlia Jenny.
**Roberto_Fineschi ist ein italienischer Philosoph, der sich mit der Dialektik der Waren- und Kapitaltheorie bei Karl Marx befasst.
(https://marxdialecticalstudies.jimdo.com/) (http://marxdialecticalstudies.blogspot.it/)

Date
a parte ed in attesa delle grandi celebrazioni del prossimo anno per
i 200 anni, dedicherò un paio di riflessioni all’attualità del
pensiero del vecchio “Moro”, come lo chiamavano amici e
familiari. Sin da subito tuttavia, è bene dire chiaramente che la
teoria di Marx non ha tutt’oggi
eguali per la sua capacità di comprensione e spiegazione delle
tendenze di fondo del modo di produzione capitalistico,
quindi della struttura della società in cui viviamo. Questo non
significa ovviamente che sia perfetta, che non necessiti di essere
criticata, approfondita o continuata ove necessario, come del resto
il suo stesso autore auspicava; ma non significa neppure che essa non
funzioni più. Anzi, nessuna meglio di essa ha delle risposte - non
tutte sfortunatamente - a molti dei processi
storico-economico-sociali tutt’ora in corso.
Le
teorie mainstream di
economia e di politica ci spiegano come il mondo dovrebbe
essere:
senza conflitto sociale, senza crisi economiche, senza sopraffazione
e sfruttamento. Ci spiegano a chiare lettere in celebrati manuali
come siano illegittime le rivendicazioni sociali, errori passeggeri
le crisi e via dicendo, perché così è nel mondo armonico ed
idilliaco che i loro autori costruiscono (e che ahimè gli studenti
sono costretti a studiare). Per la teoria di Marx, invece, non è una
sorpresa che ci siano crisi, sfruttamento, conflitto, ecc. Marx non è
così banale da dire al mondo ed alle persone come dovrebbero essere,
questo già lo fanno i “preti” di tutte le parrocchie, religiose
o laiche; Marx spiega le cose per quello che sono. Insomma, la
scienza contro l’ideologia.
lunedì 15 maggio 2017
I salari e la questione irrisolta dell’euro*- Alberto Bagnai**
*Da: http://www.ilsole24ore.com/
**albertobagnai economista italiano, Department of Economics – University “Gabriele D’Annunzio” goofynomics asimmetrie
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/il-tradimento-degli-intellettuali.html

L'euro è stato il più grande successo della scienza economica, ma sta diventando la più umiliante sconfitta per la professione economica. Ringrazio il Sole 24 Ore, che mi permette, con apprezzabile spirito di apertura, di esporre e discutere nel quadro di un dibattito autorevole un paradosso che ci riguarda tutti, economisti e non.
L’euro è stato un grande successo della scienza economica: non conosco alcun altro caso in cui essa sia stata in grado di prevedere con una precisione così sconcertante le conseguenze di una decisione politica. Vi fornisco tre esempi. Partiamo dall’ultimo Bollettino economico della Bce, il quale lamenta come la crescita dei salari nell’Eurozona sia molto tenue, il che suggerisce una probabile sottostima dei dati ufficiali sulla disoccupazione. Siamo quindi nelle condizioni previste nel 1996 da Rudiger Dornbusch, quando avvertiva che l’unione monetaria avrebbe «trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività», rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere (lo mostrò Mundell nel 1961). In secondo luogo, in tutta Europa i partiti euroscettici progrediscono (nonostante le sconfitte), e mettono in causa il modello di integrazione politica europea. È esattamente quanto Nicholas Kaldor aveva previsto nel 1971, quando ammoniva che «se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali esercitano una pressione tale da portare al crollo del sistema, avrà impedito una unione politica anziché favorirla». Infine, Macron non si era nemmeno insediato, che dalla Germania il rifiuto della proposta francese di Eurobond chiariva come la potenza egemone non intenda deflettere dalla propria intransigenza. Ottimo esempio di quanto Martin Feldstein diceva nel 1997: «l’aspirazione francese all’uguaglianza e l’aspettativa tedesca di egemonia non sono coerenti».
**albertobagnai economista italiano, Department of Economics – University “Gabriele D’Annunzio” goofynomics asimmetrie
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/il-tradimento-degli-intellettuali.html

L'euro è stato il più grande successo della scienza economica, ma sta diventando la più umiliante sconfitta per la professione economica. Ringrazio il Sole 24 Ore, che mi permette, con apprezzabile spirito di apertura, di esporre e discutere nel quadro di un dibattito autorevole un paradosso che ci riguarda tutti, economisti e non.
L’euro è stato un grande successo della scienza economica: non conosco alcun altro caso in cui essa sia stata in grado di prevedere con una precisione così sconcertante le conseguenze di una decisione politica. Vi fornisco tre esempi. Partiamo dall’ultimo Bollettino economico della Bce, il quale lamenta come la crescita dei salari nell’Eurozona sia molto tenue, il che suggerisce una probabile sottostima dei dati ufficiali sulla disoccupazione. Siamo quindi nelle condizioni previste nel 1996 da Rudiger Dornbusch, quando avvertiva che l’unione monetaria avrebbe «trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività», rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere (lo mostrò Mundell nel 1961). In secondo luogo, in tutta Europa i partiti euroscettici progrediscono (nonostante le sconfitte), e mettono in causa il modello di integrazione politica europea. È esattamente quanto Nicholas Kaldor aveva previsto nel 1971, quando ammoniva che «se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali esercitano una pressione tale da portare al crollo del sistema, avrà impedito una unione politica anziché favorirla». Infine, Macron non si era nemmeno insediato, che dalla Germania il rifiuto della proposta francese di Eurobond chiariva come la potenza egemone non intenda deflettere dalla propria intransigenza. Ottimo esempio di quanto Martin Feldstein diceva nel 1997: «l’aspirazione francese all’uguaglianza e l’aspettativa tedesca di egemonia non sono coerenti».
domenica 14 maggio 2017
L’imperialismo e la trasformazione dei valori in prezzi*- Torkil Lauesen, Zak Cope**
*Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ articolo originale in inglese Monthly Review
Introduzione
Con
questo articolo, ci proponiamo di dimostrare che i bassi prezzi dei
beni prodotti nel Sud globale, ed il concomitante modesto contributo
delle sue esportazioni al prodotto interno lordo del Nord, occultano
la reale dipendenza delle economie di quest’ultimo dal lavoro a
basso costo del Sud. Dunque, sosteniamo che la delocalizzazione
dell’industria nel Sud globale, nel corso dei tre decenni passati,
ha condotto ad un massiccio incremento del valore trasferito al Nord.
I principali meccanismi di tale processo consistono nel rimpatrio del
plusvalore tramite investimenti diretti esteri, lo scambio ineguale
di prodotti incorporanti differenti quantità di valore e
l’estorsione per mezzo del servizio del debito.
L’assorbimento
di enormi economie del Sud all’interno del sistema capitalistico
mondiale, dominato da multinazionali e istituzioni finanziarie con
base nel Nord globale, ha posto le prime nella condizione di
dipendenze socialmente disarticolate votate all’esportazione.
I
miseramente bassi livelli dei salari di tali economie trovano
fondamento (1) nella pressione imposta dalle loro
esportazioni al fine di competere per limitate porzioni del mercato,
in larga parte metropolitano, dei consumatori; (2) il drenaggio di
valore e risorse naturali, che altrimenti potrebbero essere
utilizzati per costruire le forze produttive necessarie all’economia
nazionale; (3) l’irrisolta questione agraria sfociante in una sovra
offerta di lavoro; (4) governi compradori repressivi, i quali
accettano, traendone beneficio, l’ordine neoliberista e sono quindi
incapaci e non disposti a concedere aumenti salariali, per timore di
stimolare rivendicazioni di maggior potere politico da parte dei
lavoratori; e infine (5) frontiere militarizzate così da prevenire
la circolazione dei lavoratori verso il Nord globale, e di
conseguenza, un equalizzazione dei rendimenti da lavoro.
La globalizzazione imperialista della produzione
La dimensione europea della formazione tra competizione globale e crisi*- Antonio Allegra**
*Da: http://dialetticaefilosofia.it/ pubblicato su contropiano atti del convegno "Formazione, Ricerca e Controriforme", Bologna 30 aprile 2016, Anno 25, n.2 2016. retedeicomunisti.
**Università per Stranieri di Perugia, Dipartimento di Scienze umane e sociali.
«[la] necessità di creare la più larga base possibile per la selezione e l’elaborazione delle più alte qualifiche intellettuali [...] non è senza inconvenienti: si crea così la possibilità di vaste crisi di disoccupazione negli strati medi intellettuali come avviene di fatto in tutte le società moderne». (A. Gramsci, Q.12 [XXIX] § 1, 1932.).
«La scuola media superiore per tutti al più alto livello di qualità [...] è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico che vuole bensì la scuola per tutti, ma perché tutti, convenientemente sottoeducati, possano essere consegnati alla selezione extrascolastica e al sottoimpiego nella produzione».
(F. Fortini, Non si dà vera vita se non nella falsa, in Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Bologna, Guaraldi, 1971, p. 113).
«La distinzione di “lavoro manuale” e “intellettuale” è di grado, non di qualità [...] è storica, sempre. [...] Così le funzioni “fisiche” e “intellettuali” del lavoro sono, nel loro complesso, quelle che la Riproduzione sociale complessiva in un determinato istante esige. Esse costituiscono un insieme di potenze sociali, che può essere promosso e ampliato, o viceversa disperso e lasciato decadere. Dunque: il rapporto di lavoro manuale e intellettuale riguarda tutta intera la classe lavoratrice. Nel mondo moderno, questo rapporto è una questione di classe e di lotta di classe, nello scontro sulla quale si gioca una fondamentale partita di egemonia».
(A. Mazzone, Le classi nel mondo moderno (parte terza). Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento, in «Proteo», 2005, 1).
Leggi tutto l'articolo: http://dialetticaefilosofia.it/public/pdf/96allegra.pdf
**Università per Stranieri di Perugia, Dipartimento di Scienze umane e sociali.
«[la] necessità di creare la più larga base possibile per la selezione e l’elaborazione delle più alte qualifiche intellettuali [...] non è senza inconvenienti: si crea così la possibilità di vaste crisi di disoccupazione negli strati medi intellettuali come avviene di fatto in tutte le società moderne». (A. Gramsci, Q.12 [XXIX] § 1, 1932.).
«La scuola media superiore per tutti al più alto livello di qualità [...] è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico che vuole bensì la scuola per tutti, ma perché tutti, convenientemente sottoeducati, possano essere consegnati alla selezione extrascolastica e al sottoimpiego nella produzione».
(F. Fortini, Non si dà vera vita se non nella falsa, in Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Bologna, Guaraldi, 1971, p. 113).
«La distinzione di “lavoro manuale” e “intellettuale” è di grado, non di qualità [...] è storica, sempre. [...] Così le funzioni “fisiche” e “intellettuali” del lavoro sono, nel loro complesso, quelle che la Riproduzione sociale complessiva in un determinato istante esige. Esse costituiscono un insieme di potenze sociali, che può essere promosso e ampliato, o viceversa disperso e lasciato decadere. Dunque: il rapporto di lavoro manuale e intellettuale riguarda tutta intera la classe lavoratrice. Nel mondo moderno, questo rapporto è una questione di classe e di lotta di classe, nello scontro sulla quale si gioca una fondamentale partita di egemonia».
(A. Mazzone, Le classi nel mondo moderno (parte terza). Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento, in «Proteo», 2005, 1).
Leggi tutto l'articolo: http://dialetticaefilosofia.it/public/pdf/96allegra.pdf
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