La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
martedì 9 maggio 2017
lunedì 8 maggio 2017
Due paragrafi da Hegel*- Paolo Di Remigio
*Da: http://appelloalpopolo.it/ http://www.badiale-tringali.it/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/hegel-scienza-della-logica-1812.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/hegel-scienza-della-logica-1812.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html
Due
paragrafi dai ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ di Hegel
Il
fascismo e il liberalismo concordano nel presupporre l'esistenza
di un contrasto insanabile tra persona e potere. Il fascismo sceglie
il potere ed esclude il pluralismo dalla società annullando la
persona; il liberalismo sceglie la persona, minimizza il potere e
dissacra le leggi: come la sua epistemologia nega che esse
determinino la prima natura così la sua etica rifiuta il valore
della tradizione. È però destino delle ideologie contrastanti
confluire l'una
nell'altra: Popper non ha
nascosto la sua simpatia per l'imperialismo,
in particolare per quello anglo-sassone, von Mises, von Hayek e
Friedman non hanno negato la loro vicinanza alla versioni liberali
del fascismo. Il rifiuto liberale del potere dello Stato diventa
condiscendenza ai poteri fattuali, proprio come nel fascismo lo
svanire della persona conferisce alla gestione del potere un
carattere personalistico.
Nell'avvicinarsi
all'imperialismo e al
fascismo, il liberalismo si allontana dalla realtà e sceglie la via
della calunnia dello Stato e dei suoi teorici – Platone,
Aristotele, Hegel. Così gli Stati-nazione sono ridotti ad inizi
tribali della civiltà, mentre questa è identificata con la forma di
impero. La minima informazione storica mostra però che gli Stati
sorgono contro gli imperi, contro i
privilegi che una etnia vi gode rispetto alle altre. Gli Stati
moderni sorgono dall'estinguersi
dell'impero medievale; gli
ultimi Stati nazionali europei sorgono contro l'impero
austro-ungarico, gli Stati nei continenti non europei si formano
liberandosi dagli imperi coloniali. È dunque falso retrocedere lo
Stato-nazione al tribalismo e credere che l’impero sia garanzia
della persona; proprio nella sua società multiculturale si radica il
razzismo che i liberali cercano di attribuire allo Stato-nazione.
La
parola ‘nazionalismo’ li aiuta a creare l'equivoco:
essa non indica la formazione degli Stati-nazione, non il sottrarsi
di un popolo alla dipendenza imperiale, come sarebbe lecito
attendersi, ma concerne il periodo del tardo Ottocento, in cui alcuni
Stati concorsero a costituirsi come imperi procurandosi un retroterra
coloniale. ‘Nazionalismo’ è dunque sinonimo di ‘imperialismo’;
proiettando però sulla natura dello Stato-nazione ciò che è
proprio della natura dell'impero,
questa parola toglie all'imperialismo
liberale il suo impresentabile fardello e lo addossa allo
Stato-nazione. Per un analogo equivoco oggi accade che l'umanitarismo
anti-razzista sia uno degli strumenti con cui l'oligarchia
liberale padrona dell'impero
anglo-americano destabilizza gli Stati europei.
Lo
Stato è la soluzione del contrasto tra potere e persona, dalla cui
pretesa insuperabilità si generano il fascismo e il liberalismo. La
concezione fascista del primato del potere contro la persona e la
concezione liberale del primato della persona contro il potere sono
però entrambe inconsistenti: come la polemica contro la persona per
il potere ha per risultato il potere tirannico di una persona,
così la polemica contro il potere per la persona porta alla stessa
tirannia della persona privata sulle altre persone. In questa
mutevolezza logica delle due concezioni opposte è contenuta, in
forma negativa, la vera conciliazione tra potere e persona; la teoria
hegeliana dello Stato, esposta nei due seguenti paragrafi
dei Lineamenti
di filosofia del diritto[1],
ne determina il significato positivo.
domenica 7 maggio 2017
Dialettica, oggettivismo e comprenetrazione degli opposti. Il pensiero di Lenin tra filosofia e politica*- Emiliano Alessandroni
*Da: http://www.giornalecritico.it/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html

1. L'oggettivismo di Lenin e «la favola sciocca del libero arbitrio»
In uno dei suoi scritti giovanili più noti Lenin pone l'attenzione sulla prospettiva non-volontarista ed anticoscienzialista di Marx. Il fondatore del materialismo storico, egli afferma,
considera il movimento sociale, come un processo di storia naturale, retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intuizioni degli uomini, ma che anzi determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni.1
Lenin tende ad evidenziare, in questo come in altri passi, la natura circostanziale della volontà umana, il suo essere, ovvero, ontologicamente inscritta all'interno di reticoli e quadri combinatori, non meramente accidentali, che ne determinano la nascita e ne scandiscono lo sviluppo. Non sembra esser dunque sull'opposizione determinismo/volontarismo che si sia prodotta, sul piano filosofico, la rottura con la II Internazionale2 . La prospettiva deterministica, invero, non viene mai respinta o esecrata dal futuro dirigente bolscevico: al contrario, essa costituirà l'unico punto di partenza dal quale egli, senza minimizzare la dimensione coscienziale del Für sich, riterrà possibile contrastare quei sedimenti di misticismo presenti all'interno del senso comune e coincidenti con la favola sciocca del libero arbitrio:
L'idea del determinismo, stabilendo la necessità delle azioni umane, rigettando la favola sciocca del libero arbitrio, non sopprime affatto la ragione o la coscienza dell'uomo, né l'apprezzamento delle sue azioni. Allo opposto, soltanto dal punto di vista del determinismo è possibile dare un apprezzamento rigoroso e giusto, invece di attribuire tutto ciò che si vuole al libero arbitrio.3
Si tratta di una critica radicale al soggettivismo, la quale, prima ancora che da Marx, Lenin desume da Hegel, la cui Scienza della Logica, descrive il Volere come Necessità inscritta nell'immanenza della Soggettività, come autoimpulso esternante dell'Oggetto, mediato entro se stesso, che si riflette in sé attraverso le proprie interne differenziazioni. La Volontà è volontà degli Esistenti, che costituiscono la concretezza e la determinazione dell'Essere. Ma gli Esistenti non sono autonomi in modo unilaterale ed esclusivo: essi sono invero unità di Autonomia ed Eteronomia, e accrescono la prima con l'aumento delle mediazioni di cui si compone seconda.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html

1. L'oggettivismo di Lenin e «la favola sciocca del libero arbitrio»
In uno dei suoi scritti giovanili più noti Lenin pone l'attenzione sulla prospettiva non-volontarista ed anticoscienzialista di Marx. Il fondatore del materialismo storico, egli afferma,
considera il movimento sociale, come un processo di storia naturale, retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intuizioni degli uomini, ma che anzi determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni.1
Lenin tende ad evidenziare, in questo come in altri passi, la natura circostanziale della volontà umana, il suo essere, ovvero, ontologicamente inscritta all'interno di reticoli e quadri combinatori, non meramente accidentali, che ne determinano la nascita e ne scandiscono lo sviluppo. Non sembra esser dunque sull'opposizione determinismo/volontarismo che si sia prodotta, sul piano filosofico, la rottura con la II Internazionale2 . La prospettiva deterministica, invero, non viene mai respinta o esecrata dal futuro dirigente bolscevico: al contrario, essa costituirà l'unico punto di partenza dal quale egli, senza minimizzare la dimensione coscienziale del Für sich, riterrà possibile contrastare quei sedimenti di misticismo presenti all'interno del senso comune e coincidenti con la favola sciocca del libero arbitrio:
L'idea del determinismo, stabilendo la necessità delle azioni umane, rigettando la favola sciocca del libero arbitrio, non sopprime affatto la ragione o la coscienza dell'uomo, né l'apprezzamento delle sue azioni. Allo opposto, soltanto dal punto di vista del determinismo è possibile dare un apprezzamento rigoroso e giusto, invece di attribuire tutto ciò che si vuole al libero arbitrio.3
Si tratta di una critica radicale al soggettivismo, la quale, prima ancora che da Marx, Lenin desume da Hegel, la cui Scienza della Logica, descrive il Volere come Necessità inscritta nell'immanenza della Soggettività, come autoimpulso esternante dell'Oggetto, mediato entro se stesso, che si riflette in sé attraverso le proprie interne differenziazioni. La Volontà è volontà degli Esistenti, che costituiscono la concretezza e la determinazione dell'Essere. Ma gli Esistenti non sono autonomi in modo unilaterale ed esclusivo: essi sono invero unità di Autonomia ed Eteronomia, e accrescono la prima con l'aumento delle mediazioni di cui si compone seconda.
sabato 6 maggio 2017
Operazione Bluemoon - Eroina di Stato
Da: vincitorige
Documento della Rai sull'operazione Bluemoon. Nel periodo più duro dello scontro di classe avvenuto negli anni 70, nelle piazze italiane fa la sua comparsa un nuovo tipo di droga "L'eroina". Un mare che avanza inesorabilmente, propagandato e pubblicizzato come atto liberatorio di fatto inghiotte e fagocita le coscienze e l'azione di migliaia di giovani militanti dell'autonomia (dopo il 77 il mare divenne un oceano) arrivando lì dove il bastone dello stato borghese non poteva colpire.
venerdì 5 maggio 2017
Le origini della crisi*- Paolo Leon**
*Da: http://www.syloslabini.info/
**Economista italiano wikipedia
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/la-crisi-finanziaria-e-la-grande.html
1.Esiste ormai una biblioteca di scritti sulla crisi, ed estrarne le diverse impostazioni è come rivelare l’ideologia degli autori. Ha scavato in profondo, la crisi iniziata nel 2007, e poiché sconvolge pensieri dominanti da decenni e grandi interessi apparentemente consolidati, chi scrive esprimerà soltanto una propria opinione, che tuttavia considera una base possibile per future politiche.
2.La spiegazione più ingenua è quella che sostiene che tutto ciò che sale, prima o poi deve scendere: illustri economisti seguono questa idea, in particolare quelli che sono stati capaci di anticipare il crollo solo per aver fortunosamente scelto il tempo della pubblicazione della loro previsione.
Altri, in particolare Minsky, avevano anticipato il crollo vent’anni prima e non è per caso che il pensiero di questo economista trova nuove orecchie, dopo decennali silenzi. Semplificando, la tesi di Minsky è che il crollo avviene quando i valori dei mercati finanziari si distaccano eccessivamente dai valori del sottostante e indicava nella distruzione del sistema finanziario costruito dopo la Grande Depressione la causa della divaricazione.
Questa tesi si associa qualche volta all’atteggiamento moralista di chi ha condannato l’”economia di carta” avvenuta con la globalizzazione, dimenticandone i sorprendenti risultati positivi per l’economia mondiale, con lo sviluppo dei paesi emergenti. La tesi veramente più incomprensibile è quella che astrae dalla crisi, la considera una parentesi, e continua a ragionare del sistema economico mondiale come non fosse mai avvenuta: lo dimostra l’uso dei DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium) da parte delle banche centrali e l’immane letteratura pseudokeynesiana che cerca di ricostruire la sintesi neoclassica alterando questa o quella ipotesi del modello originario.
Recentemente, Davidson ha ripreso la critica della teoria delle aspettative razionali (ergodiche) perché queste sostanzialmente attribuiscono ai singoli agenti e individui la capacità di vedere probabilisticamente il futuro: un tentativo che gli dei ma anche il Dio della Bibbia avrebbero punito con la cecità. Del resto, la cecità è emersa proprio con la crisi, che nessun modello razionale né si attendeva né poteva anche soltanto includere.
3. Senza voler ricostruire la storia economica degli ultimi trentaquattro anni (dal monetarismo di Volcker nel 1979, con Carter, ad oggi), alcune tappe vanno però ricordate, e proprio a partire da quella fondamentale svolta, che più appropriatamente attribuiamo a Thatcher e Reagan.
**Economista italiano wikipedia
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/la-crisi-finanziaria-e-la-grande.html
1.Esiste ormai una biblioteca di scritti sulla crisi, ed estrarne le diverse impostazioni è come rivelare l’ideologia degli autori. Ha scavato in profondo, la crisi iniziata nel 2007, e poiché sconvolge pensieri dominanti da decenni e grandi interessi apparentemente consolidati, chi scrive esprimerà soltanto una propria opinione, che tuttavia considera una base possibile per future politiche.
2.La spiegazione più ingenua è quella che sostiene che tutto ciò che sale, prima o poi deve scendere: illustri economisti seguono questa idea, in particolare quelli che sono stati capaci di anticipare il crollo solo per aver fortunosamente scelto il tempo della pubblicazione della loro previsione.
Altri, in particolare Minsky, avevano anticipato il crollo vent’anni prima e non è per caso che il pensiero di questo economista trova nuove orecchie, dopo decennali silenzi. Semplificando, la tesi di Minsky è che il crollo avviene quando i valori dei mercati finanziari si distaccano eccessivamente dai valori del sottostante e indicava nella distruzione del sistema finanziario costruito dopo la Grande Depressione la causa della divaricazione.
Questa tesi si associa qualche volta all’atteggiamento moralista di chi ha condannato l’”economia di carta” avvenuta con la globalizzazione, dimenticandone i sorprendenti risultati positivi per l’economia mondiale, con lo sviluppo dei paesi emergenti. La tesi veramente più incomprensibile è quella che astrae dalla crisi, la considera una parentesi, e continua a ragionare del sistema economico mondiale come non fosse mai avvenuta: lo dimostra l’uso dei DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium) da parte delle banche centrali e l’immane letteratura pseudokeynesiana che cerca di ricostruire la sintesi neoclassica alterando questa o quella ipotesi del modello originario.
Recentemente, Davidson ha ripreso la critica della teoria delle aspettative razionali (ergodiche) perché queste sostanzialmente attribuiscono ai singoli agenti e individui la capacità di vedere probabilisticamente il futuro: un tentativo che gli dei ma anche il Dio della Bibbia avrebbero punito con la cecità. Del resto, la cecità è emersa proprio con la crisi, che nessun modello razionale né si attendeva né poteva anche soltanto includere.
3. Senza voler ricostruire la storia economica degli ultimi trentaquattro anni (dal monetarismo di Volcker nel 1979, con Carter, ad oggi), alcune tappe vanno però ricordate, e proprio a partire da quella fondamentale svolta, che più appropriatamente attribuiamo a Thatcher e Reagan.
giovedì 4 maggio 2017
Hegel, il fondamento e il postmoderno*- Remo Bodei
Introduzione di Remo Bodei (Università della California, Los Angeles) al recente volume di Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione, Mimesis, Milano 2016, pp. 202. *Pubblicato
su “Materialismo Storico.
Rivista di filosofia, storia e scienze umane”,
n° 1-2/2016, Questioni
e metodo del materialismo storico,
a cura di S.G. Azzarà, pp 331-334.
Le ripetute crisi che affannano il cammino della modernità tendono ad investire, per tutto il corso della loro durata, numerosi aspetti dell'esistenza umana: condizioni materiali e produzione spirituale, forme del diritto e dell'arte, filosofia e letteratura, generando spesso, nelle anime più sensibili o negli strati sociali più colpiti, un forte desiderio di cambiamento. Ma perché le cose cambiano? E come avviene di fatto la trasformazione? Ovvero, come realizzarla? Nella convinzione che essa venga favorita promuovendone non tanto il desiderio soggettivo, quanto piuttosto la comprensione dei funzionamenti oggettivi, questo volume tenta, a partire da Hegel, di esplorarne i meccanismi interni, cominciando in primo luogo dall'analisi dei suoi elementi fondamentali: i soggetti, la volontà, l'azione. Si tratta di uno studio che getta luce su molti problemi teorici del nostro tempo, ma anche su diversi lati del pensiero hegeliano, illustrato con semplicità e rigore. Autori come Fichte, Sartre, Gentile, Massolo, Severino vengono chiamati in causa per il confronto. Alle parti rivolte agli studiosi del campo sono affiancate altre, più divulgative, indirizzate a chi intenda addentrarsi per la prima volta nel vasto sistema del filosofo tedesco.
Che cosa è, in senso rigoroso, il Divenire e quale il suo rapporto con l’Essere? Attorno a questa domanda ruota il libro di Emiliano Alessandroni, che chiarisce, con pazienza e acume, le complesse problematiche che da Parmenide a Platone, da Fichte a Hegel, da Gentile a Sartre e da Massolo a Severino, hanno tormentato il pensiero filosofico.
Per comprendere questi temi, argomenta, occorre partire dalla questione, apparentemente semplice, dal perché le cose cambiano.
Attraverso una preliminare e puntuale analisi del concetto di «fondamento» (seguendo il filo della hegeliana Scienza della logica), Emiliano Alessandroni giunge alla conclusione che gli Esistenti si mostrano, nello stesso tempo, sia fondati che fondanti (fondamenti reali e condizionanti) e che il Cominciamento contiene in se stesso il negativo, da cui non può e non deve liberarsi. Al di là del gergo tecnico, ciò significa che l’uomo – inserito nella trama di una pluralità di elementi finiti e ben delimitati, di parti che compongono il tutto – trova in queste il limite della sua singolarità e della sua libertà ed è costretto alla continua mediazione con l’altro da sé.
Le ripetute crisi che affannano il cammino della modernità tendono ad investire, per tutto il corso della loro durata, numerosi aspetti dell'esistenza umana: condizioni materiali e produzione spirituale, forme del diritto e dell'arte, filosofia e letteratura, generando spesso, nelle anime più sensibili o negli strati sociali più colpiti, un forte desiderio di cambiamento. Ma perché le cose cambiano? E come avviene di fatto la trasformazione? Ovvero, come realizzarla? Nella convinzione che essa venga favorita promuovendone non tanto il desiderio soggettivo, quanto piuttosto la comprensione dei funzionamenti oggettivi, questo volume tenta, a partire da Hegel, di esplorarne i meccanismi interni, cominciando in primo luogo dall'analisi dei suoi elementi fondamentali: i soggetti, la volontà, l'azione. Si tratta di uno studio che getta luce su molti problemi teorici del nostro tempo, ma anche su diversi lati del pensiero hegeliano, illustrato con semplicità e rigore. Autori come Fichte, Sartre, Gentile, Massolo, Severino vengono chiamati in causa per il confronto. Alle parti rivolte agli studiosi del campo sono affiancate altre, più divulgative, indirizzate a chi intenda addentrarsi per la prima volta nel vasto sistema del filosofo tedesco.
Che cosa è, in senso rigoroso, il Divenire e quale il suo rapporto con l’Essere? Attorno a questa domanda ruota il libro di Emiliano Alessandroni, che chiarisce, con pazienza e acume, le complesse problematiche che da Parmenide a Platone, da Fichte a Hegel, da Gentile a Sartre e da Massolo a Severino, hanno tormentato il pensiero filosofico.
Per comprendere questi temi, argomenta, occorre partire dalla questione, apparentemente semplice, dal perché le cose cambiano.
Attraverso una preliminare e puntuale analisi del concetto di «fondamento» (seguendo il filo della hegeliana Scienza della logica), Emiliano Alessandroni giunge alla conclusione che gli Esistenti si mostrano, nello stesso tempo, sia fondati che fondanti (fondamenti reali e condizionanti) e che il Cominciamento contiene in se stesso il negativo, da cui non può e non deve liberarsi. Al di là del gergo tecnico, ciò significa che l’uomo – inserito nella trama di una pluralità di elementi finiti e ben delimitati, di parti che compongono il tutto – trova in queste il limite della sua singolarità e della sua libertà ed è costretto alla continua mediazione con l’altro da sé.
martedì 2 maggio 2017
Luciano Canfora: La schiavitù del capitale*- Alessandra Ciattini
*Da: https://www.lacittafutura.it/
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=RrHoiAMNE54
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/liberta-e-schiavitu-luciano-canfora.html
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=RrHoiAMNE54
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/liberta-e-schiavitu-luciano-canfora.html
La
schiavitù non è un rottame del passato, ma un’istituzione
riportata in auge dal capitalismo del Terzo Millennio.
La
schiavitù del capitale (Bologna
2017) è il nuovo libro di Luciano
Canfora,
che stupisce sempre per l’ampiezza della sua cultura e per la
lucidità delle sue analisi, le quali delineano un quadro complessivo
e sintetico delle prospettive storiche che abbiamo davanti a noi.
Inoltre, si può cogliere tra le righe il piacere che prova lo
studioso italiano, svolgendo il suo attento lavoro di ricerca, anche
se da esso emerge un disegno drammatico.
La
schiavitù del capitale è
un saggio breve (111 pagine), nel quale vengono individuati in
maniera precisa i gravissimi
problemi della società contemporanea,
che sarebbe caratterizzata dal “ritorno in grande stile del
fenomeno della schiavitù come
anello indispensabile del ‘cosiddetto capitalismo del Terzo
Millennio’” (p. 69). Questo ritorno non deve meravigliarci,
giacché conferma quanto sosteneva Aristotele: “la necessità e
l’eternità della schiavitù” (p. 68).
Secondo
Canfora la partita che è stata giocata nel corso del Novecento,
iniziata con la Grande Guerra, è stata vinta da chi sfrutta e gli
sconfitti sono stati gli sfruttati, ma è stato un grave errore
credere che questa vicenda abbia posto fine alla storia. Che non
fosse così ce lo ha fatto capire il “crollo del lungo, ostinato,
alla fine insostenibile esperimento di ‘socialismo’”, evento
dal quale possiamo ricavare una serie di osservazioni. Prima di
tutto, che la partita è appena cominciata e che il modello
capitalistico si è espanso in tutto il pianeta, conquistando anche
la Russia e la Cina. A ciò dobbiamo aggiungere che solo oggi il
capitalismo ha il dominio del mondo debolmente contrastato dai
residui delle organizzazioni sindacali non collegate a livello
internazionale, giacché gli sfruttati non sono in grado di
compattarsi per ragioni religiose, etniche etc. Inoltre, per rendere
efficace la sua espansione e seguendo la sua logica del profitto e
dell’acquisizione di nuovi mercati, il capitalismo
ha reintrodotto “forme
di dipendenza di tipo schiavile”
sia nel mondo sviluppato che in quello arretrato (pp. 10-11), in cui
probabilmente – aggiungo io – non ha mai cessato di esistere.
Tale reintroduzione ha comportato la perdita dei ‘diritti
del lavoro’,
ottenuti in Occidente grazie all’esistenza del blocco socialista,
che costringeva il capitalismo ad essere più benevolo. Infine,
Canfora sottolinea il ruolo determinante della malavita organizzata
nella gestione delle varie forme di dipendenza oggi esistenti (pp.
11-12).
venerdì 28 aprile 2017
“Sull'attualità del pensiero economico di Marx”*- M.Beccari - M.Paciotti
*I due articoli che presentiamo, pubblicati sulla rivista https://www.lacittafutura.it/, sono frutto di una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull'attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l'UniGramsci (universit-popolare-antonio-gramsci), nell'anno accademico 2016-2017.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/bio-economia-e-il-mito-della-decrescita.html

Il mito della “fine del lavoro” - Marco Beccari
Lo sviluppo tecnologico ha provocato un aumento del numero di disoccupati in Occidente, a ciò però si oppone una crescita dell’occupazione su scala internazionale, anche nel comparto industriale.
In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.
I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il il modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.
Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della “fine del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/bio-economia-e-il-mito-della-decrescita.html

Il mito della “fine del lavoro” - Marco Beccari
Lo sviluppo tecnologico ha provocato un aumento del numero di disoccupati in Occidente, a ciò però si oppone una crescita dell’occupazione su scala internazionale, anche nel comparto industriale.
In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.
I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il il modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.
Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della “fine del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.
giovedì 27 aprile 2017
mercoledì 26 aprile 2017
Etica Nicomachea Libro II (Giusto mezzo)*- Aristotele
*Da: http://www.ilgiardinoedipensieri.eu/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/aristotele-etica-nicomachea-francesco.html

Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/aristotele-etica-nicomachea-francesco.html

1. Da dove nasce la virtù?
1.1. La virtù morale è il frutto dell’abitudine, non dell’insegnamento
La virtù ha dunque due forme: una intellettuale, l’altra etica.
Se è intellettuale, è in gran parte all’insegnamento che deve la sua nascita e la sua crescita. Proprio per questo ha bisogno di esperienza e di tempo. Se invece è etica, è frutto dell’abitudine. Da qui deriva il suo nome, come piccola modificazione del termine ethos (1).
La virtù ha dunque due forme: una intellettuale, l’altra etica.
Se è intellettuale, è in gran parte all’insegnamento che deve la sua nascita e la sua crescita. Proprio per questo ha bisogno di esperienza e di tempo. Se invece è etica, è frutto dell’abitudine. Da qui deriva il suo nome, come piccola modificazione del termine ethos (1).
2. La virtù morale non è data per natura
È quindi chiaro che nessuna delle virtù morali ci è data per natura.
È quindi chiaro che nessuna delle virtù morali ci è data per natura.
2.1. Primo argomento
Infatti nulla di ciò che è ci è dato per natura si modifica con l’abitudine. Così la pietra che cade per natura verso il basso non può prendere l’abitudine di andare verso l’alto, neppure se la si volesse abituare gettandola diecimila volte per aria. Non più di quanto il fuoco possa abituarsi ad andare verso il basso, perché nessun comportamento naturale può essere modificato con l’abitudine.
Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che ci sono date le virtù. Al contrario, la natura ci ha fatti in modo da poterle ricevere, ma è seguendo i nostri fini che le acquisiamo, attraverso l’abitudine.
Infatti nulla di ciò che è ci è dato per natura si modifica con l’abitudine. Così la pietra che cade per natura verso il basso non può prendere l’abitudine di andare verso l’alto, neppure se la si volesse abituare gettandola diecimila volte per aria. Non più di quanto il fuoco possa abituarsi ad andare verso il basso, perché nessun comportamento naturale può essere modificato con l’abitudine.
Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che ci sono date le virtù. Al contrario, la natura ci ha fatti in modo da poterle ricevere, ma è seguendo i nostri fini che le acquisiamo, attraverso l’abitudine.
2.2. Secondo argomento
Di più, tutto quanto la natura mette a nostra disposizione, l’acquisiamo all’inizio sotto forma di capacità e solo dopo diventa per noi in atto, come si vede bene osservando i sensi. Infatti non è che le nostre facoltà sensibili nascano dall’atto frequente di vedere o dall’atto frequente di intendere: è l’inverso, perché possiamo usare i sensi perché li abbiamo e non è affatto l’uso che ce ne dà il possesso.
Ora, le virtù nascono da atti precedenti, come avviene per il possesso delle tecniche. Infatti, quando dobbiamo apprendere come fare qualcosa, è attraverso il fare che l’apprendiamo. Così è costruendo che si impara a costruire, e suonando la citara si diviene citaristi. Nello stesso modo, è così che esercitandoci a fare azioni giuste che diventiamo giusti, e agendo con moderazione che diventiamo moderati, o con coraggio coraggiosi.
Di più, tutto quanto la natura mette a nostra disposizione, l’acquisiamo all’inizio sotto forma di capacità e solo dopo diventa per noi in atto, come si vede bene osservando i sensi. Infatti non è che le nostre facoltà sensibili nascano dall’atto frequente di vedere o dall’atto frequente di intendere: è l’inverso, perché possiamo usare i sensi perché li abbiamo e non è affatto l’uso che ce ne dà il possesso.
Ora, le virtù nascono da atti precedenti, come avviene per il possesso delle tecniche. Infatti, quando dobbiamo apprendere come fare qualcosa, è attraverso il fare che l’apprendiamo. Così è costruendo che si impara a costruire, e suonando la citara si diviene citaristi. Nello stesso modo, è così che esercitandoci a fare azioni giuste che diventiamo giusti, e agendo con moderazione che diventiamo moderati, o con coraggio coraggiosi.
2.1. Conferma
Ne è testimonianza quanto accade nelle città. I legislatori infatti cercano di creare nei loro concittadini le abitudini che li rendano buoni cittadini: è proprio questo l’obiettivo di qualsiasi legislatore. Chi non si pone questo obiettivo, va incontro a fallimenti. Ed è proprio questo che differenzia un buon regime politico da uno che non lo è.
Ne è testimonianza quanto accade nelle città. I legislatori infatti cercano di creare nei loro concittadini le abitudini che li rendano buoni cittadini: è proprio questo l’obiettivo di qualsiasi legislatore. Chi non si pone questo obiettivo, va incontro a fallimenti. Ed è proprio questo che differenzia un buon regime politico da uno che non lo è.
martedì 25 aprile 2017
La crisi finanziaria e la grande recessione: origini e politiche economiche adottate - Fabio Sdogati
Dice Aristotele che
si conosce qualcosa quando se ne conoscono le cause. Da parte sua
Marx ribadisce, nel Capitale, che "ogni scienza sarebbe
superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica
direttamente coincidessero". Nel seguire questa lezione di
"capitalismo realmente esistente" è bene aver presenti
queste affermazioni per evitare di cadere nell'equivoco di credere
che la spiegazione della crisi proposta da Sdogati sia più di quel
che è, vale a dire una rassegna di fenomeni promossi a cause. È
vero che, ad esempio, la speculazione sui "derivati" o la
restrizione del credito bancario hanno a che vedere con quanto sta
accadendo a livello planetario: ma sono a loro volta espressione e
conseguenza di quella tendenza all'infinito accrescimento del valore
(non necessariamente della ricchezza effettiva) che costituisce
l'essenza del capitalismo ( e che viene accuratamente occultato, o
peggio, naturalizzato dall'ideologia dominante). Tutto ciò Marx lo
sapeva già e lo espone, sia pure in forma non compiuta, nella sua
opera principale e, in particolare, nel terzo libro. Detto ciò, è
sempre utile e istruttivo, per chi non è un addetto ai lavori,
prendere atto di come un economista borghese vede il mondo che la sua
stessa classe ha costruito e, nello stesso momento, se lo nasconde
dietro a un velo di pseudo-razionalità. (il collettivo)
lunedì 24 aprile 2017
domenica 23 aprile 2017
L’indipendenza nazionale, unica via d’uscita possibile*- Frantz Fanon**
*Da: Giornale El Moudjahid (Il Partigiano), organo ufficiale del FLN, n°10, settembre 1957
http://www.marx21.it/ http://zecchinellistefano.blogspot.it/
**https://annaseghers.wordpress.com/2017/01/19/ibrahim-omar-fanon/

“Quest’opulenza europea è letteralmente scandalosa perché è stata edificata sulle spalle degli schiavi, viene in linea retta dal suolo e dal sottosuolo di quel mondo sottosviluppato. Il benessere e il progresso dell’Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei neri, degli arabi, dei nativi americani e degli asiatici.. … Quel che conta oggi, il problema che sbarra l’orizzonte, è la necessità di una ridistribuzione delle ricchezze. L’umanità, sotto pena di esserne sconvolta, dovrà rispondere a questa domanda.”
Il termine di indipendenza da solo è sufficiente per aizzare contro di noi l’unanimità dei Francesi. Se ha il dono di far arrabbiare gravemente gli imperialisti accaniti, non manca anche di suscitare la furia degli uomini di sinistra le cui reazioni scioviniste sono diventate incontrollabili. L’opinione francese non ci perdona di rivendicare con tanta convinzione la sovranità piena ed intera del nostro paese. Ci accusa di infantilismo e ci rimprovera di avere questa passione idolatra che ci renderebbe schiavi di una parola.
Confrontata con una spinta nazionalista, questa stessa opinione non esita a mettere in questione l’idea di indipendenza nazionale in generale. Il concetto sarebbe antiquato e non corrisponderebbe più alle esigenze della nostra epoca in cui prevalgono i grandi blocchi politici, a scapito delle piccole potenze. Non coglie l’opportunità dell’indipendenza, che non sarebbe più una promozione, ma una regressione per l’Algeria situata alle porte dell’Europa e avendo tutto da beneficiare restando nelle mani della Francia.
Un obiettivo fondamentale e non una rivendicazione tattica
Ci si è impadroniti in Francia del problema algerino per oscurarne i dati e presentarlo in termini inintelligibili. Una moltiplicazione di soluzioni spesso contraddittorie, sempre illusorie, sono state presentate. In questo flusso di progetti, la soluzione valida, l’unica che importi per la pace, ovvero l’indipendenza dell’Algeria, è prevista soltanto per essere sistematicamente disapplicata. Ne conseguono tutte le controversie e discussioni che si sono instaurate tra i responsabili francesi, che è una soluzione ingiustificata e dopotutto arbitraria.
http://www.marx21.it/ http://zecchinellistefano.blogspot.it/
**https://annaseghers.wordpress.com/2017/01/19/ibrahim-omar-fanon/

“Quest’opulenza europea è letteralmente scandalosa perché è stata edificata sulle spalle degli schiavi, viene in linea retta dal suolo e dal sottosuolo di quel mondo sottosviluppato. Il benessere e il progresso dell’Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei neri, degli arabi, dei nativi americani e degli asiatici.. … Quel che conta oggi, il problema che sbarra l’orizzonte, è la necessità di una ridistribuzione delle ricchezze. L’umanità, sotto pena di esserne sconvolta, dovrà rispondere a questa domanda.”
Il termine di indipendenza da solo è sufficiente per aizzare contro di noi l’unanimità dei Francesi. Se ha il dono di far arrabbiare gravemente gli imperialisti accaniti, non manca anche di suscitare la furia degli uomini di sinistra le cui reazioni scioviniste sono diventate incontrollabili. L’opinione francese non ci perdona di rivendicare con tanta convinzione la sovranità piena ed intera del nostro paese. Ci accusa di infantilismo e ci rimprovera di avere questa passione idolatra che ci renderebbe schiavi di una parola.
Confrontata con una spinta nazionalista, questa stessa opinione non esita a mettere in questione l’idea di indipendenza nazionale in generale. Il concetto sarebbe antiquato e non corrisponderebbe più alle esigenze della nostra epoca in cui prevalgono i grandi blocchi politici, a scapito delle piccole potenze. Non coglie l’opportunità dell’indipendenza, che non sarebbe più una promozione, ma una regressione per l’Algeria situata alle porte dell’Europa e avendo tutto da beneficiare restando nelle mani della Francia.
Un obiettivo fondamentale e non una rivendicazione tattica
Ci si è impadroniti in Francia del problema algerino per oscurarne i dati e presentarlo in termini inintelligibili. Una moltiplicazione di soluzioni spesso contraddittorie, sempre illusorie, sono state presentate. In questo flusso di progetti, la soluzione valida, l’unica che importi per la pace, ovvero l’indipendenza dell’Algeria, è prevista soltanto per essere sistematicamente disapplicata. Ne conseguono tutte le controversie e discussioni che si sono instaurate tra i responsabili francesi, che è una soluzione ingiustificata e dopotutto arbitraria.
sabato 22 aprile 2017
Marx, Engels ed il “chimico rosso”*- Ian Angus
L’eredità
dimenticata di Carl Schorlemmer
Negli
ultimi decenni del XX secolo una singolare idea ha preso piede in
alcuni settori del mondo accademico. Con essa si è voluto sostenere
che, lungi dall’essere i più stretti compagni e collaboratori,
intenti a lavorare in armonia per quarant’anni, Karl Marx e
Friedrich Engels di fatto erano in disaccordo riguardo a questioni
fondamentali, sia teoriche che pratiche.
I
presunti disaccordi tra i due avrebbero riguardato la natura e le
scienze naturali. Ad esempio, Paul Thomas contrappone “il ben noto
interesse di Engels per le scienze naturali” alla “mancanza di
interesse da parte di Marx”, suggerendo che “Marx ed Engels erano
divisi da un abisso concettuale che avrebbe resistito ad ogni
tentativo d’insabbiamento”(1). Terrence Ball, analogamente,
sostiene che “l’idea (successivamente abbracciata da Engels)
secondo la quale la natura esiste indipendentemente, e prima, di ogni
sforzo da parte dell’uomo di trasformarla, è del tutto estranea
all’umanesimo di Marx”(2). Dal punto di vista di Ball, alla
distorsione della filosofia di Marx compiuta da Engels vanno
addebitate “alcune delle più repressive caratteristiche
dell’esperienza sovietica”(3). In una versione ancor più estrema
di tale tendenza, Terrel Carver, insieme ad altri, insiste sul punto
per il quale Marx non sarebbe stato un marxista – essendo il
marxismo una dottrina inventata da Engels, il materialismo
scientifico del quale sarebbe stato in contrasto coll’umanesimo
liberale di Marx.
Da
una prospettiva alquanto diversa, Theodor Adorno, Alfred Scmidt ed
altri vicini alla Scuola di Francoforte ed al marxismo occidentale,
hanno sostenuto che il materialismo scientifico si applica
esclusivamente alla società umana, dunque gli sforzi di Engels al
fine di adattarlo alle scienze naturali, nella sua
incompiuta Dialettica
della natura,
costituivano una distorsione intellettuale contraria al metodo
marxista.
I
difensori di Engels hanno replicato che tra Marx ed Engels vigeva una
divisione del lavoro, in base alla quale Engels si occupava della
scienza, tuttavia, un numero sempre crescente di ricerche dimostra
come una simile obiezione conceda troppo agli argomenti
anti-engelsiani. Come scrive Kohei Saito, tale divisione del lavoro è
un’illusione: “sebben Engels sia più noto per i suoi scritti
circa le scienze naturali… Marx è stato uno studioso altrettanto
acuto di molti degli stessi soggetti”(4).
Nuovi
studi sui quaderni di appunti di Marx, per lungo tempo non
disponibili, ora in corso di pubblicazione nella
monumentale Marx-Engels-Gesamtausgabe (Opere
complete di Marx ed Engels), confutano decisamente le affermazioni
secondo le quali Marx era disinteressato alle scienze naturali, o le
riteneva politicamente irrilevanti.
venerdì 21 aprile 2017
giovedì 20 aprile 2017
Una stabile crescita interna è l'obiettivo della Cina per il 2017*- Walter Ceccotti
*Da: https://www.lacittafutura.it/
L'economia
cinese continua a crescere e a costituire il traino dell'ecomia
mondiale. Gli obiettivi della pianificazione e le misure di politica
economica.
La
Conferenza Economica Centrale di Lavoro cinese tenutasi nel dicembre
del 2016 ha delineato un progetto che è stato ripreso dalla sessione
dell'Assemblea Popolare Nazionale tenutasi a Marzo 2017.
Presentando
il rapporto sul lavoro del governo, il Primo Ministro Li Keqiang ha
fissato un tasso di crescita del 6,5% per il 2017 (6,7 nel 2016) e ha
aumentato di un milione il target per la creazione di nuovi posti di
lavoro, da 10 milioni ad 11, per quest'anno.
Tutti
i dati macroeconomici andranno inquadrati nell'ambito del Tredicesimo
Piano Quinquiennale (2016-2020) e nel progetto del raddoppio del Pil
e del reddito pro capite dal 2010 all'anno 2020.
Il
piano quinquennale è a sua volta inserito nel progetto del
cambiamento del paradigma di sviluppo che ormai la Cina da qualche
anno sta perseguendo (per un'approccio approfondito, consigliamo
caldamente la lettura del libro di Xi Jinping, "The Governance
of China", Foreign Language Press, 2014, recentemente tradotto
anche in italiano da M.
Castorina, T.
Zappone,
"Governare la Cina", Giunti Editore, 2016).
Ma
andiamo con ordine, con il criterio dei quattro classici strumenti
della politica economica:
mercoledì 19 aprile 2017
Bio-economia e il mito della decrescita felice*- Domenico Laise**
*Quarto incontro del seminario UniGramsci: "FORZA-LAVORO, MACCHINE, E PROGRAMMA MINIMO" https://www.unigramsci.it/
**Professore associato Dipartimento di Informatica e Sistemistica - Facoltà Ingegneria - Università "La Sapienza" - Roma
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/cinque-risposte-su-marxismo-ed-ecologia.html
(Cliccando con il mouse sulla singola foto sarà possibile una migliore visione.)

Con rammarico, non avendo la possibilità di mostrare in video l'interessantissimo lavoro del Prof. Laise ci limitiamo a condividere le slides d'accompagnamento al seminario.
Pur non rendendo, in tal modo, la completezza dell'ottima lezione tenuta, la "traccia" seguita nelle slides è di per se molto chiara e esplicativa. Buona lettura...
(il collettivo)
**Professore associato Dipartimento di Informatica e Sistemistica - Facoltà Ingegneria - Università "La Sapienza" - Roma
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/cinque-risposte-su-marxismo-ed-ecologia.html
(Cliccando con il mouse sulla singola foto sarà possibile una migliore visione.)

Con rammarico, non avendo la possibilità di mostrare in video l'interessantissimo lavoro del Prof. Laise ci limitiamo a condividere le slides d'accompagnamento al seminario.
Pur non rendendo, in tal modo, la completezza dell'ottima lezione tenuta, la "traccia" seguita nelle slides è di per se molto chiara e esplicativa. Buona lettura...
(il collettivo)
martedì 18 aprile 2017
Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale*- Vladimir Lenin (1917)
*Scritto il 4 e 5 (17 e 18) aprile 1917, pubblicato il 7 (20) aprile 1917 nella Pravda n° 26. https://www.marxists.org/

Lenin presentò le tesi il 4 (17) aprile in due riunioni: in un'assemblea di bolscevichi e in un'assemblea comune di bolscevichi e menscevichi delegati alla Conferenza dei Soviet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia al Palazzo di Tauride.
Giunto a Pietrogrado nella notte del 3 aprile, naturalmente solo a mio nome e con le riserve dovute alla mia insufficiente preparazione, potevo presentare alla riunione del 4 aprile un rapporto sui compiti del proletariato rivoluzionario.
Il solo mezzo che avevo per agevolare il mio lavoro - e quello degli oppositori in buona fede - era quello di preparare delle tesi scritte. Ne ho dato lettura e ne ho trasmesso il testo al compagno Tsereteli. Le ho lette molto lentamente due volte: prima alla riunione dei bolscevichi e poi a quella dei bolscevichi e dei menscevichi.
Pubblico ora queste mie tesi personali, corredate soltanto con brevissime note esplicative, che ho esplicato assai più minuziosamente nel mio rapporto.
TESI
1. Nel nostro atteggiamento verso la guerra, che, da parte della Russia, anche sotto il nuovo governo di Lvov e soci, rimane incontestabilmente una guerra imperialistica di brigantaggio, in forza del carattere capitalistico di questo governo, non è ammissibile la benché minima concessione al "difensismo rivoluzionario".
Il proletariato cosciente può dare il suo consenso ad una guerra rivoluzionaria che giustifichi realmente il difensismo rivoluzionario solo alle seguenti condizioni: a) passaggio del potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini che si schierano dalla sua parte; b) rinuncia effettiva, e non verbale, a qualsiasi annessione; c) rottura completa ed effettiva con tutti gli interessi del capitale.
Data l'innegabile buona fede di larghi strati dei rappresentanti delle masse favorevoli al difensismo rivoluzionario, che accettano la guerra come una necessità e non per spirito di conquista, e poiché essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, ostinazione e pazienza, l'errore in cui cadono, svelando il capitale insolubile fra il capitale e la guerra imperialistica, dimostrando che è impossibile metter fine alla guerra con una pace veramente democratica, e non imposta con la forza, senza abbattere il capitale.
Organizzare la propaganda più ampia di questa posizione nell'esercito combattente.
Fraternizzare.
lunedì 17 aprile 2017
Machiavelli 2017. Tra partito connettivo e partito strategico*- Mimmo Porcaro
*Da: http://www.retedeicomunisti.org/

Ho tenuto a lungo nel cassetto questo breve articolo, pensato per lettori non italiani – e già pubblicato in versione tedesca (in cooperazione con la rivista Jacobin) su LuXemburg (periodico della fondazione omonima), n. 2, 2016 – perché temevo che la concezione “stretta” di partito che qui propongo potesse influenzare negativamente il processo di costruzione di una vera forza socialista nel nostro paese.
Se è infatti vero che abbiamo bisogno anche di un partito fatto di elementi molto selezionati, è altrettanto vero, però, che tale selezione deve avvenire su una platea molto più vasta di quella che abbiamo a disposizione oggi. Oggi servono organismi politici capaci di avviare la crescita di una prospettiva socialista attraendo forze di buona consistenza numerica e di diversa estrazione sociale e culturale: solo sulla base di questa prima crescita si potrà operare, o verrà operata dai fatti, una selezione che estragga gli elementi più consapevoli e determinati. Considerato che organismi del genere stanno per fortuna iniziando a nascere, e con il passo giusto (penso alle pur diverse esperienze di Eurostop e della Confederazione di Liberazione Nazionale), mi sembra adesso che questo scritto posa avere una qualche utilità anche per la discussione italiana: per questo lo rendo pubblico, con minime modifiche rispetto alla precedente versione. Il suo titolo originale era “Machiavelli 2016” (anche se, per scelta redazionale, l’edizione tedesca reca un titolo diverso): il passaggio al 2017 non deriva solo da pedanteria cronologica ma anche dal fatto che, a leggere bene, oltre a parlarci della contemporaneità Machiavelli ha molto da dirci sugli indimenticabili eventi di 100 anni fa.
1. Il partito connettivo: perché?
Negli ultimi anni del ‘900 era ormai evidente a tutti la crisi del partito di massa come forma di organizzazione politica delle classi subalterne: una crisi che era irreversibile proprio perché era un frutto del successo di quel tipo di partito. Il partito di massa era infatti cresciuto inglobando efficacemente il maggior numero possibile di individui e di associazioni: ma la gestione dell’eterogeneità di questa folla di soggetti creava crescenti problemi di egemonia interna. Il partito di massa aveva raggiunto l’obiettivo di “portare le masse nello stato”, ma per farlo molti dei militanti si erano trasformati in amministratori ed i gruppi dirigenti erano divenuti parte dell’élite dello stato capitalistico, ceto di governo. Da qui la trasformazione da partito di integrazione di massa a partito professionale, e da questo a catch-all-party, partito “pigliatutto” o comunque interclassista: il risultato del parziale successo del partito delle classi subalterne era che le classi subalterne non avevano più un partito.

Ho tenuto a lungo nel cassetto questo breve articolo, pensato per lettori non italiani – e già pubblicato in versione tedesca (in cooperazione con la rivista Jacobin) su LuXemburg (periodico della fondazione omonima), n. 2, 2016 – perché temevo che la concezione “stretta” di partito che qui propongo potesse influenzare negativamente il processo di costruzione di una vera forza socialista nel nostro paese.
Se è infatti vero che abbiamo bisogno anche di un partito fatto di elementi molto selezionati, è altrettanto vero, però, che tale selezione deve avvenire su una platea molto più vasta di quella che abbiamo a disposizione oggi. Oggi servono organismi politici capaci di avviare la crescita di una prospettiva socialista attraendo forze di buona consistenza numerica e di diversa estrazione sociale e culturale: solo sulla base di questa prima crescita si potrà operare, o verrà operata dai fatti, una selezione che estragga gli elementi più consapevoli e determinati. Considerato che organismi del genere stanno per fortuna iniziando a nascere, e con il passo giusto (penso alle pur diverse esperienze di Eurostop e della Confederazione di Liberazione Nazionale), mi sembra adesso che questo scritto posa avere una qualche utilità anche per la discussione italiana: per questo lo rendo pubblico, con minime modifiche rispetto alla precedente versione. Il suo titolo originale era “Machiavelli 2016” (anche se, per scelta redazionale, l’edizione tedesca reca un titolo diverso): il passaggio al 2017 non deriva solo da pedanteria cronologica ma anche dal fatto che, a leggere bene, oltre a parlarci della contemporaneità Machiavelli ha molto da dirci sugli indimenticabili eventi di 100 anni fa.
1. Il partito connettivo: perché?
Negli ultimi anni del ‘900 era ormai evidente a tutti la crisi del partito di massa come forma di organizzazione politica delle classi subalterne: una crisi che era irreversibile proprio perché era un frutto del successo di quel tipo di partito. Il partito di massa era infatti cresciuto inglobando efficacemente il maggior numero possibile di individui e di associazioni: ma la gestione dell’eterogeneità di questa folla di soggetti creava crescenti problemi di egemonia interna. Il partito di massa aveva raggiunto l’obiettivo di “portare le masse nello stato”, ma per farlo molti dei militanti si erano trasformati in amministratori ed i gruppi dirigenti erano divenuti parte dell’élite dello stato capitalistico, ceto di governo. Da qui la trasformazione da partito di integrazione di massa a partito professionale, e da questo a catch-all-party, partito “pigliatutto” o comunque interclassista: il risultato del parziale successo del partito delle classi subalterne era che le classi subalterne non avevano più un partito.
domenica 16 aprile 2017
SUL PARTITO* - Stefano Garroni
*passaggi
tratti dalla discussione sul: DOCUMENTO DI S. GARRONI: ‘LENIN, LA
RIFLESSIONE SUL PARTITO’. 12/99 - Qui l'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/playlist?list=PLAA23B4D87D6C9F26
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/03/partito-e-teoria-stefano garroni - https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/prefazione-di-stefano-garroni.html - https://ilcomunista23.blogspot.it/2010/09/sul-partito.html -
[...]
la méra registrazione del tipo di figure proletarie, è vista
prevalentemente a fini sindacali, non politici, perché ovviamente il
problema del partito – e questo lo vediamo appunto in Lenin in modo
chiarissimo -, è fondamentalmente il problema di uno strumento per
realizzare certi fini, e allora il problema di fondo è stabilire
quali sono i fini, quindi andare oltre la questione del partito
[...]la
problematica del partito, nascendo all’interno di una problematica
più vasta - che è l’analisi della situazione, le finalità del
partito, il modo di concepire la teoria marxista -, inevitabilmente
coinvolge la totalità del movimento marxista pensante, e quindi è
immediatamente – anche la posizione di Lenin -, il risultato di un
confronto critico, di uno scontro, di una pluralità di voci.
[...]E’
estremamente bello mi pare, come i grandi protagonisti del movimento
comunista usino l’uno verso l’altro un linguaggio estremamente
vigoroso, con accuse pesantissime. Lenin è – sappiamo – una
figura enorme e sacramentale per tutto il movimento comunista, ed
esistono documenti enormi di Trotskij, Bucharin, di Stalin stesso,
che dicono cose terribili contro Lenin e viceversa, proprio perché
c’è questo costume molto vigoroso e molto con i piedi per terra,
per cui l’analisi non si ricava deduttivamente e dogmaticamente
dalla teoria, ma si ricava dal confronto reale con i problemi e con
tutta la molteplicità dei problemi che al movimento effettivamente
si pongono.
[...]Ovviamente,
questo sottolineare che Lenin filosofo lo si ricava ragionando sul
suo far politica, come dire, è anche una presa di posizione
sull’attuale. Voi lo sapete che verso la filosofia c’è un
atteggiamento diffuso molto ambiguo. Solitamente si riserva un grande
rispetto alla filosofia, nel senso che tutti se ne fregano: “Il
filosofo è persona nobile che si occupa dei problemi dello spirito”,
cioè è uno stronzo. Se invece andiamo a vedere in concreto, allora
ci rendiamo conto che per esempio l’uomo politico Lenin, intanto fa
l’uomo politico, in quanto non solo interviene su situazioni
determinate proponendo soluzioni determinate, ma in quanto implica in
questo una certa teoria, una filosofia, e allora scopriamo come
l’intreccio filosofia-politica, stia nell’agire politico stesso.
Donde l’indicazione che noi dobbiamo fare molta attenzione a noi
stessi quando facciamo politica, nel senso che nel far politica,
volendo o non volendo, portiamo avanti una teoria, e quando portiamo
avanti una teoria non sapendolo, o non volendolo, stiamo sicuramente
portando avanti la teoria peggiore, cioè quella non critica, non
consapevole, non ragionata, e quindi vale la pena di nobilitare fino
in fondo l’azione politica rendendoci conto che è l’applicazione
di una teoria di cui dobbiamo prendere coscienza. Il che ovviamente
non significa – come dire – né riproporre il mito del filosofo
che fa politica o del politico che è ipso facto del filosofo.
Ovviamente il filosofo professionale sarà una cosa diversa dal
politico, però rendiamoci conto che né il filosofo professionale
può esser sé stesso senza fare anche lui le ricerche politiche di
cui deve essere consapevole, né il politico può esser sé stesso
senza fare delle scelte teoriche di cui è bene che sia consapevole.
Iscriviti a:
Post (Atom)