IL VOLUME DI JOHN SMITH SULL’IMPERIALISMO È UN
LAVORO INNOVATIVO CHE GETTA UNA LUCE INEDITA SUL SUPER-SFRUTTAMENTO DEL
SUD GLOBALE. DAPHNA WHITMORE DI REDLINE LO HA INTERVISTATO A
PROPOSITO DEL SUO LIBRO.
DW: Innnanzitutto, vorrei ringraziarti per aver
scritto Imperialism in the twenty-first century. Si tratta di un
argomento imponente e il tuo libro prende in considerazione un materiale
amplissimo e di grande interesse – quanto tempo ha richiesto un simile lavoro?
JS: Alla fine degli anni Novanta, la globalizzazione della
produzione e il suo spostamento, a livello globale, verso i paesi a basso
reddito stavano prendendo piede su scala così vasta che era impossibile non
notarlo; il che valeva anche per ciò che stava guidando tali processi, vale a
dire gli elevati livelli di sfruttamento disponibili in paesi come il Messico,
il Bangladesh e la Cina. Era indispensabile una teoria in grado di spiegare
tutto questo, ma per rendersi conto di ciò che stava accadendo erano
sufficienti un paio di buoni occhi. Era naturale studiare il comportamento
delle multinazionali industriali, le TNC [Transnational corporation, n.d.t.] non finanziarie,
considerato che si trattava dei principali agenti e beneficiari della
globalizzazione – ed è appunto ciò che si stava facendo! Del resto, anche una
formazione di base comprendente la teoria marxista del valore ci spingeva a
prestare attenzione ai cambiamenti nella sfera della produzione… Per tutte
queste ragioni, è stato uno shock scoprire che il marxismo, o meglio i
marxisti, avevano ben poco da dire riguardo a questi fatti inediti.
Così, influenzato dalle teorie della dipendenza e dello
scambio ineguale (o più esattamente, insoddisfatto da quelli che ho definito
tentativi euro-marxisti di confutarle), ho iniziato, nel 1995, il lavoro che
sarebbe sfociato nel libro, circa il periodo in cui ho abbandonato la Communist
League, correlativo dello SWP [Socialist Workers Party, n.d.t.] degli Stati
Uniti in Gran Bretagna (venne chiusa la sezione di Sheffield, io restai…). Nel
1997 ho scritto un primo abbozzo – un pamphlet/saggio
intitolato, ‘Imperialism and the law of value’. Un ulteriore impegno in
questo senso è stato interrotto, a partire dal 1998, dalla campagna contro le sanzioni
e la guerra all’Iraq, fino a quando ho lasciato il mio lavoro nelle
telecomunicazioni nel 2004, e dato il via alle ricerche per ‘Imperialism
and the globalisation of production’, la mia tesi di dottorato portata a
termine nel 2010. I contenuti del libro sono più ampi rispetto alla tesi,
ma l’argomento di fondo si trova già tutto lì, e ha iniziato a circolare – è
stata scaricata più di tremila volte, dunque più della prima tiratura del
volume.
DW: A tuo modo di vedere, l’esternalizzazione
imperialista dispone ancora di decenni per espandersi verso nuove frontiere, o
i suoi limiti sono ormai percepibili?


















