martedì 23 agosto 2016

domenica 21 agosto 2016

Il Manifesto del Partito Comunista*- Karl Marx e Friedrich Engels (1848)



II.   Proletari e Comunisti

In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?

I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.

I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.

I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall'altra per il fatto che sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.

Quindi in pratica i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento                                                                                    proletario.

Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo.

Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione di rapporti di proprietà esistiti fino a un dato momento non è qualcosa di distintivo peculiare del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a continui cambiamenti storici, a una continua alterazione storica.
Per esempio, la rivoluzione francese abolì la proprietà feudale in favore di quella borghese.
Quel che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese.

Ma la proprietà privata borghese moderna è l'ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri.

venerdì 19 agosto 2016

GIUSTA, INGIUSTA, UNILATERALE. La Famiglia in relazione allo Stato.*- Emily Rampoldi**

**EMILY RAMPOLDI - LICEO CLASSICO ALESSANDRO VOLTA (COMO) - CLASSE IIIG - CORSO COMUNICAZIONE - A.S.: 2010/2011

"La Famiglia, come lo Stato, è giusta in sé dal momento che tutela i propri membri insieme con i loro pensieri, ideologie, sentimenti. Tuttavia è contemporaneamente ingiusta poiché nella sua unilateralità non è in grado di raggiungere un compromesso costruttivo con il potere etico a lei così strettamente legato." 




Una famiglia è costituita da un gruppo di persone che vivono insieme. Nella cultura occidentale una famiglia spesso è definita in modo specifico come un gruppo di persone affiliate da legami consanguinei o legali, come il matrimonio o l'adozione o la discendenza da progenitori comuni. Molti antropologi sostengono che la nozione di "consanguineo" deve essere intesa in senso metaforico; alcuni sostengono che ci sono molte società di tipo non occidentale in cui la famiglia viene intesa attraverso concetti diversi da quelli del "sangue".

mercoledì 17 agosto 2016

Le troiane - Euripide

Le troiane di Euripide, edizione del 1966, con Sarah Ferrati, Anna Maria Guarnieri, Enrico Maria Salerno,
Laura Tavanti, Roldano Lupi, Esmeralda Ruspoli, Orazio Orlando, Anna Miserocchi, Lia Angelieri, Luisa Aluigi, Anna Bruno, Anna Maria Chio, Vittoria Dal Verme, Piera Degli Esposti, Cesarina Gheraldi, Maddalena Gillia, Milena Vucotich. Regia di Vittorio Cottafavi. 



martedì 16 agosto 2016

Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale*- Armando Lancellotti

*Da:    https://www.carmillaonline.com/



Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00



«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).

Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali,                                                                                                              politiche o storiche) degli attori di tale crimine.

Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.

Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.

sabato 13 agosto 2016

M. Heidegger: La fine della filosofia e il compito del pensiero - Carlo Sini


"Comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l'individuo, ognuno è comunque un figlio del suo tempo; così anche la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero. Che una qualsiasi filosofia oltrepassi il suo mondo attuale è un'opinione altrettanto stolta di quella secondo cui un individuo salti oltre il proprio tempo [...]. Come pensiero del mondo essa compare, nel tempo, soltanto dopo che la realtà ha compiuto il proprio processo di formazione e si è del tutto fatta [...]. Quando la filosofia dipinge il suo chiaroscuro, allora una figura della vita è diventata vecchia, e con il chiaroscuro essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva comincia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo."   (Hegel)


                                                                                                               (Il video si interrompe al minuto 33,49 per riprendere al minuto 34,15)

venerdì 12 agosto 2016

Heidegger - Franco Volpi

 Leggi Anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/09/sintesi-della-dialettica.html



                                                                                                         Seconda parte:   https://www.youtube.com/watch?v=S1pY2TCbq2w

mercoledì 10 agosto 2016

Il proletariato non è il soggetto della storia*- Moishe Postone**

*(Estratto dal libro di Moishe Postone, « Temps, travail et domination sociale. Une réinterprétation de la théorie critique de Marx », pp. 519-524, Mille et une nuits, 2009)        Da:     http://francosenia.blogspot.it/ 
** Moishe Postone è uno storico canadese, professore di storia all'Università di Chicago. Dal 1972 al 1982 ha vissuto a Francoforte sul Meno dove è stato collaboratore dell'Istituto di Ricerche Sociali.
Ora, possiamo tornare alla questione del ruolo storico della classe operaia e della contraddizione fondamentale del capitalismo, così come viene trattata implicitamente da Marx nella sua critica della maturità. Nel concentrarmi sulle forme strutturanti la mediazione sociale, costitutive del capitalismo, ho mostrato che la lotta di classe non genera, in sé e per sé, la dinamica storica del capitalismo; in realtà, essa è un elemento motore di questo sviluppo solo perché è strutturata da delle forme sociali intrinsecamente dinamiche. Come si è già detto, l'analisi di Marx respinge l'idea che la lotta fra la classe capitalista ed il proletariato sia una lotta fra la classe dominante nella società capitalista e la classe che reca in sé il socialismo e che, di conseguenza, il socialismo rappresenti l'auto-realizzazione del proletariato. Quest'ultima idea è strettamente legata alla comprensione tradizionale della contraddizione fondamentale del capitalismo in quanto contraddizione fra la produzione industriale ed il mercato e la proprietà privata. Ciascuna delle due grandi classi del capitalismo viene identificata come uno dei termini di questa "contraddizione"; l'antagonismo fra lavoratori e capitalisti viene perciò visto come l'espressione sociale della contraddizione strutturale fra le forze produttive ed i rapporti di produzione. Tutta questa concezione si basa sul concetto di "lavoro" visto come fonte trans-storica della ricchezza sociale e come elemento costitutivo della vita                                                                                                         sociale.

Ho criticato i postulati che stanno alla base di questa concezione, spiegando nel dettaglio le distinzioni operate da Marx fra il lavoro astratto ed il lavoro concreto, fra il valore e la ricchezza materiale, e mostrando la centralità che tali distinzioni hanno nella sua teoria critica. A partire da queste distinzioni, ho sviluppato la dialettica del lavoro e del tempo che si trova al cuore dell'analisi marxiana del modello di crescita e della traiettoria di produzione che caratterizzano il capitalismo. Secondo Marx, lungi dall'essere la materializzazione delle sole forze produttive, che sono strutturalmente in contraddizione con il capitale, la produzione industriale fondata sul proletariato è completamente modellata dal capitale; essa è la materializzazione delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Non può quindi essere assunto come un modo di produzione che, immutato, potrebbe servire da base al socialismo. In Marx, la negazione storica del capitalismo non può essere intesa come una trasformazione che renderebbe adeguato il modo di distribuzione al modo di produzione industriale sviluppato sotto il capitalismo.

lunedì 8 agosto 2016

Il lungo XX secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo - Vladimiro Giacché


 "Raccontare la storia del lungo XX secolo consiste in gran parte nel mostrare come e perché il regime di accumulazione statunitense: 1) emerse dai limiti, dalle contraddizioni e dalla crisi del capitalismo del libero scambio della Gran Bretagna come struttura regionale dominante dell'economia-mondo capitalistica; 2) ricostituì l'economia-mondo su basi che resero possibile un'altra tornata di espansione materiale; 3) ha raggiunto la propria maturità e sta forse preparando il terreno per l'emergere di un nuovo regime dominante"   (Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, 1994, p: 313)


Nella storia del capitalismo il Novecento - il cui inizio Giacché data nel 1896, quando finisce la Grande Depressione iniziata nel 1873 - è stato il secolo USA. L'ultima crisi, esplosa in forme acute dal 2007, ne segna il declino e apre nuovi orizzonti.


E' possibile e auspicabile che la crisi che segna la fine del lungo XX secolo ci riconsegni la consapevolezza della possibilità di un "livello superiore di produzione sociale", rilanciando l'idea di una regolazione dell'economia da parte dei produttori associati.

La tendenza, intrinseca al capitale, ad oltrepassare ogni limite nella sua espansione diviene un fattore esplosivo qualora ad essa si pretenda di informare la politica estera.
Già dal 1913 gli USA sono la prima potenza industriale del mondo, esprimendo il 33% della produzione industriale mondiale: poco meno di Gran Bretagna, Germania e Francia messi insieme; nel 1929 il rapporto salirà a 42% contro 28%.

Un'eccezione, nel panorama della crisi mondiale è rappresentata dall'URSS dei piani quinquennali: dal 1929 al 1940 la produzione industriale triplica, salendo dal 5% della produzione manifatturiera mondiale (quota del 1929) al 18% (quota del 1938).

Fu solo grazie all'ingresso nella seconda guerra mondiale e alla messa in opera della macchina bellica relativa, e non grazie agli investimenti  di Roosevelt in opere pubbliche a carattere civile, che gli USA riuscirono a risollevarsi dalla Grande Crisi degli anni trenta.

Il "miracolo economico" del periodo postbellico fu favorito anche dall'enorme distruzione di capitale in eccesso avvenuta con la guerra che eliminò la sovrapproduzione, come pure la popolazione lavoratrice eccedente.

Nel 1971 (fine del  gold-exchange standart) il dollaro diviene una moneta assolutamente fiduciaria, senza riferimento alle riserve in oro della Federal Reserve, ma resta il perno del sistema monetario internazionale, inondato di dollari: da 30mrd nel 1958 ad oltre 11.000 nel 2004.

La fine dell'Urss marca uno spartiacque nella storia del XX secolo, e conferisce al capitalismo conteporaneo l'aura, più ancora che della superiorità, della definitività: "Non esiste altra società all'infuori di me", grida ogni giorno da ogni mezzo di informazione il capitalismo contemporaneo. Bisogna però distinguere tra ideologia e concreto processo storico, in punto di vista economico. A quest'ultimo riguardo, infatti, l'esultanza per la fine dell'Urss lasciò presto il campo a nuove preoccupazioni. E il venir meno del "Nemico" esterno accentuò i conflitti intercapitalistici.

L'eccesso di credito e di finanza non era né una viziosa deviazione dal corso sano e ordinato dell'economia, né una malattia, semmai il sintomo e al contempo la droga che ha permesso di non avvertirla. La malattia era un'altra: la stentata valorizzazione del capitale.

Nella crisi attuale confluiscono due diversi processi: la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi a capitalismo maturo, e la più specifica crisi del regime di accumulazione statunitense, che ha dominato il secolo passato ma non dominerà il nostro.

Ora la possibilità del passaggio ad un modo superiore e meno primitivo di produzione sociale è proprio ciò che nei nostri anni è stato violentemente rimosso, appiattendo il futuro sulla semplice continuazione del presente. La possibilità di un "livello superiore di produzione sociale" è stata accantonata come un'utopia totalitaria, facendo dell'attuale il migliore dei mondi possibili - anzi, l'unico. E' da anni ormai, che l'accettazione di questa limitazione del nostro orizzonte storico-sociale è divenuta un fenomeno di massa. E' tempo di intendere che il prezzo di questa accettazione sta diventando decisamente troppo alto. E' possibile e auspicabile che la crisi che segna la fine - ritardata di qualche anno rispetto al calendario - del lungo XX secolo ci riconsegni questa consapevolezza, rilanciando l'idea di una regolazione dell'economia da parte dei produttori associati: il progetto marxiano di 
"fare della proprietà privata individuale una verità trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, ora principalmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di un lavoro libero e associato" (Marx 1871: 300).



domenica 7 agosto 2016

L'imperialismo oggigiorno: che cos'è e dove va*- Guglielmo Carchedi



Intervento di Guglielmo Carchedi, dell’Università di Amsterdam, realizzato alla Tavola Rotonda su: “Natura imperialista dell’Unione Europea e forme della lotta di classe” organizzata, sabato 9 gennaio 2016, a Napoli dalla Rete dei Comunisti, dai compagni della Mensa Occupata - Noi Saremo Tutto e dai compagni del Laboratorio ISKRA di Bagnoli.


I. Con la disfatta storica del movimento operaio, la parola ‘imperialismo’ è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed è stata rimpiazzata da ‘globalizzazione’. Tuttavia, se la parola è scomparsa, la realtà persiste.

Vediamo prima di tutto cosa non è l’imperialismo. Prendiamo ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare una valutazione anche minimamente completa .

Nell’Impero di Negri, mentre l’imperialismo era un’estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini nazionali, ora l’Impero è un network globale di potere e contro potere senza un centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti intervengono militarmente nel nome della pace e dell’ordine (p.181).

Ma è ovvio

(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti

(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate

(3) che l’imperialismo, lungi dallo scomparire si sta trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso

(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere la pace, è un’affermazione che glorifica e giustifica quell’imperialismo di cui Negri nega l’esistenza.

Consideriamo allora una persona più seria, Lenin. Posso solo soffermarmi solo su alcuni aspetti economici. Il suo testo sull’Imperialismo, anche se vecchio di un secolo, per alcuni versi è ancora attuale, anche se ovviamente deve essere aggiornato.

venerdì 5 agosto 2016

LA QUESTIONE DEL SALARIO*- Riccardo Bellofiore


Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano. Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta la sua vita, all’infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per mangiare e così via, è preso dal suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia da soma. Egli non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri, è fisicamente spezzato e spiritualmente abbrutito. Eppure, tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione. 
Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865


1. Introduzione

Tutti ormai parlano di una ‘questione salariale’. I modi, certo, sono diversi: ma che il il potere
d’acquisto dei lavoratori sia stato compresso, e compresso al punto tale che una qualche reazione
che contrasti questa deriva economicamente e socialmente pericolosa sia ormai necessaria, è ormai
senso comune. Si ripete quello che è già avvenuto qualche anno fa con la denuncia del ‘declino’
italiano. Una denuncia nata, dapprincipio, ‘a sinistra’, che poi diviene generale, e per ciò stesso ne
viene non poco snaturata.

La destra ha, come sempre, una ricetta elementare: lasciate ripartire lo sviluppo, magari
grazie alla massima deregolazione del mercato del lavoro, e se possibile grazie all’abbattimento più
generale possibile delle garanzie. La disuguaglianza che eventualmente si producesse di
conseguenza verrebbe automaticamente corretta dal meccanismo di mercato, e lo stesso benessere
reale dei lavoratori ne guadagnerebbe. Il contributo dello Stato a questa prospettiva sta puramente e
semplicemente nel farsi da parte: magari riducendo le tasse su lavoro e capitale, visto che proprio
non le si può cancellare.

Se ci muoviamo verso il centrosinistra – tanto più ‘compassionevoli’ siano i neoliberisti,
tanto più orientati alla riregolamentazione e redistribuzione siano i social-liberisti – i toni cambiano
un po’. Lo sviluppo non basta da sé, né il ‘lasciar fare’ è la panacea universale. E’ vero, la
globalizzazione e i rischi di derive inflazionistiche (provenienti peraltro dalle materie prime e dai
beni alimentari) sconsigliano aumenti del salario monetario, che darebbero vita a una minore
competitività. Gli effetti di miglioramento sul tenore di vita sarebbero presto azzerati. Ma proprio le
‘liberalizzazioni’, la lotta alle ‘rendite’, ovunque esse si annidino, possono determinare una
modificazione dei prezzi relativi che valga a calmierare i prezzi dei beni acquistati dai lavoratori
(aumentando, perciò, il salario reale a parità di salario monetario), e allo stesso tempo consenta di
ridurre (direttamente o indirettamente) i costi per le imprese. L’equivalente odierno delle riforme-
grano di Ricardo.

giovedì 4 agosto 2016

IL SANDALO E IL MANTELLO*- Gianfranco Pala

*[in Saggi in onore di Federico Caffè, vol. II] Angeli, Milano 1992     http://www.gianfrancopala.tk/ 

Quando Empedocle di Agrigento

si fu procurata la reverenza dei suoi concittadini insieme
agli acciacchi della vecchiaia,
decise di morire. Ma siccome
amava alcuni pochi, che lui riamavano,
non volle dinanzi a costoro annullarsi ma piuttosto
entrar nel Nulla.
Li invitò ad una gita. Non tutti:
questo o quello dimenticò, sì che nella scelta
e in tutta l’iniziativa
il caso sembrasse commisto.
Ascesero l’Etna.
Lo sforzo della salita
consigliava il silenzio. Nessuno ebbe a dire
parole di sapienza. Lassù
                                                                                                         ripresero fiato per tornare al ritmo consueto del sangue,
                                                                                                        intenti al panorama, lieti di essere alla meta.

Li abbandonò, inosservato, il maestro.
Quando ripresero a parlare, non si avvidero
ancora di nulla: soltanto più tardi
qua e là mancò una parola, e si volsero a cercarlo.
Ma già da tempo egli era oltre il dosso del monte,
pur senza troppo affrettarsi. Una volta soltanto
sostò e allora udì
come remota, da dietro la vetta,
riprendeva la conversazione. Le parole
non si potevano distinguere più: incominciava il morire.
Quando fu presso al cratere,
volto il capo, non volendo conoscere il seguito,
che non lo riguardava più, il vecchio si curvò lentamente,
sciolse con cura il sandalo dal suo piede, lo gettò sorridendo
di fianco, a pochi passi, sì che non troppo presto
lo si potesse trovare, ma pure in tempo; e cioè
prima che fosse marcito. Soltanto allora
venne al cratere. Quando gli amici suoi
furono senza di lui ritornati cercandolo,
cominciò a grado a grado per settimane e mesi
la sua scomparsa, com’egli aveva voluto. C’era
chi l’aspettava ancora mentre già altri
cercavano da soli le soluzioni. Lentamente, come nuvole
nel cielo si allontanano, immutate, appena più piccole,
e più si fanno, quando non le si guardino, più lontane,
e, se le cerchi di nuovo, già forse confuse con altre, così
s’allontanava egli dalla loro consuetudine, in modo consueto.
Poi sorse una diceria:
che morto non fosse, perché non mortale, si disse.
Il mistero lo avvolse. Si riteneva possibile
che oltre la sfera terrestre altro ci fosse: che il corso
delle cose umane potesse per un solo uomo mutarsi; e simili chiacchiere.
Ma fu trovato in quel tempo il sandalo suo, di cuoio,
palpabile, consunto, terrestre! Lasciato per quelli
che, se non vedono, subito cominciano col credere.
La fine dei suoi giorni
ritornò naturale. Come chiunque altro era morto.

Altri descrivono invece l’accaduto
altrimenti: quell’Empedocle
avrebbe davvero tentato di garantirsi onori divini
e con un’evasione misteriosa, un’astuta
caduta nell’Etna, senza testimoni, fondar la leggenda
che egli non fosse di natura umana né sottoposto
alle leggi della decadenza. Ma che allora
il sandalo gli avesse giocato il tiro di cader nelle mani degli uomini.
(Altri dicono persino che sia stato il cratere, irato,
per una simile iniziativa, a sputar via semplicemente
il sandalo di quel degenerato). Ma noi qui preferiamo credere
che se realmente non si fosse tolto il sandalo, avrebbe piuttosto
dimenticato soltanto la nostra stoltezza, senza pensare che noi
precipitosamente vogliamo far più buio quel che è buio, preferendo
credere a cose insulse, invece di cercare un motivo plausibile. E il monte
- ma non sdegnato però per tanta trascuratezza o nemmeno persuaso
che colui avesse voluto ingannarci per scroccare onori celesti
(ché nulla crede il monte e di noi non si cura)
ma anzi vomitando fuoco come sempre - avrebbe allora sputato
il sandalo e i discepoli così
- già occupati a fiutar qualche grande mistero,
a svolgere profonda metafisica; fin troppo occupati! -
afflitti dovettero a un tratto fra le mani tenersi quel sandalo
del maestro, fatto di palpabile cuoio, terrestre.

 Alla storia di Empedocle e del suo sandalo - narrata da Bertolt Brecht, nella scrittura italiana dovuta a Franco Fortini - è affidato qui un ruolo molto più rilevante di quello che potrebbe avere una semplice parabola introduttiva. La lezione integrale della poesia non è un vezzoso “occhiello”, ma è parte essenziale, da meditare profondamente, di quanto si espone. Se non fosse per la bisogna di una certa convenzione accademica, così potrebbe iniziare e terminare nel miglior modo il pensiero, e l’omaggio, che si vuole esprimere. Ma la scienza economica, tristemente, non lo consente.

Il sandalo del maestro, fatto di palpabile cuoio terrestre, mal si ac­compagna al mantello degli “affarucci” keynesiani. Quel mantello, già buca­to e coperto di fango - secondo la metafora di Abba Lerner, ricordata da Caffè stesso - fu l’oggetto di penosi tafferugli, tra i molti che vollero spar­tirselo, tirandolo e strappandolo a destra e a manca. Quello è lo stesso man­tello cui costantemente guardò Caffè, ma senza la pretesa di appropriarsene, consapevole forse del diverso stile di portamento che avrebbe imposto.

Se le dichiarazioni di intenti e gli strumenti keynesiani furono l’os­satura dell’intera opera di Caffè, ben più amari di quelli visitati da lord Key­nes dovettero alfine risultare i suoi presupposti e i suoi obiettivi. Proprio costì - nell’illusorietà, protrattasi oltre ogni credibile riscontro, di una sperata adeguatezza di quegli strumenti al perseguimento degli intenti di­chiarati di giustizia sociale - ha proliferato la solitudine del riformista. Tradendo consapevolmente quel riferimento keynesiano, che Caffè stesso voleva, per considerare i “punti fermi” di una economia sociale progressista, qui si desidera mostrare sommariamente, invece, proprio l’incompatibilità di ultima istanza tra quei punti e l’impianto teorico politico di lord Keynes.

mercoledì 3 agosto 2016

Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte* - Karl Marx (1852)


Hegel [1] nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. Caussidière [2] invece di Danton [3], Louis Blanc [4] invece di Robespierre [5], la Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-1795, il nipote invece dello zio. È la stessa caricatura nelle circostanze che accompagnano la seconda edizione del 18 brumaio [6]

Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo [7]; la rivoluzione del 1789-1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell’Impero romano [8]; e la rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789, ora della tradizione. rivoluzionaria del 1793-1795. Così il principiante che ha imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna ma non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando si muove in essa senza reminiscenze, e dimenticando in essa la propria lingua d’origine.

Al solo considerare queste evocazioni storiche di morti, si palesa tosto una spiccata differenza. Camille Desmoulins [9], Danton, Robespierre, Saint-Just [10], Napoleone, tanto gli eroi quanto i partiti e la massa della vecchia Rivoluzione francese adempirono, in costume romano e con frasi romane, il compito dei tempi loro, quello di liberare dalle catene e di instaurare la moderna società borghese. Gli uni spezzarono le terre feudali, e falciarono le teste feudali cresciute sopra di esse. L’altro creò nell’interno della Francia le condizioni per cui poté cominciare a svilupparsi la libera concorrenza, poté essere sfruttata la proprietà fondiaria suddivisa, e poté essere impiegata la forza produttiva industriale, della nazione liberata dalle sue catene; e al di là dei confini della Francia spazzò dappertutto le istituzioni feudali, nella misura in cui ciò era necessario per creare alla società borghese in Francia un ambiente corrispondente sul continente europeo [11]. Una volta instaurata la nuova formazione sociale disparvero i mostri antidiluviani; e con essi disparve la romanità risuscitata: i Bruti, i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo stesso Cesare [12].