*Da: La contraddizione. 145 – ott.dic.13
Questo
articolo è stato pubblicato nel 1999 sul no. 73 della rivista. In
questa occasione, per ragioni editoriali, pur riproponendo
integralmente il corpo del testo, abbiamo ridotto il numero delle
note a margine, escludendo quelle di carattere bibliografico per cui
rimandiamo alla precedente versione presente anche sul sito web della
rivista.
L’idea dello stato:
un’analisi del potere presente
1. Perfino un liberale
come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’attacco
neoliberale ad ogni forma di socialismo è ormai, e sostanzialmente,
un attacco alla democrazia tout court. Ma per chi ritiene
che gli ideologemi neoliberali siano piuttosto figure di
superficie di un processo, in cui il capitalismo transnazionale
tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di
democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli
Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il
nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante quattro
generazioni) – conviene riprendere la questione alla radice.
Si tratta di domandarsi a
quali condizioni sia pensabile, nel mondo attuale,
democrazia, cioè autogoverno di una comunità umana, in cui
gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche
attraverso regole e istituzioni, il miglior sviluppo
dei suoi membri. E si vede allora che la questione della democrazia
è più ampia di quella delle istituzioni, o anche della
configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi istituzionali
di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei
fini dello Stato, innanzitutto dei “fini” tout court
(“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in
apertura dell’Etica Nicomachea), e di come questi fini
possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma
dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale.
Questo, naturalmente, è il problema della politica da
Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui
anche quella liberale è, certo, un elemento – ma è solo per
strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto,
decretando che prima di Locke e Hobbes c’è il buio, che la nozione
di comunità umana e del suo rapporto con la natura
(cioè con la non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra
le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni,
“individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula
sæculorum.
Chiamo Corpus collectivum
hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione
(astratta!) di una qualsiasi comunità umana, capace di riprodursi
bioticamente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè
dotata di un suo rapporto biotopico tipico con l’ambiente
naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha,
innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le
modalità o forme di moto della produzione e riproduzione della
comunità stessa, che variano nel tempo, e che – oggi – tendono a
inglobare non solo la produzione e riproduzione di individui
umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di
modalità d’azione storicamente definite) – ma le determinanti
biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto
dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le
forme di vita della comunità, ma solo nella misura in cui la
comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa,
ossia – al limite – non ha niente fuori di sé.1
Ma – si dirà giustamente – quante cose una comunità umana
ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare, inclusa la
sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo
“materia” dell’autogoverno, e abbiamo che materia
dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei
fini, che gli uomini si pongono, come materia, ossia
non-volontà, non-ragione, non-posizione e realizzazione di
fini, ma appunto materia e condizione di quelle. La “materia”
non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini
2,
perché senza questi fini non ci sarebbero né condizioni né
mezzi della loro realizzazione, e anzi la comunità
sarebbe un insieme di automi.3