lunedì 13 febbraio 2017

La via maestra*- Antonio Gramsci

*(editoriale del num. 1 del quotidiano «L’Unità» 12 febbraio 1924).  Da:   http://www.senzatregua.it/ 


Cade oggi l’anniversario dei 90 anni (ora 93) di pubblicazione de «l’Unità» il quotidiano fondato dal Partito Comunista d’Italia nel 1923 e che ebbe il suo primo numero proprio il 12 febbraio. Questo articolo scritto da Gramsci, che suggerì il nome «l’Unità» spiega le ragioni della nascita del giornale e le proposte del Partito Comunista. Un articolo di straordinaria attualità che fino ad ora non era mai stato riportato integralmente sul web. Una mancanza che non riteniamo casuale e a cui abbiamo voluto rimediare, coscienti che nella storia del movimento operaio italiano ed internazionale, siano racchiusi spunti indispensabili per l’analisi della situazione attuale e l’azione politica conseguente per cambiare lo stato di cose presente. «La via maestra» è uno spunto essenziale per le nuove generazioni di comunisti.


La tragica esperienza compiuta dagli operai e dai contadini d’Italia in questi ultimi anni non deve essere perduta, essa può costituire anzi la taglia che essi hanno pagato e pagano per raggiungere la capacità politica necessaria a portare a termine lo sviluppo della loro rivoluzione. Il martirio subito può passare all’attivo della classe proletaria, se rimarrà a debellare definitivamente le illusioni che le hanno fatto segnare il passo negli anni 1919-1920. Occorre per ciò impedire che il fascismo, come già la guerra mondiale, passi senza aver trasformato radicalmente lo spirito delle masse, occorre che sotto l’assillo delle sofferenze e per l’anelito alla riscossa, non siano realizzate formule, stati d’animo e pregiudizi atti a sabotare ogni possibilità di ripresa proletaria, a precludere ogni seria prospettiva di rivincita. 

Il nostro giornale si propone a tale scopo di sondare metodicamente le cause che hanno piegato i lavoratori sotto il peso di una gravissima sconfitta e di farne pesare gli insegnamenti nella loro coscienza militante. L’unità a cui noi facciamo appello non è quindi un richiamo di ordine sentimentale e decorativo; non è il fiotto fangoso e torbido dei consensi stagnanti e senza sbocco; essa tende a forgiare lo strumento idoneo per la lotta del proletariato, ed ha alla sua base una concezione politica ben definita e coerente, che vi circola come sangue vivo, che la genera e la rinsalda. 

sabato 11 febbraio 2017

«Sono utili le prove Invalsi?» - Giorgio Israel*

*Giorgio Israel (Roma6 marzo 1945 – Roma25 settembre 2015) è stato uno storico della scienza ed epistemologo italiano. Membro della Académie Internationale d'Histoire des Sciences e professore dell'Università di Roma La Sapienza, è stato autore di più di 200 articoli scientifici e 30 volumi, nei quali ha esplorato il ruolo della scienza nella storia della cultura europea e ha condotto una critica dell'idea di razionalità matematica e del meccanicismo.

venerdì 10 febbraio 2017

Il comunismo nella storia cinese: riflessioni su passato e futuro della Repubblica popolare cinese*- Maurice Meisner**

**Meisner, Maurice (1931-2012)storico della Cina contemporanea. “The Place of Communism in Chinese History: Reflections on the Past and Future of the People’s Republic of China,” Macalester International: Vol. 18, Article 8. (2007) 


[…] Questo non è il luogo adatto per discutere seriamente gli sviluppi del capitalismo seguiti rapidamente alle riforme degli anni ottanta, probabilmente il più massiccio processo di sviluppo capitalistico della storia mondiale. Vorrei occuparmi esclusivamente di alcuni aspetti strettamente correlati di tale esito: innanzitutto, il ruolo dello stato nello sviluppo del capitalismo; secondo, il fenomeno del “capitalismo burocratico” nella storia cinese; infine, alcuni brevi commenti circa le conseguenze politiche e culturali del capitalismo cinese contemporaneo, in particolare riguardo al posto del comunismo nella storia cinese.

III. Capitalismo e stato

Una delle grandi ironie della storia moderna cinese è il fatto che la dinamica capitalistica che ha trasformato la Cina nell’ultimo quarto di secolo è il risultato di decisioni prese da un partito e da un potente stato comunisti. Per quanto incongruo in termini di classica ideologia liberale, nella fattualità storica un ruolo cruciale dello stato nello sviluppo del capitalismo non è inusuale. Lo stato bismarkiano, ad esempio, diede gran parte dell’impeto e dell’orientamento per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella Germania del tardo XIX secolo, mentre l’industrializzazione promossa dallo stato rappresentò la forza dominante nella storia del Giappone nell’epoca Meiji (1868-1912). Nelle cosiddette “nazioni di recente industrializzazione” del secondo dopoguerra, la modernizzazione patrocinata dallo stato costituì un fatto universale. Corea del sud, Taiwan e Singapore sono alcuni degli esempi di maggior successo.

Di fatto, non è solo nel caso della tarda modernizzazione (o di quella che Barrington Moore ha definito “modernizzazione conservatrice”) che si è assistito al coinvolgimento dello stato nella promozione dello sviluppo capitalistico. Il potere statale ha giocato un ruolo essenziale nel precedente sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali, ruolo oscurato dalla necessità ideologica di dipingerlo come espressione naturale di una presunta natura umana essenziale. Una necessità che ha trovato esternazione nell’ideologia del “libero mercato”, secondo la quale il capitalismo opera meglio laddove libero da qualsiasi ingerenza governativa esterna. Eppure, anche in Inghilterra, la classica patria del capitalismo e dell’ideologia liberale, fu l’intervento dello stato a creare il mercato del lavoro, precondizione allo sviluppo di un moderno capitalismo industriale. Le enclosure, che promossero il capitalismo rurale espellendo dalla terra milioni di contadini trasformandoli in proletari urbani, nono furono semplicemente frutto di leggi naturali dell’economia, bensì di provvedimenti del parlamento applicati da tribunali e polizia. E fu la riforma della Poor Law del 1834 a porre fine ai tradizionali diritti di sussistenza in favore di un mercato del lavoro “libero”, la funzione del quale venne rafforzata dalla minaccia della Workhouse. Lo stato britannico era pesantemente coinvolto nella creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella sua patria nonché classica incarnazione (11).

giovedì 9 febbraio 2017

La Rivoluzione contro il Capitale*- Antonio Gramsci

*Pubblicato sull'Avanti il 24 novembre 1917 e su Il Grido del Popolo il 5 gennaio 1918    https://www.marxists.org/ 


La rivoluzione dei bolscevichi si è definitivamente innestata nella rivoluzione generale del popolo russo. I massimalisti che erano stati fino a due mesi fa il fermento necessario perché gli avvenimenti non stagnassero, perché la corsa verso il futuro non si fermasse, dando luogo ad una forma definitiva di assestamento - che sarebbe stato un assestamento borghese, - si sono impadroniti del potere, hanno stabilito la loro dittatura, e stanno elaborando le forme socialiste su cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi per continuare a svilupparsi armonicamente, senza troppi grandi urti, partendo dalle grandi conquiste già realizzate.

La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostarzione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così feroci come si potrebbe pensare e come si è pensato.

Eppure c'è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente vivificatore. Essi non sono "marxisti", ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo, ma la società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici e li giudicano e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace.

mercoledì 8 febbraio 2017

Sulla NEP e sul capitalismo di Stato* - Lenin

*da:   Lenin, Opere Complete, vol. 33, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 385-397. 
Relazione al IV congresso dell'Internazionale comunista, 13 novembre 1922. Pravda n. 258, 15 novembre 1922.


Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale


Compagni! Sono iscritto nell'elenco degli oratori come relatore principale, ma voi comprenderete che dopo la mia lunga malattia non posso fare un grande rapporto. Non posso che limitarmi a un'introduzióne alle questioni più importanti. Il mio tema sarà molto limitato. Il tema: Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale è troppo vasto e grandioso perché, in generale, un solo oratore, in un solo discorso, possa esaurirlo. Perciò mi limiterò a trattare soltanto una piccola parte di questo tema, cioè la questione della «nuova politica economica». Scelgo di proposito soltanto questa piccola parte del tema per informarvi su di un problema che oggi ha la massima importanza, almeno per me che ci lavoro attorno in questo momento.

Vi dirò perciò come abbiamo dato inizio alla nuova politica economica e quali risultati abbiamo ottenuto per mezzo di questa politica. Se mi limito a questo problema, riuscirò forse a farne un esame generale e a darne un'idea generale.

Per incominciare dal modo come siamo giunti alla nuova politica economica, devo richiamarmi a un articolo che io scrissi nel 1918 (101). Al princìpio del 1918, in una breve polemica, sfiorai, per l'appunto, la questione dell'atteggiamento che dovevamo assumere verso il capitalismo di Stato. Scrivevo allora:

«II capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale delle cose (cioè, relativamente alla situazione di allora) nella nostra Repubblica sovietica. Se, per esempio, tra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia che tra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile».

Dicevo questo, s'intende, in un periodo nel quale eravamo più inesperti di adesso, ma non tanto inesperti da non poter esaminare simili questioni.

Cosicché, nel 1918, sostenevo l'opinione che, relativamente alla situazione economica allora esistente nella Repubblica sovietica, il capitalismo di Stato rappresentava un passo avanti. Ciò sembra molto strano, e forse perfino assurdo, poiché anche allora la nostra repubblica era già una repubblica socialista, poiché allora noi prendevamo ogni giorno con grande fretta - probabilmente con fretta esagerata - diverse nuove misure economiche che non possono essere chiamate altrimenti che socialiste. E ciò nondimeno io presumevo allora che il capitalismo di Stato, rispetto alla situazione economica allora esistente nella Repubblica sovietica, fosse un passo avanti, e spiegavo poi questa idea elencando semplicemente gli elementi fondamentali della struttura economica della Russia. Secondo me, questi elementi erano i seguenti: «1. la forma patriarcale, ossia la più primitiva dell'economia agricola; 2. la piccola produzione mercantile (questa forma comprende anche la maggioranza dei contadini che vendono il grano); 3. il capitalismo privato; 4. il capitalismo di Stato; e 5. il socialismo». Tutti questi elementi economici erano rappresentati nella Russia di quel tempo. Mi proposi allora di mettere in chiaro quali rapporti reciproci esistessero tra questi elementi e se non si dovesse attribuire a uno degli elementi non socialisti, cioè al capitalismo di Stato, un valore più alto del socialismo. Ripeto: sembra a tutti molto strano che un elemento non socialista sia stimato a un livello più alto, sia ritenuto più elevato del socialismo in una repubblica che si proclama socialista. Ma la cosa sarà chiara se ricorderete che non consideravamo la struttura economica della Russia come un qualche cosa di omogeneo e di altamente sviluppato, e che eravamo pienamente consci di avere in Russia un'agricoltura patriarcale, vale a dire la forma più primitiva di agricoltura, accanto alla forma socialista. Quale funzione, dunque, avrebbe potuto esercitare il capitalismo di Stato in una tale situazione?

Io mi domandavo inoltre: quale di questi elementi predomina? È chiaro che in un ambiente piccolo-borghese domina l'elemento piccolo-borghese. Io mi rendevo conto, allora, che l'elemento piccolo-borghese predominava; non era possibile pensare altrimenti. Il problema che mi prospettavo allora - si trattava di una polemica speciale che non riguardava la questione attuale - era il seguente: qual'è il nostro atteggiamente verso il capitalismo di Stato? E rispondevo: il capitalismo di Stato, pur non essendo una forma socialista, sarebbe per noi e per la Russia una forma preferibile a quella attuale. Che cosa vuoi dire questo? Vuol dire che non sopravvalutavamo né i germi né gli inizi dell'economia socialista, quantunque avessimo già compiuto la rivoluzione sociale; al contrario, già allora, comprendevamo, fino a un certo punto, che sarebbe stato meglio se dapprima fossimo pervenuti al capitalismo di Stato e soltanto dopo al socialismo.

martedì 7 febbraio 2017

Salario, concorrenza e mercato mondiale*- Maurizio Donato**

*Da:   https://mrzodonato.wordpress.com/ 
** Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo, aprile 2015.



“Nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore. Dunque, la loro forma autonoma di valore si presenta qui, di fronte ad esse, ovviamente come denaro mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto”. Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, terzo capitolo, pagg. 171-2 dell’edizione Einaudi, 1978.


Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.

Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.

Da questa prospettiva l’elemento del mercato mondiale è presente – come concetto – da subito nel modello marxiano che già nel terzo capitolo del I libro, dedicato al denaro come forma di valore delle merci, intitola un paragrafo “denaro mondiale”. Ma in che senso era da intendersi allora e oggi l’espressione “mercato mondiale”?

Se è senz’altro corretto assumere la categoria di “mercato mondiale” a un livello di astrazione alto, non si possono ignorare o sottovalutare le profonde differenze, le vere e proprie stratificazioni di cui il mercato mondiale è stato ed è ancora composto a partire dalle condizioni generali della produzione e dunque anche – necessariamente – in riferimento al salario. Senza cercare di ripercorrere la storia dei differenziali salariali mondiali, va almeno tenuto presente che attorno alla metà degli anni ’90 i lavoratori specializzati dei paesi più ricchi del mondo guadagnavano in media sessanta volte di più dei lavoratori appartenenti al gruppo più povero, i braccianti dell’Africa subsahariana.

domenica 5 febbraio 2017

Gramsci e la Russia sovietica - Domenico Losurdo

Leggi anche:    http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/600/552

Cos’è l’intelligenza numerica nell’uomo? Daniela Lucangeli*

*Daniela Lucangeli, una laurea in Filosofia Logica e una laurea in Psicologia e un PhD in Developmental Science conseguito presso l’università di Leiden (Olanda), si occupa da sempre dei processi maturazionali nello sviluppo e nell’ apprendimento. 

venerdì 3 febbraio 2017

La guerra dei ricchi è cominciata*- Bruno Amoroso** (8/02/2016)

** Bruno Amoroso (Roma, 11 dicembre 1936 – Copenaghen, 20 gennaio 2017) è stato un economista e saggista italiano naturalizzato danese.docente all’università di Roskilde in Danimarca
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 E come scriveva Sartre: “Siamo tutti complici e vittime”. La tragedia già descritta nel passato è di tale ampiezza che “in un mondo in cui tutti fuggono a gambe levate in tutte le direzioni, anche chi cammina composto nella direzione opposta sembra che fugga”.



 “Hai viaggiato attraverso i deserti e con il rischio di affogare, hai attraversato il Mediterraneo con imbarcazioni insicure, e non sei arrivato da nessuna parte: hai camminato in circolo e sei sempre arrivato nello stesso accampamento da cui sei scappato. La tenda è il tuo destino. Il tuo futuro è fuggire. Sei condannato a vita a emigrare da tenda a tenda, un condannato a vita senza fissa dimora. Renditene conto!”. (Carsten Jensen)




Redditi e rapine

La crisi politica dell’Europa – che ha raggiunto il suo apice, per ora, con il problema dei profughi in fuga dalla guerra e dalla fame, e della lotta al “terrorismo” – è un dramma da tempo annunciato, così come lo è la reazione dei popoli e dell’establishment politico, economico e militare. Il filosofo di Treviri lo aveva previsto: non saranno le teorie o le ideologie a indirizzare le aspirazioni dei popoli, ma il peggioramento delle loro condizioni di vita e di sicurezza. L’establishment lo sa ed è per questo che ha rinunciato a contrastare i movimenti per la pace, le richieste di co-sviluppo tra nord e sud, i programmi di giustizia sociale ed equità giuridica. Per cambiare la testa degli individui è sufficiente togliergli il tappeto sotto i piedi. Facendosi promotore della “pace” e della “democrazia” negli altri paesi, porgendo la mano alla protesta contro i governi e le ineguaglianze da essa stessa promosse, la Triade ha fomentato le rivolte e le guerre civili nei paesi arabi e africani con l’aiuto dei propri regimi fantoccio e del “terrorismo”.

Ha costruito il suo alibi con anni di campagne sulla necessità dei tagli e dei risparmi nei paesi europei, che hanno trasformato l’immagine di quella gioiosa macchina di pace che fu lo Stato del Benessere in una banda di spendaccioni a spese del mercato e del capitalismo. È stato così che nei paesi europei si è scatenato il clamore sulla generosità sconsiderata dello Stato a spese delle imprese e dei capitali, ed è iniziata la caccia predatoria a spese dei pensionati, dei malati e dei più deboli. Anche nella felice Danimarca ci si è messi a contare il numero delle merende dei bambini e dei minuti di assistenza ai vecchi e malati, l’”agenzia delle entrate” si è impegnata nella caccia all’evasione e al lavoro nero dei piccoli commercianti e dei disoccupati dimenticando i grandi evasori.

Questo all’indomani di una “crisi” finanziaria che ha rapinato i risparmi dei lavoratori. Alla crescente disaffezione per questo Stato delle cose si è fatto fronte con la difesa dei “valori” nazionali e della “democazia” rafforzando la presenza del paese sui fronti di Guerra della Nato, costruendo al centro di Copenaghen un nuovo mausoleo ai caduti delle guerre Nato, e con decisioni legislative per la difesa dei “valori” nazionali che impongono la carne di “maiale” nelle colazioni dei bambini negli asili e nelle scuole. Il ritorno del “terrorismo”, con le armi e i soldi dell’Occidente, ha legittimato sia moralmente sia contabilmente i tagli alle politiche di aiuto verso i paesi africani e asiatici. La reazione di sgomento e sorpresa per la recente approvazione parlamentare della legge L87 che autorizza la perquisizione e il sequestro da parte della polizia danese degli “ori e diamanti” che i migranti trascinerebbero con se nelle loro valigie è stata stigmatizzata come ipocrita da parte del governo danese. La tesi ufficiale, ribadita anche a Bruxelles, è che questo è in linea con quanto il governo fa in Danimarca anche verso i propri cittadini. La rapina eretta a sistema, verso i propri e gli altri cittadini, durante la quale i risparmi di una vita non sono distinguibili dal bottino della finanza e delle guerre, quelli mai conteggiati e tassati.

I migranti sono i veri speculatori del nostro tempo

giovedì 2 febbraio 2017

L’imperialismo americano e la socialdemocrazia europea*- L. Trotsky (1924)

*Da:      https://www.marxists.org/
Leggi anche:    http://ilmattino.it/primopiano/esteri/canfora_trump_islam_unione_europea-2231555.html


Ma prima di affrontare questa importante questione, esaminiamo qual è il ruolo che il capitale americano riserva ai radicali e ai menscevichi europei, alla socialdemocrazia in questa Europa che sta per essere posta a regime controllato.

 La socialdemocrazia è incaricata di preparare questa nuova situazione, cioè di aiutare politicamente il capitale americano a mettere a razione l’Europa. Che fanno in questo momento le socialdemocrazie tedesca e francese, che fanno i socialisti di tutta Europa? Si educano e si sforzano di educare le masse operaie nella religione dell’americanismo; in altre parole, fanno dell’americanismo, del ruolo del capitale americano in Europa, una nuova religione politica. Si sforzano di persuadere le masse lavoratrici che, senza il capitale americano, essenzialmente pacificatore, senza i prestiti dell’America, l’Europa non potrà resistere. Fanno opposizione alla loro borghesia, come i socialpatrioti tedeschi, non dal punto di vista della rivoluzione proletaria, e neanche per ottenere delle riforme, ma per dimostrare che questa borghesia è intollerabile, egoista, sciovinista e incapace di andare d’accordo con il capitale americano pacifista, umanitario, democratico. È il problema fondamentale della vita politica dell’Europa e, in particolare, della Germania. In altri termini, la socialdemocrazia europea diventa oggi l’agenzia politica del capitale americano. È un fatto inaspettato? No, poiché la socialdemocrazia, che era l’agenzia della borghesia, nella sua degenerazione politica, doveva fatalmente diventare l’agenzia della borghesia più forte, della più potente, della borghesia di tutte le borghesie, cioè della borghesia americana. Poiché il capitale americano assume il compito di unificare, di pacificare l’Europa, di insegnarle a risolvere i problemi dei risarcimenti e altri ancora, e poiché tiene i cordoni della borsa, la dipendenza della socialdemocrazia nei confronti della borghesia tedesca in Germania, della borghesia francese in Francia, diventa sempre di più una dipendenza nei confronti del padrone di queste borghesie. Il capitale americano è attualmente il padrone dell’Europa. Ed è naturale che la socialdemocrazia cada politicamente sotto la dipendenza del padrone dei suoi padroni. Questo è il fatto essenziale per comprendere la situazione attuale e la politica della Seconda Internazionale. Non rendersene conto, significa non poter comprendere gli avvenimenti di oggi e di domani, significa vedere soltanto la superficie delle cose e soddisfarsi di frasi generiche.

domenica 29 gennaio 2017

Il ruolo del progresso tecnologico in un sistema di produzione capitalistico*- Francesco Piccioni

* Da:  Automazione e disoccupazione tecnologica  http://contropiano.org/   (Relazione di Francesco Piccioni al Forum “il piano inclinato degli imperialismi”, organizzato dalla Rete dei Comunisti a Bologna il 7 marzo 2015)
I primi tre articoli: http://contropiano.org/documenti/2017/01/15/automazione-disoccupazione-tecnologica-divario- 


I cento anni più veloci della Storia

A 100 anni quasi esatti dall’Imperialismo di Lenin un aggiornamento, anche a livello delle categorie, appare necessario, ma decisamente non facile. Lo chiede la realtà che abbiamo di fronte, che riesce sempre più difficile descrivere nei soliti modi. Bisogna ricordare, infatti, che la dialettica materialistica non è per nulla una particolare griglia di lettura da sovrapporre ai dati empirici, ma è interna alla cosa stessa. Va insomma riconosciuta nel suo tratto fondamentale per cogliere ciò che – nella trasformazione continua – resta stabile e ciò che invece svanisce. Vale il paragone con le leggi che regolano la fisiologia umana: sono in linea generale decisamente stabili, ma cambia molto – soprattutto nella pratica quotidiana – se l’organismo si trova più vicino alla nascita oppure alla morte.

Al tempo de L’imperialismo erano passati appena trenta anni dalla morte di Marx, caratterizzati dalla stagnazione e poi dalla crisi della prima globalizzazione, e già Lenin individuava – sulla scia di altri studi contemporanei – una forma capitalistica decisamente “nuova”, tale da cambiare molti parametri decisivi per la lotta di classe e                                                                                                                           soprattutto per la lotta politica rivoluzionaria.

Difficile pensare che i 100 anni più veloci della storia dell’umanità siano trascorsi senza effetti tali da dover essere riconosciuti anche su piano teorico. Eppure i marxismi del ‘900 sono stati particolarmente immobili su questo fronte – sostanzialmente fermi alle dinamiche descritte dal primo libro de Il Capitale e inchiodati alla necessità di giustificare teoricamente le scelte tattiche dei diversi partiti comunisti – lasciando alla fin fine il compito dell’innovazione ad avventurieri del pensiero, eretici di assai diversa onorabilità, pezzenti a caccia di abiti rubati.

Ma da quale punto di osservazione si deve procedere?

martedì 24 gennaio 2017

Edward Hallett Carr, storia e rivoluzione*- Matthijs Krul

Link all’intervista in inglese Notes & Commentaries

Quella che segue è la trascrizione di un’intervista al celebre storico britannico E. H. Carr come pubblicata dalla New Left Review nel 1978, col titolo “La sinistra oggi”. Carr, uno dei primi seri specialisti della storia russa e sovietica (forse un po’ datato ma ancora utile e leggibile), all’epoca aveva ottantasei anni. Pur non essendo mai stato comunista, egli si identificava chiaramente con la sinistra politica, dedicando gran parte dei suoi sforzi accademici a combattere la storiografia conservatrice e liberale (Whig). Ciò nonostante, per una significativa parte della sua carriera non fu un accademico, lavorando presso il Foreign Office, ed in seguito come vicedirettore del Times, due organi non certo noti per la loro vicinanza alla sinistra. Questo gli consentì di avere una prospettiva ampia e non settaria sugli eventi.

Il discorso di Carr tocca questioni ancor’oggi rilevanti per il comunismo, a dispetto del fatto che l’articolo qui riprodotto abbia ormai più di trent’anni. Per molti versi, esso è rappresentativo della disillusione della sinistra post-stalinista. Disillusione allora talmente profonda in alcuni comunisti, e frutto dello scontro tra la realtà e le loro aspettative, da spingerli a trarre conclusioni opposte e divenire rabbiosi esponenti della destra. Carr, d’altra parte, non seguì tale percorso, conservando una prospettiva più distante e dunque maggiormente obiettiva, nonché meno isterica. Ancor più importante, egli non solo fu in grado di separare il grano dal loglio nell’esperienza comunista, e ciò nonostante l’enorme pressione accademica e politica esercitata contro di lui (persino Orwell lo considerava pericoloso), ma ebbe anche la capacità in età avanzata di analizzare correttamente gli sviluppi politici ricorrendo al metodo di Marx. Meglio di tanti comunisti, in particolare i cosiddetti “eurocomunisti”, esaminò  gli sviluppi nelle relazioni economiche che avevano avuto luogo dopo la morte di Marx e, in particolare, dopo la Seconda guerra mondiale, indicando, inoltre, la sempre più aristocratica e compromessa condizione della classe operaia nelle nazioni più sviluppate, se comparata con quella dei paesi caratterizzati da un’industria, e dunque, un proletariato sottosviluppati. Senza timore di trarre le conclusioni necessarie, diede un forte impulso ad una migliore comprensione storica di tale fenomeno, il quale a posteriori diverrà generalmente accettato come una delle decisive rotture storiche del XX secolo.

La fama di Carr non è legata esclusivamente alla sua eccellente analisi della storia economica sovietica, campo nel quale è stato un pioniere insieme a R. W. Davies, bensì è dovuta in egual misura al suo lavoro storiografico Sei lezioni sulla storia. Un libro generalmente considerato come l’espressione maggiore della scrittura storiografica moderna, una presa di distanza dalla vecchia storia Whig, così come da un certo positivismo sterile e conservatore (à la Namier). In esso viene inaugurata un’epoca in cui il mestiere dello storico, in maniera crescente, è stato visto come un particolare modo di selezionare e disporre gli elementi storici, che si vogliano o meno definire questi ultimi “fatti storici”; e nel fare ciò, ha aperto la strada, sostenendole, a quelle modalità di scrittura storiografica che hanno enfatizzato inediti trattamenti di materiali esistenti e ignorati, allo scopo di condurre alla ribalta segmenti sino ad allora oscuri della storia, quali la storia sociale, quella delle donne, del quotidiano e così via. Il clima generale instaurato dall’ascesa della New Left e dall’influenza del gruppo degli storici vicini al PCGB, particolarmente in Gran Bretagna, ha senz’altro avuto un ruolo. Altro aspetto importante del contributo fornito da Carr alla storiografia, nel libro in questione come in altri, è la sua rivendicazione dell’idea di progresso nella storia, come prerequisito necessario al fine di rendere la disciplina storica un’impresa, in primo luogo, comprensibile ed utile. Il tutto senza invocare il deus ex machina del Geist o concezioni analoghe, cosa di per sé degna di nota, per quanto anche un prodotto della peculiare avversione britannica nei confronti della filosofia della storia. Gran parte di questa intervista e da vedersi sotto questa luce, compresi i riferimenti al lavoro succitato. Poiché è essenziale difendere l’idea di progresso nella storia senza cadere nella trappola del progressismo o idealismo whig, Edward Hallett Carr è stato un grande storico anche solo per quest’unico motivo.

Una teoria del miracolo cinese*- Cheng Enfu, Ding Xiaoqin**

**Cheng Enfu è un membro dell'Accademia Cinese delle Scienze Sociali e presidente della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy). ----- Ding Xiaoqinè vice direttore del Centro di Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi presso la Shanghai University of Finance and Economics, ricercatore post-dottorato presso l'Accademia cinese delle scienze sociali, e segretario generale della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy).
Questo articolo è stato tradotto dal cinese all’inglese da Shan Tong (Università di Scienze Politiche e Giurisprudenza della Cina Orientale) e, successivamente, dall’inglese all’italiano ad opera di Francesca Cirillo ed Andrea Genovese.

Otto principi fondamentali della politica economica cinese contemporanea

Il rapido sviluppo economico della Cina negli ultimi anni è stato spesso definito con aggettivi quali “miracoloso” [1]. Parlare di un "Beijing Consensus" o di un "modello cinese" è diventata ormai prassi comune nei dibattiti accademici.

Ma, come abbiamo scritto altrove, “forti problemi teorici sono iniziati ad emergere per quanto riguarda l'esistenza, il contenuto, e le prospettive del modello Cina” [2]. La domanda chiave, quindi, è la seguente: quale tipo di teoria economica e quale strategia sono alla base di questo "miracolo”? Il modello cinese è stato variamente descritto, alternativamente, come una forma di neoliberismo, o come un nuovo tipo di keynesismo. Riteniamo che i grandi progressi recenti registrati nello sviluppo del paese siano i risultati dei progressi teorici nel campo dell’Economia Politica, verificatisi all’interno dello stesso contesto cinese; al contrario, i principali problemi che hanno accompagnato lo sviluppo della Cina riflettono l’influenza dannosa del neoliberismo occidentale.

Il presidente Xi Jinping ha sottolineato la necessità di sostenere e sviluppare una politica economica Marxiana per il XXI secolo, adattata alle esigenze e alle risorse della Cina. Il bollettino di una conferenza sullo stato dell’Economia cinese del Comitato Centrale del Partito Comunista (tenutasi nel Dicembre 2015), ha riaffermato, di conseguenza, l'importanza degli otto grandi principi della "Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi".

Questi principi e le loro applicazioni sono discussi nel seguito, insieme ad alcuni commenti sulle possibili interpretazioni, attualmente oggetto di dibattito intellettuali cinesi.
Scopo di questo articolo è quello di chiarire il modello teorico ufficiale che sta alla base del “miracolo” economico cinese, utilizzando, a tal fine, i termini e i concetti prevalenti nella Cina odierna.

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lunedì 23 gennaio 2017

Nella fossa dei leoni. Si può leggere Il capitale di Marx a partire dalle Tesi su Feuerbach?* Wolfgang Fritz Haug**

*Da:    "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”    Trad. it. dallo spagnolo di Fabio Frosini.
**(Institut für kritische Theorie)


Cercheremo qui di abbattere i muri che agli occhi di molti impediscono alla filosofia della prassi di introdursi nel regno del Marx più maturo. Il primo di questi muri è stato eretto tra le Tesi su Feuerbach e la critica dell’economia politica; un secondo tra il giovane Marx e il Marx maturo, con la conseguenza della nascita di una specie di dualismo marxologico; un terzo muro, infine, è stato costruito tra la società e la natura. Se riusciremo a sospendere la quarantena nella quale gli strutturalisti hanno rinchiuso le Tesi su Feuerbach, il sarcasmo di Althusser dovrà cessare e la filosofia della prassi non sarà più «la bella conversazione notturna dei nostri leoni intellettuali da salotto»2 . Non si potrà più dire allora, con il filosofo francese, che «il primato della prassi è la prima parola di ogni idealismo». E vacillerà anche l’ultima separazione, quella tra la società, o la cultura, e la natura.


Nella bocca del lupo economico: l’asse metodologico

Althusser arriva alla conclusione per cui le Tesi non possono essere utilizzate come punto di partenza della filosofia marxista. Questa, dice, «dovrà cercare il suo punto di partenza in un altro luogo, […] per poter partecipare da lontano alla trasformazione del mondo. Se si assume ciò, le Tesi su Feuerbach tornano al loro glorioso passato e finalmente si può parlare di un’altra cosa: di Per la critica dell’economia politica, dei Grundrisse, del Capitale».

Ebbene, facciamolo! Parliamo pure del Capitale! E facciamolo a partire dalla seguente domanda: come si pongono in relazione le Tesi su Feuerbach con la critica dell’economia politica?

sabato 21 gennaio 2017

L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo*- Vladimir Lenin (1916)


[...] Una delle particolarità dell'imperialismo, collegata all'accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell'emigrazione dai paesi imperialisti e l'aumento dell'immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori. Secondo Hobson l'emigrazione inglese è scesa da 242 mila persone nel 1884 a sole 169 mila nel 1900. L'emigrazione della Germania raggiunse il punto culminante nel decennio 1881-1890, con 1.453.000, e nei due decenni successivi scese a 544 e 341 mila. Invece crebbe il numero dei lavoratori accorsi in Germania dall'Austria, dall'Italia, dalla Russia, ecc. Secondo il censimento del 1907 vivevano allora in Germania 1.342.294 stranieri, di cui 440.800 lavoratori industriali e 257.329 lavoratori della terra [*10]. In Francia i lavoratori delle miniere sono "in gran parte" stranieri: polacchi, italiani, spagnuoli [*11]. Negli Stati Uniti gli immigrati dall'Europa orientale e meridionale coprono i posti peggio pagati, mentre i lavoratori americani danno la maggior percentuale di candidati ai posti di sorveglianza e ai posti meglio pagati [*12]. L'imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari.

Occorre rilevare come in Inghilterra la tendenza dell'imperialismo a scindere la classe lavoratrice, a rafforzare in essa l'opportunismo, e quindi a determinare per qualche tempo il ristagno del movimento operaio, si sia manifestata assai prima della fine del XIX e degli inizi del XX secolo. Ivi, infatti, le due importanti caratteristiche dell'imperialismo, cioè un grande possesso coloniale e una posizione di monopolio nel mercato mondiale, apparvero fin dalla metà del secolo XIX. Marx ed Engels seguirono per decenni, sistematicamente, la connessione dell'opportunismo in seno al movimento operaio con le peculiarità imperialiste del capitalismo inglese. Per esempio Engels scriveva a Marx il 7 ottobre 1858:

"... l'effettivo, progressivo imborghesimento del proletariato inglese, di modo che questa nazione, che è la più borghese di tutte, sembra voglia portare le cose al punto da avere un'aristocrazia borghese e un proletariato accanto alla borghesia. In una nazione che sfrutta il mondo intero, ciò è in certo qual modo spiegabile".

Circa un quarto di secolo più tardi, in una lettera dell'11 agosto 1881 egli parla delle "peggiori Trade-unions inglesi che si lasciano guidare da uomini che sono venduti alla borghesia o per lo meno pagati da essa".

In una lettera a Kautsky del 12 settembre 1882, Engels scriveva:

"Ella mi domanda che cosa pensino gli operai della politica coloniale. Ebbene: precisamente lo stesso che della politica in generale. In realtà non esiste qui alcun partito operaio, ma solo radicali, conservatori e radicali-liberali, e gli operai si godono tranquillamente insieme con essi il monopolio commerciale e coloniale dell'Inghilterra sul mondo" [*13].

Lo stesso dice Engels anche nella prefazione alla seconda edizione (1892) della Situazione della classe operaia in Inghilterra.

Qui sono svelati chiaramente cause ed effetti. Cause: 1) sfruttamento del mondo intero per opera di un determinato paese; 2) sua posizione di monopolio sul mercato mondiale; 3) suo monopolio coloniale. Effetti: 1) imborghesimento di una parte del proletariato inglese; 2) una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno ,pagati dalla borghesia. L'imperialismo dell'inizio del XX secolo ha ultimato la spartizione del mondo tra un piccolo pugno di Stati, ciascuno dei quali sfrutta attualmente (nel senso di spremerne soprapprofitti) una parte del " mondo" quasi altrettanto vasta che quella dell'Inghilterra nel 1858; ciascuno di essi ha sul mercato mondiale una posizione di monopolio grazie ai trust, ai cartelli, al capitale finanziario e ai rapporti da creditore a debitore; ciascuno possiede, fino ad un certo punto, un monopolio coloniale (vedemmo che dei 75 milioni di chilometri quadrati di tutte le colonie del mondo, ben 65 milioni, cioè l'86 % sono nelle mani delle sei grandi potenze; 61 milioni, cioè l'81 % appartengono a tre sole potenze).

La situazione odierna è contraddistinta dall'esistenza di condizioni economiche e politiche tali da accentuare necessariamente l'inconciliabilità dell'opportunismo con gli interessi generali ed essenziali del movimento operaio. L'imperialismo, che era virtualmente nel capitalismo, s'è sviluppato in sistema dominante i monopoli capitalistici hanno preso il primo posto nell'economia e nella politica; la spartizione del mondo è ultimata, e d'altro lato in luogo dell'indiviso monopolio dell'Inghilterra osserviamo la lotta di un piccolo numero di potenze imperialistiche per la partecipazione al monopolio, lotta che caratterizza tutto l'inizio del XX secolo. In nessun paese l'opportunismo può più restare completamente vittorioso nel movimento operaio per una lunga serie di decenni, come fu il caso per l'Inghilterra nella seconda metà del secolo XIX; ma invece in una serie di paesi l'opportunismo è diventato maturo, stramaturo e fradicio, perché esso, sotto l'aspetto di socialsciovinismo, si è fuso interamente con la politica borghese [*14]